lunedì 31 ottobre 2011

Come non risanare l'Italia
di Nicola Melloni

su "Liberazione" del 28/10/2011

Di fronte alle inusitate ed inaccettabili pressioni europee, il governo italiano ha risposto con una lettera d'intenti che presenta un manifesto politico ed ideologico neoliberale ed un programma economico inutile e dannoso.
I cardini di questa svolta conservatrice sono la riforma previdenziale e quella del mercato del lavoro. Iniziamo dal primo intervento, l'aumento dell'età pensionabile a 67 anni e 7 mesi a partire dal 2027. I risparmi programmati con tale riforma sono assai pochi e comunque dilazionati nel tempo. Quindi, se l'obiettivo era trovare risorse per mettere in sicurezza i conti, si tratta di una riforma inutile. Pur tralasciando che il regime pensionistico italiano non è certo il più "lassista" d'Europa, i problemi dell'Inps non si risolvono con l'innalzamento dell'età pensionabile, dato che il sistema previdenziale ha i conti sostanzialmente in ordine, mentre è quello assistenziale a creare problemi di sostenibilità. In generale, il problema dell'invecchiamento della popolazione, che pure esiste, non si risolve certo innalzando l'età pensionabile. Il paese invecchia perchè, rubando il futuro ai giovani, disincentiva la natalità e dunque la potenziale espansione del mercato del lavoro. Inoltre, con un mercato del lavoro asfittico, due anni di lavoro in più per i padri vogliono semplicemente dire due anni di lavoro in meno per i figli, che devono aspettare il ritiro della generazione precedente per trovare lavoro. Non solo. Un aumento dell'età pensionabile peggiorerà inevitabilmente la produttività del lavoro. I lavoratori giovani, per mille evidenti ragioni, sono in media assai più produttivi di quelli più anziani, ormai usurati da 30 anni e passa d'impiego.

Si potrebbe obbiettare che il governo ha pensato anche a questo, cercando di rendere più mobile il mercato del lavoro con il licenziamento facile. Un'assurdità. Il mercato del lavoro è già divenuto estremamente flessibile con la deregolamentazione degli ultimi anni. Ma questa flessibilità estrema è divenuta precarietà e mai opportunità. Con dei costi economici e sociali abnormali. Uno lo abbiamo già visto: bassa natalità, figlia del basso reddito. E a ruota, ovviamente, basso consumo. Ma la precarietà ha soprattutto risvolti economici estremamente negativi. Flessibilità e precarietà vogliono soprattutto dire basso livello d'investimento in capitale umano in quanto solo l'azienda che assume a tempo indeterminato un lavoratore ha l'interesse a farlo progredire professionalmente. In questi anni si è insistito molto sulla bassa produttività del lavoro italiano, ma il problema nasce proprio dal ridotto livello degli investimenti, in tecnologia ed in capitale umano, dell'industria italiana. Ora si fornisce un ulteriore disincentivo alle imprese. Con la flessibilità, sostanzialmente, si chiede all'industria italiana di competere sul prezzo e non sulla qualità del prodotto, che è uno dei motivi fondamentali della crisi del nostro paese che risale a ben prima di quella finanziaria. I fautori della riforma sostengono che libertà di licenziare in realtà significa incentivi per assumere (e dunque anche per investire in formazione), ma in questi anni la flessibilità in entrata (che è poi tale anche in uscita, attraverso i contratti precari) si è semplicemente risolta in supersfruttamento e mediocre produttività. Licenziamento per motivi economici, unito alla fine della contrattazione nazionale, vuol dunque sostanzialmente dire licenziamento dei lavoratori che costano troppo e loro sostituzione con quelli a buon mercato. Con il rischio, nemmeno tanto velato, che il problema generazionale venga risolto col licenziamento dei lavoratori più anziani che così non raggiungerebbero più l'età pensionabile inopinatamente innalzata.

Nè, soprattutto, la riforma del mercato del lavoro accenna ad una necessaria ridefinizione del welfare, che in Italia non esiste, a parte la cassa integrazione. Se anche si volesse discutere seriamente di flexsecurity, si dovrebbe necessariamente partire dal reddito fisso per i disoccupati e dall'investimento pubblico (in quel caso) in capitale umano, con lo Stato che dovrebbe garantire l'aggiornamento ed il rinserimento nel mercato del lavoro, a pari salario e mansioni, come avviene nel Nord Europa. Non solo per una ragione di giustizia sociale, ma per evitare il deperimento dello stesso capitale umano e la sfiducia che porterebbe all'uscita definitiva dal mercato del lavoro.


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