Il downgrading di Francia, Italia e, più recentemente pure dell'Efsf ha scatenato una ridda di reazioni sdegnate. Sarkozy ha usato parole durissime, Draghi ha spiegato che bisogna imparare a fare a meno delle agenzie di rating e che il loro potere va ridotto. Il commissario agli affari economici Olli Rehn è andato oltre, ed ha addirittura accusato le agenzie di rating di essere al servizio degli Stati Uniti. Tutte cose che a dirle fino a poco tempo fa si era tacciati irremediabilmente di vetero-comunismo e di anti-americanismo ideologico.
Anche Obama la scorsa estate aveva attaccato duramente Standard&Poor's dopo che anche gli Stati Uniti avevano perso la tripla A. Più in generale il ruolo delle agenzie di rating è in discussione quantomeno dall'inizio della crisi finanziaria globale. Quelle che per anni erano state descritte come gli oracoli dei mercati avevano fallito miseramente nel dare un giudizio serio del rischio connesso agli investimenti azionari, basti pensare che fino al giorno prima della bancarotta, Lehman Brothers era valutata come investimento ultra sicuro.
Da allora però, nonostante economisti e politici siano d'accordo sulla necessità di una riforma sostanziale del settore, nulla è stato fatto. Non è sorpredente, considerato che i mercati finanziari nel loro complesso non sono stati toccati ed anzi hanno rinforzato ulteriormente il loro potere ed ogni nuova protesta dei leader occidentali serve solo a dimostrare l'impotenza della politica.
Quando Draghi dice che il giudizio delle agenzie di rating è largamente sopravvalutato ha ovviamente ragione. S&P's, Moody's e Fitch svolgono un lavoro che, nella sostanza, è mediocre ed inutile. Come detto, non sono in grado, e molte volte non vogliono valutare correttamente l'operato di grandi imprese ed istituzioni finanziarie che prendono voti altissimi non meritandoli. Il prezzo delle azioni, in quel caso, schizza in alto, aumentando i capital gains dei grandi investitori – ed i guadagni delle stesse agenzie – fino a che la bolla scoppia, distruggendo i risparmi di tanti piccoli investitori (quelli più grandi nella maggior parte dei casi riescono a trovare una via d'uscita, basti pensare al salvataggio di stato delle banche nel 2007).
Nel caso degli stati, il sistema di rating è ancora più ridicolo, basandosi fondamentalmente su dati parziali, impressioni, interviste. Nella maggior parte dei casi il giudizio delle agenzie è semplicemente una copia carbone di quello già emesso dai movimenti di capitale sul mercato secondario. Il primo downgrading dell'Italia, la scorsa estate, non fu la causa ma più che altro il risultato dell'impennata dello spread contro i titoli tedeschi. E lo stesso si può dire ora per quel che riguarda la Francia. In altri casi, il rating è semplicemente assurdo. Basti pensare che la perdita della tripla A negli Stati Uniti ha portato ad un abbassamento e non ad un innalzamento dei tassi di interesse, come invece ci si sarebbe dovuti attendere. O che il downgrading italiano di due settimane fa è avvenuto immediatamente dopo un asta di titoli pubblici di grande successo. Insomma, i giudizi delle agenzie sono spesso inutili, quando non clamorosamente sbagliati e se il mercato finanziario funzionasse in maniera realmente efficiente la triade del rating sarebbe già abbondantemente sparita.
In realtà S&P's and company, sono strumento essenziale e parte integrante del sistema finanziario internazionale, sono le sentinelle del controllo non solo economico ma soprattutto politico che la comunità finanziaria ha su stati e mercati attorno al globo. Non su tutti, a dire il vero: in Cina, ad esempio, esiste una agenzia di rating autonoma ed il governo cinese, ben protetto dalla sua forza economica, se ne infischia tranquillamente del giudizio dei mercati. Il mondo occidentale, invece, vive come ineluttabile la subalternità della politica alla finanza. Ogni giorno ci vengono chiesti sacrifici in grado di rassicurare gli investitori. Ed allora cosa ha da strillare Olli Rehn? Và in giro per l'Europa ad imporre tagli, austherity e recessione ad uso e consumo del capitale transnazionale, e poi critica le agenzie di rating che fanno lo stesso?
Ci si lamenta del peso sproporzionato del rating, ma questo è inevitabile finchè si permette ai mercati di spadroneggiare, di imporre il proprio volere, di speculare senza timori di sorta – non solo sui conti pubblici, ma anche sull'industria privata, ormai serva della leva finanziaria. Si accusano le agenzie di essere organi politici e non super partes, ma non può essere che così, perchè è il mercato tutto ad essere un luogo essenzialmente politico. E dunque, solo una nuova critica dell'economia politica, nel suo complesso e non nelle sue escrescenze, può indicare una via d'uscita dalla crisi.
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