di Nicola Melloni
da Liberazione
Mica male. Obama inizia il secondo mandato con grinta e decide di mettere Wall Street sotto accusa. Ma è veramente così? La mossa ha un sapore vagamente propagandistico ed anche un po’ vendicativo, in quanto S&P's era l’agenzia di rating che aveva declassato il debito americano. Le altre due grandi agenzie, che sono altrettanto invischiate nella crisi dei subprime, Moody’s e Fitch, al momento non sono state toccate. Questo, sia chiaro, non vuol dire che la decisione di Obama di muovere guerra a S&P's sia sbagliata, anche se non sarà facile provare che ci fu dolo nelle azioni delle agenzie di rating. Ma questa causa legale, per essere veramente significativa, deve essere solo un primo passo in una strategia ben più ampia. Sarebbe infatti abbastanza inutile ed addirittura dannoso fare di S&P's un capro espiatorio. Vorrebbe dire non aver compreso bene la dinamica della crisi, né aver capito a pieno gli errori, che non sono certo stati solo di S&P’s. Anzi.
Le agenzie di rating hanno sempre avuto un gigantesco problema di conflitto di interessi, vengono pagate dalle compagnie su cui emettono le loro valutazioni, e questa, fondamentalmente, è la base per le accuse mosse dalla Casa Bianca a S&P’s. Ma la regolazione di questi conflitti di interesse deve essere fatta dalla politica e dagli organi di sorveglianza. Perché non è stato fatto? Questo conflitto di interessi genera, per la sua stessa natura, un sistema di incentivi che rischia di drogare il mercato. Non c’era bisogno della crisi per saperlo e dunque le autorità americane dovrebbero risponderne almeno quanto le agenzie di rating, che sono state lasciate libere di fare il bello e il cattivo tempo sui mercati finanziari. Si potrebbe dire: vero, ma meglio tardi che mai. Obama si è reso conto del problema e, con l’azione contro S&P’s manda un segnale chiaro e limpido a quel sistema: non saranno più tollerate operazioni e valutazioni meno che trasparenti. Ma non è certo questo il modo di portare avanti una azione politica. La causa avrebbe avuto molto più senso se fosse stata accompagnata da una riforma istituzionale che impedisse, a monte, il ripetersi di queste azioni. Ma nulla di lontanamente significativo in questo senso è stato fatto. Le agenzie di rating, nel 2013, hanno ancora lo stesso potere che avevano nel 2007 e non si può certo regolare un tema così complesso a forza di cause.
Se si volesse davvero prendere il toro per le corna bisognerebbe discutere della stessa esistenza delle agenzie di rating, istituzioni private che hanno però un ruolo pubblico, cioè quello di supervisione dei mercati finanziari. Non dimentichiamo che per molti investitori istituzionali il giudizio delle agenzie di rating non è semplicemente una guida per orientarsi all’interno del complicato mondo dei prodotti finanziari: questi investitori sono obbligati a seguire le indicazioni che provengono da S&P’s e dalle altre agenzie. Lasciare in mano ai privati una funzione così essenziale è di per sé assurdo, a meno che ancora non si creda alla bella favoletta dell’autoregolamentazione dei mercati.
Anche facendo questo saremmo solo all’inizio. La regolamentazione dei derivati e dei mercati Otc non è stata fatta e viene tuttora osteggiata da larga parte dell’establishment, compreso quello democratico. La nomina del nuovo Segretario al Tesoro, Lew, non è un segnale incoraggiante in questo senso. E le grandi banche di Wall Street, intanto, si sono rafforzate, diventando ancora più grandi (e quindi too big to fail) di quanto fossero un lustro fa.
Insomma, Obama ha schierato i cannoni contro S&P’s (e che qualcuno cominci a pagare per i propri sbagli è positivo), ma non sembra esserci nessuna guerra contro Wall Street. Almeno per ora.
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