giovedì 22 settembre 2011

Restiamo umani?
la testimonianza di Silvia


Restiamo Umani - Stay Human

"Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere. Credo che apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, alla stessa famiglia, che è la famiglia umana".

"I do not believe in borders, in barriers, in flags. I think that we all belong, independently of latitude and longitude, to the same family, the human family".

Vittorio Arrigoni, Besana Brianza 4/2/1975 - Gaza Strip 14/4/2011
Atterro al famigerato aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv un pomeriggio di febbraio 2008. La responsabile della ONG con cui sto andando a fare uno stage mi ha istruito perfettamente su cosa devo dire al controllo passaporti. Innanzi tutto, non devo assolutamente dire che sto andando a fare del volontariato in Palestina. È per questo che mi ha preparato una lettera dove si dice che ho un incarico per studi di fattibilità per progetti di sviluppo nella West Bank. Agli israeliani non piace sentirsi dire che stai andando ad aiutare i palestinesi gratuitamente. Non devo poi neanche dire che sono diretta a Ramallah una volta uscita dall’aeroporto, ma che andrò a Gerusalemme dove vivrò e lavorerò. E soprattutto che non mi salti in mente di dire che le due cooperanti che lavorano là mi sono venute a prendere altrimenti anche loro rischiano un interrogatorio! Con me ho anche una lettera della delegazione della Commissione Europea nei Territori Palestinesi occupati che invita i controlli di sicurezza aeroportuali (leggi ventenni più o meno convinti di quello che stanno facendo nei tre anni del loro servizio militare) a facilitare il mio ingresso in Israele più una copia della registrazione ufficiale in Israele della ONG. Così equipaggiata non mi sembra proprio di essere atterrata sul suolo dell’unica democrazia in medio oriente. La stessa sensazione di disagio che provo da subito appena atterrata la proverò ogni volta che mi troverò in territorio israeliano durante i tre mesi della mia permanenza.

Nel tragitto dall’aeroporto a Ramallah passiamo attraverso i paesaggi occidentali di Israele per arrivare poi a quelli medio orientali della Palestina. Subito mi stupisco di come mi senta più a mio agio in una realtà (apparentemente) diversa da quella a cui sono sempre stata abituata. E subito realizzo anche che la Palestina è molto diversa da quello che mi immaginavo: non è un paese in via di sviluppo. Le settimane successive mi faranno poi capire che la cooperazione allo sviluppo in Palestina non ha senso. Questo è un territorio sotto occupazione e la soluzione dei suoi problemi, anche quelli a prima vista legati alle dinamiche del sottosviluppo come l’assenza di infrastrutture mediche, è solo ed esclusivamente politica. Non mancano le capacità tecniche ai medici e agli architetti palestinesi, molti dei quali hanno studiato in Italia e parlano italiano molto meglio di quanto parlino inglese; quello che manca loro sono le apparecchiature con cui lavorare perché Israele ne controlla e limita l’entrata che è possibile solo attraverso progetti di sviluppo internazionali.

Quella stessa sera andiamo al supermercato di Ramallah, vendono la pasta Barilla e il caffè Lavazza (come del resto in ogni piccolo alimentari in centro), non è decisamente un paese in via di sviluppo e io mi sento a casa (ma ancora di più mi sentirò a casa quando in un supermercato di Hebron troverò il Grana Padano e nella nuova zona commerciale di Ramallah che stanno finendo di costruire mi imbatterò nell’immancabile United Colors of Benetton).
Indubbiamente quella palestinese è una realtà diversa da quella occidentale entro cui ho vissuto tutta la mia vita fino a questo momento, ma qui sento una familiarità che nelle strade della moderna Tel Aviv non riesco a sentire. C’è qualcosa di surreale in quelle strade. Pezzi di occidente incollati in medio oriente. Bocche che parlano lingue occidentali, francese, inglese americano con la perfezione del madrelingua. Sono Ebrei che hanno fatto l’Alyia, che è la pratica di immigrare nello stato d’Israele e prenderne la nazionalità. La perfezione con cui parlano la loro lingua madre rivela la loro estraneità a questa terra. Pezzi di occidente incollati in medio oriente. Israeliani nati a New York da genitori a loro volta nati a New York che non hanno un solo singolo parente sul territorio israeliano. E allora tutte le volte che mi trovo in Israele e sono circondata da occidentali che fanno le cose che facciamo noi occidentali, come bere vino e andare in discoteca, mi sento come se fossi su Marte e anni luce lontana da casa.

Poi per fortuna ritorno tra le case bianche fatte a scatola di Ramallah, tutte con le parabole sui tetti per prendere tutti i canali televisivi possibili e immaginabili, un modo per ingannare l’occupazione. Le case bianche e la polvere delle strade di Palestina. Quando gli amici dall’Europa mi contattano su skype o su Facebook e mi chiedono come sia la Palestina, rispondo sempre “ondulata, polverosa e profumata”. E sarà questo che mi porterò a casa al mio rientro in Italia, insieme alle immagini dei checkpoint e dei palestinesi costretti a scendere dall’autobus per attraversare a piedi i controlli mentre io, internazionale, posso rimanere seduta. Insieme ai racconti dell’assedio del
2002 e alle immagini delle scuole di Yatta, nel distretto di Hebron, che non hanno computer e il cui laboratorio di scienze sta dentro ad un piccolo armadio, insieme a questi racconti e immagini mi porterò a casa l’odore dello zaatar e scarpe impolverate (che mia madre poi mi costringerà a buttare via perché, dirà lei, impresentabili). E ancora, insieme alle fotografie scattate nella città vecchia di Hebron dove una manciata di coloni israeliani getta pietre e immondizia varia sui commercianti palestinesi costringendoli a chiudere le proprie attività, insieme a queste fotografie e all’incontro con un colono di non più di dieci anni che, indicandomi un cimitero, mi dice che là ci sono gli arabi buoni, insieme a questo mi porterò a casa la sensazione di pace che l’ondulato paesaggio palestinese sa regalare. Insieme alle fotografie dei bambini del campo profughi Al Amari alle porte di Ramallah che dormono in salotto perché le camere da letto sono per i fratelli maggiori e le loro mogli e figli, mi porterò a casa l’odore del tè alla salvia che le loro mamme mi offrono quando vado a far loro visita per aggiornare le schede dei bambini e mandarle poi ai donatori in Italia.


Mi porterò a casa l’immagine di un popolo che ha imparato a condurre una vita normale anche se deve passare attraverso un checkpoint per andare a pregare in moschea. Mi porterò a casa un misto di odori che diverranno per me il “profumo della Palestina” anche se so che è il profumo di tutto il medio oriente, ma che per me sarà sempre il “profumo della Palestina” e che oggi, di tanto in tanto, vado a respirare al supermercato mediorientale di Edgware Road in centro a Londra. E soprattutto mi porterò a casa due convinzioni nuove, la prima che è facile fare i pacifisti stando in Europa e che la vera impresa è, invece, tornare da quella terra e continuare a credere nella non violenza, la seconda che la parola equidistanza non ha nessun valore, nessun diritto di esistere nella “questione” israelo-palestinese.

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