di Nicola Melloni
da Liberazione
Ma lo scandalo non è un fulmine a ciel sereno
Lo scandalo Finmeccanica non è certo un fulmine a ciel sereno. Delle indagini sui vertici si sapeva da tempo, così come erano già uscite diverse intercettazioni compromettenti. Insomma, tutti erano al corrente di quel che stava per succedere. Tutti o quasi: il governo, azionista principale di Finmeccanica non se ne era accorto, e per dire qualcosa ha dovuto attendere lo showdown con la magistratura. Risultato: Finmeccanica crolla in borsa.E questo appena una settimana dopo lo scandalo Eni-Saipem che ha visto coinvolto il primo gruppo industriale italiano. Le aziende simbolo del capitalismo “di stato” coinvolte in storie imbarazzanti con ricadute devastanti sul nostro sistema economico. Parliamo di due settori strategici, l’energia e la manifattura ad alto tasso di ricerca ed innovazione, che sono ora in balia dei marosi del mercato, mettendo a rischio prestigio internazionale (se mai ancora ce ne fosse stato) e futuro sviluppo industriale. Ed il governo? Assente, per scelta politica. Almeno così ci dicono. Un bel paradosso avere un ministro dello sviluppo economico che quando faceva il banchiere organizzava cordate, salvataggi ed investimenti (dai risultati epicamente catastrofici, come nel caso Alitalia) mentre da quando fa il Ministro teorizza il dovere di non fare politica industriale. Ma anche i governi precedenti non hanno certo brillato in questo senso. Berlusconi concentrato sui suoi interessi privati, ed il centrosinistra sempre timoroso di apparire troppo statalista e che invece di ripensare lo sviluppo economico ha deciso di delegare il tutto a manager pubblici e privati senza offrire alcun vero coordinamento politico.
Il risultato è che da tempo non esiste un progetto su come organizzare l’industria italiana e di come traghettarla nel XXI secolo e fuori dalla crisi. Per incuria, incompetenza ed interessi, spesso nascosti dietro la filosofia politica ed economica, si è rinunciato per tre decenni a fare politica industriale, spiegando che lo Stato deve star fuori dal mercato. Proprio mentre tutte le grandi economie vedono un nuovo protagonismo pubblico. Non solo, come da sempre, in Francia, ma anche negli Stati Uniti dove Obama ha rilanciato tanto l’industria verde quanto quella automobilistica, senza dimenticare che neanche i più liberisti tra i Repubblicani hanno mai perso di vista gli interessi delle industrie di punta americana, dalla difesa all’energia passando, ovviamente, per la finanza.
Niente di tutto questo è stato fatto in Italia. Eni è stata abbandonata dal governo, mentre inglesi e francesi sbarcavano in Libia per mettere la bandierina delle loro compagnie petrolifere a Tripoli. Finmeccanica, senza fondi per investimenti di grande respiro, è stata lasciata ad un management incompetente che si è disfatto di alcuni settori di primaria importanza come l’energia e il settore ferroviario, cioè due chiavi di volta dello sviluppo industriale presente e futuro. Che serve, allora, controllare due aziende come Eni e Finmeccanica se poi il governo non ha una visione chiara dell’assetto economico del Paese?
Ecco allora che sono gli interessi privati a farla da padrone, a discapito dell’interesse collettivo. Sono sempre i soliti noti a girare per tutte le stanze del potere, impegnati solamente a succhiare risorse alla nostra economia e non certo a farla crescere. Un sistema fatto di relazioni personali, di capitalismo famigliare e sottosviluppato che vaga senza una direzione precisa, senza nessun controllo pubblico. Non è diversa la situazione tra Finmeccanica e Mps, dove amministratori incapaci e, a quanto sembra, pure poco onesti, distruggevano un patrimonio industriale di lunga data, occupandosi del giorno per giorno senza saper cosa fare della propria azienda. Si dirà: questi sono i risultati perversi del rapporto politica-economia. Ma non è che nelle aziende totalmente private le cose vadano meglio, basta vedere gli scandali in cui si è infilato il vecchio cuore nevralgico dell’industria italiana, MedioBanca, mentre anche Generali passano da un complotto all’altro, con gli interessi privati degli azionisti che prevalgono continuamente sugli interessi pubblici dell’azienda.
Il problema è quello di un capitalismo acefalo. La vecchia struttura del dirigismo economico della Prima Repubblica ha perso il suo centro pensante, la politica, ed i suoi grandi dirigenti, da Cuccia a Mattei a Carli, cinghia di trasmissione della politica economica e, più volte, anche se non sempre con successo, argine contro i comitati di affari privati. Ora il capitalismo italiano è legato a consorterie e centri di potere senza guida e strategia, strattonato da una parte all’altra da interessi privati, dalla finanza cattolica (Gotti Tedeschi&C compaiono sia nei problemi di Finmeccanica che di Mps, senza dimenticarsi di Fazio e di tutti gli scandali di quel periodo), dai capitalisti di regime (Riva, Benetton, Tronchetti Provera) con la presenza dietro o davanti le quinte dei banchieri della politica (Passera stesso, Geronzi, Bazoli). Tutti, o quasi, impegnati in battaglie non di sistema ma di convenienza. Abbandonato a se stesso, il capitalismo italiano sembra sempre più una gallina senza testa che corre senza una direzione ben precisa, e ben presto destinata a stramazzare al suolo.
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