lunedì 16 gennaio 2012

Sorvegliare e seppellire
Il caso del "cimitero dei feti" di Roma
Di Francesca Congiu

Mancano solo le urne cinerarie (quelle per i resti combusti dei sacrifici infantili alle divinità Tanit e Baal) e per il resto l’idea del “cimitero dei feti”, sorto a Roma nel Laurentino  ricorda in tutto e per tutto il rituale di sepoltura dei Tofet, i santuari fenicio-punici di Tharros, Sulscis o Cartagine, costruiti in prossimità delle maggiori necropoli e da queste separati. Probabilmente ispirati dall’origine semitica dell’antico popolo fenicio e dai possibili richiami all’universo biblico, facinorosi antiabortisti cattolici con l’appoggio incondizionato e commosso delle autorità locali, hanno inaugurato qualche giorno fa questo macabro luogo di culto con tutto il suo armamentario kitsch deliberatamente volto a commuovere, impietosire, ingannare: le madonne posticce, le ventoline colorate, i cippi di pietra la cui scritta da lontano potrebbe anche indicare una località della Gallura (e non sarebbe strano ritrovarvi tra qualche tempo sacelli e altari).

Come ricorda Angelo d'Orsi in un recente articolo, non si tratta purtroppo dell’unico caso italiano, visto che a Milano Formigoni con un’analoga iniziativa aveva tolto il primato, bruciandolo sul tempo, al “giardino degli angeli” voluto dal sindaco di Roma.

A colpire, nella vicenda del “cimitero dei feti”, non è solo la rappresentazione di pessimo gusto che ci offre, ma soprattutto quella precisazione insistita delle autorità e delle istituzioni: il luogo deve accogliere solo i feti frutto di aborti spontanei o terapeutici. Tale affermazione, infatti, sottintende la distinzione fra gli aborti di necessità e quelli derivati da una scelta, e palesa in negativo la discriminazione ideologica nei confronti delle donne che optano per un’interruzione volontaria della gravidanza. Il “cimitero dei feti ”si pone quindi come ennesimo tassello dell’estremismo cattolico antiabortista, una crociata le cui tappe, non solo italiane, hanno tratti a volte folkloristici (già nel 1997 l’assessore regionale alla Sanità autorizza un’associazione antiabortista di Novara ad organizzare il “funerale dei feti” ogni fine mese), a volte si fanno aggressivi (nel 2000 due sacerdoti irrompono al S. Camillo di Roma e tentano di impedire l’interruzione di gravidanza di una tredicenne, regolarmente ricoverata con l’autorizzazione del giudice tutelare) a volte persecutori (nel 2003 in Nicaragua – e ci spostiamo in America Latina - una bambina di nove anni, stuprata e rimasta incinta, ha potuto essere sottoposta a interruzione di gravidanza solo segretamente; l’arcivescovo di Managua che si era speso in numerose pressioni psicologiche, evidentemente non andate a buon fine, ha chiesto poi l’incarcerazione dei medici abortisti non prima però di aver proceduto alla loro scomunica).

In Italia tali manifestazioni non si pongono soltanto in contrasto con la comunità scientifica che ha negato l’identità fra feto e persona, ma anche contro la legge, ed in particolare contro la 194 del 1978 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza"), con la quale si riconosceva il diritto della donna ad interrompere, gratuitamente e nelle strutture pubbliche, la gravidanza indesiderata. Con la 194 erano venuti a cadere i reati previsti dal titolo X del libro II del codice penale: prima di quella data l'aborto di una donna consenziente era infatti punito con la reclusione da due a cinque anni, comminati sia all'esecutore dell'aborto che alla donna stessa (art. 546).

