di Nicola Melloni
da Liberazione
L'accordo sul fiscal cliff e le scelte europee
Proprio in extremis, quando pareva ormai sicuro che l’economia americana potesse cadere nel temuto burrone fiscale, Obama è riuscito a strappare un accordo, seppur ancora temporaneo, tra Democratici e Repubblicani. Il fiscal cliff era stato un escamotage assurdo, concordato un anno e mezzo fa, per consentire al governo di innalzare il debito pubblico, che in America è determinato per legge. Non riuscendo a trovare una mediazione su nessun punto rilevante di politica economica, Democratici e Repubblicani avevano stretto un patto che avrebbe scontentato tutti: più tasse per i ricchi e il ceto medio accompagnati da gravosi tagli di spesa pubblica, una sorta di austerity all’americana che avrebbe riportato l’economia Usa in recessione.Da un anno e mezzo a questa parte le posizioni non si erano riavvicinate più di tanto. I Repubblicani, sobillati dal Tea Party, erano soprattutto impegnati a mantenere gli sgravi fiscali introdotti da Bush ed allo stesso tempo a ridurre notevolmente la spesa pubblica vista come origine principale del debito americano. I democratici invece pretendevano un aumento delle tasse per i ricchi e tagli meno massicci di spesa. Per il momento sembra aver decisamente prevalso la linea di Obama e dei democratici. Le tasse per i ceti più ricchi sono state infine alzate (anche se solo oltre la soglia dei 400mila dollari, mentre i Democratici chiedevano che le aliquote più alte colpissero i redditi da 250mila dollari in su) mentre la discussione sui tagli di spesa sono state rimandate di due mesi.
Obama, al secondo mandato e ormai scafato nei trucchi della politica di Washington, è riuscito a far leva sulle divisioni all’interno del Great Old Party. I conservatori “tradizionali” si sono rifiutati di piegarsi alla logica del “tanto peggio, tanto meglio” degli estremisti del Tea Party che hanno infatti votato contro l’accordo. I Tea Party hanno un approccio ideologizzato fin quasi al fanatismo e vogliono ridurre a tutti i costi il peso dello Stato in economia – dunque poche tasse, e spesa pubblica bassissima, a cominciare dalla riforma sanitaria e dalla social insurance. E non erano disposti a nessun compromesso anche a costo di far sprofondare l’economia in recessione. Ma l’establishment repubblicano e soprattutto i suoi grandi finanziatori non potevano seguirli su questa strada. In fondo neanche i falchi di Wall Street che troveranno una busta paga un poco più leggera a fine anno, erano disposti a tollerare una politica economica suicida che, con la recessione, avrebbe portato ad una riduzione dei profitti. Ed in cambio del loro silente consenso, le grandi corporations, a cominciare da Goldman Sachs, hanno ricevuto da Obama sgravi fiscali e sussidi per un valore di 205 miliardi di dollari.
Sfruttando dunque le divisioni nel campo avversario Obama è riuscito, almeno per il momento ed in attesa delle decisioni sui tagli di spesa, a portare a casa una vittoria piuttosto netta. In realtà questa vittoria è più che altro simbolica e difficilmente cambierà i meccanismi di distribuzione della ricchezza. D’altronde durante il primo mandato di Obama le corporations americane hanno visto la quota profitti ritornare oltre la soglia pre-crisi mentre la quota salari è in calo verticale. E tale situazione non cambierà di certo con la modesta ripartizione fiscale.
Ma anche i simboli sono importanti. Chiedere ai ricchi di cominciare a pagare di più è senza dubbio un primo passo nella giusta direzione. Un primo passo nell’identificazione dei problemi strutturali del capitalismo neoliberista che ha tentato di combinare diseguaglianza e democrazia tramite il ricorso alla leva finanziaria, creando ricchezza fittizia per compensare la perdita di ricchezza reale per i lavoratori. E dunque un ribilanciamento del budget pubblico in maniera meno classista è motivo di soddisfazione.
E soprattutto dovrebbe far riflettere le cancellerie europee ed i partiti che, più a torto che a ragione, ancora oggi si definiscono socialisti. A cominciare dall’Italia, paese in cui, lo sappiamo bene, il debito è arrivato ormai a soglie insostenibili ma anche paese in cui la ricchezza privata rimane altissima e concentrata nelle mani di pochi. Non solo dunque un sentimento di equità ed etica, ma anche la logica economica dovrebbe portare il futuro governo ad andare proprio lì, tra i più abbienti, a cercare le risorse per la cura ed il rilancio della nostra economia. A cominciare da una patrimoniale pesante e da un riordino delle aliquote Irpef in maniera da colpire contemporaneamente patrimoni e redditi più alti, detassando contemporaneamente i redditi più bassi, il lavoro e gli investimenti. Per una volta, ispirarsi al modello americano non sarebbe poi così male.
fonte: http://www.liberazione.it/news-file/La-lezione-di-Obama.htm
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