Unita alla condanna degli strumenti di contraccezione, questa ossessione per la continuità della vita del feto di cui si sbandierano fantomatici diritti (anche qui in totale disaccordo col Codice Civile dove dall’articolo 1 – “La capacità giuridica si acquista al momento della nascita”- consegue che l’acquisto dell’attitudine ad essere titolari di diritti e di doveri è successivo al venire alla luce), porta con sé la subdola condanna alle donne che volontariamente abortiscono, che non abdicano cioè, al proprio diritto di autodeterminazione, al controllo della propria vita e del proprio corpo. Si registra ancora una volta un affronto ai diritti della donna in quanto persona e insieme l’insanabile contrasto fra l’etica della modernità che fa del dominio di sé l’esito e il fine dell’educazione e dell’emancipazione dell’individuo, e la morale cattolica che ha fatto del controllo dell’anima attraverso quello del corpo, un mezzo per raggiungere il potere, privando e punendo gli individui per quello stesso fondamentale dominio di sé.

La definizione di “potere pastorale” data dal filosofo Michel Foucault è sempre valida: un controllo che mira alla costrizione e alla sottomissione. Si ripropone e ritrova validità l’assunto secondo il quale nella vita delle società secolarizzate, in linea di principio emancipate da ogni rapporto con una verità rivelata, continuano a sussistere e ad operare dei tratti aggressivamente religiosi. Non stupisce ma indigna che la “teologia del potere” ottenga ancora l’avallo delle istituzioni, come nel caso del cimitero di Roma: nel momento in cui la politica offre e impone scelte valoriali e collettive dimostra di aver mutuato per sé stessa quelle tecniche di controllo delle coscienze affinate da una lunga tradizione religiosa, ponendosi così al servizio di una morale specifica e rinunciando alla laicità, fondamentale condizione di uguaglianza. Ciò che si rende evidente, inoltre, è la somiglianza tra potere pastorale e potere patriarcale, a livello sociale politico e familiare.

Fenomeni ideologici tuttora operanti nel tessuto culturale italiano, come la colpevolizzazione della donna che abortisce volontariamente e all’opposto le propagande mediatiche per la “martirizzazione con gloria” di quelle donne che in casi di patologie preferiscono morire invece che abortire, denunciano un irrisolto problema di “genere” operante nella società ad ampio spettro. Bisognerebbe infatti misurare con attenzione quanto questo errore ideologico alligni o aumenti in corrispondenza di una scarsa emancipazione femminile e quanto poi quello stesso errore serva a rinfocolare lo squilibrio di genere, uomo/donna. Si tratta di una marcatura maschilista del tutto palese e tuttora pervasiva per cui si giunge al sospetto che addirittura l’apollinea imparzialità della ricerca scientifica ne abbia subito un condizionamento: pensiamo al ritardo nella conoscenza, alla sottovalutazione, alle diagnosi tardive o mancanti per alcune diffusissime patologie femminili. (A tal proposito, che lo European Research Council incoraggi da diversi anni il settore detto “Women Health”, e che questo stesso interesse si stia verificando anche in Italia, è solo un ulteriore conferma della necessità di sanare uno sbilanciamento che anche a livello scientifico si era fatto ormai evidente).

La pacchiana messa in scena del “Tofet cattolico per feti” all’interno del cimitero romano del Laurentino offre quindi lo spunto per una riflessione sul potere e sul controllo delle coscienze. E porta a ribadire la necessità di uno Stato che difenda i diritti dei cittadini e la libertà di scelta ed autodeterminazione degli individui, senza discriminazione di genere. Uno Stato che soprattutto non conceda il suo “placet” ad un’ideologia medievaleggiante che ancora oggi, attraverso la disciplina del corpo (del corpo femminile in particolare) e
il controllo sul funzionamento della sessualità, si dispone al controllo dell’anima. Non è un caso che in un testo dal titolo emblematico “Sorvegliare e punire”, Foucault avesse parlato dell’anima come “effetto e strumento di una anatomia politica”, allo stesso tempo svelando il cascame più evidente del “potere pastorale”, quello dell’anima come “prigione del corpo”.


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