Il seguente saggio e' tratto da un articolo pubblicato su Aspenia nell'Ottobre 2012, all'indomani della vittoria di Chavez alle elezioni presidenziali. Un articolo che ci aiuta a capire le dinamiche interne ed internazionali che hanno caratterizzato la storia politica di Hugo Chavez
di Michele Testoni
versione completa su Aspenia n.59
Lo scorso 7 ottobre Hugo Chávez è stato rieletto, per la terza volta
consecutiva, Presidente del Venezuela. E, nonostante le pressioni, le accuse
reciproche e gli scontri anche violenti, in un contesto di sostanziale
regolarità e trasparenza. In virtù del referendum costituzionale del 2009, che
ha abolito il consueto vincolo del doppio mandato, estendendo “ad libitum” l’eleggibilità
di tutte le cariche elettive, ora Chávez potrà governare sino, almeno, il 2019.
Vent’anni di potere dal 1998, cioè dall’avvio della rivoluzione bolivariana.
La situazione venezuelana non può essere più considerata come l’ennesima
involuzione autoritaria di un’effimera repubblica delle banane, o come il prodotto
di uno stravagante caudillo
terzomondista ma ancora figlio di una società fondata sul connubio, tutto
latino, di assistenzialismo statalista, corruzione e machismo. Piuttosto, comprendere
le ragioni del consolidamento del chavismo, sia in chiave domestica che
internazionale, richiede collocarne la nascita e il significato all’interno del
complesso di relazioni politiche, economiche e culturali globali in cui è
situata la parabola evolutiva dell’America Latina, e del Venezuela anzitutto.
Quella di Chávez era una vittoria largamente attesa, ma dalle dimensioni differenti
rispetto al passato e, per questo, dalle conseguenze molteplici. Il fatto più
significativo è stata la maggiore contendibilità del voto (.......) [T]ra 2006 e 2012 il vantaggio di Chávez sul candidato di
opposizione è sceso da 3,1 a 1,6 milioni di voti. Ovvero, si è dimezzato.
Le ragioni di tale evoluzione derivano dalle controverse peculiarità del
chavismo, una sorta di Giano bifronte costituito da forti contraddizioni
politiche, economiche e sociali interne, e con ampie ripercussioni
internazionali. Un sistema di governo e sviluppo nuovo, almeno per i suoi
sostenitori, auto-proclamatosi “socialismo del XXI secolo” e fondato sullo
schema “più Stato e meno mercato”. Una democrazia guidata, intrisa di populismo
anti-colonialista e pretorianesimo giacobino, un ibrido di castrismo e
peronismo attratto dalla Russia di Putin e dall’Iran di Ahmadinejad.
Il Venezuela è un attore chiave del Sud America: al quarto posto per
ampiezza demografica e dimensione economica, è soprattutto il maggiore
esportatore continentale di petrolio, dodicesimo a livello mondiale. Attraverso
la PDVSA, la compagnia petrolifera statale, Chávez ha sfruttato appieno l’incremento
dei prezzi energetici, determinato non solo da una crescente domanda globale,
ma anche da una controllata riduzione dell’offerta di greggio da parte
dell’OPEC (di cui il Venezuela è membro fondatore) volta ad accrescere ulteriormente
i ricavi delle esportazioni.
Il boom petrolifero è stato il volano delle politiche sociali, le “missioni
bolivariane”, il fiore all’occhiello di Chávez. Nei suoi quattordici anni di
governo, il livello medio di salari e pensioni è cresciuto, la disoccupazione
si è dimezzata, e il livello di indigenza è diminuito. I tassi di
alfabetizzazione e scolarizzazione sono aumentati, e l’assistenza sanitaria
gratuita è stata estesa alla massa delle grandi baraccopoli di Caracas, dove
sono nati anche mercati agricoli a prezzi assai contenuti. Ciò ha reso il
regime pù forte, legittimandolo sia nei confronti dei poveri che verso i gruppi
dominanti del paese, cioè i militari e la borghesia commerciale. Una solidità
che, malgrado la vasta manipolazione dei media e l’uso dell’apparato pubblico come
ammortizzatore sociale a fini politico-elettorali, ha comunque permesso di mantenere
in vita un certo pluralismo partitico e dell’informazione.
Le difficoltà del Venezuela, tuttavia, sono evidenti. A causa della crisi
economica mondiale, la diminuzione della domanda, dunque del prezzo, di greggio
si è tradotta in una brusca contrazione del PIL (nel 2011 il tasso di crescita
è stato del 2,8%, il peggiore dell’intero Sud America). Fra 2009 e 2011 il
bolivar è stato svalutato quasi del 100% rispetto al dollaro: la bilancia
commerciale rimane positiva, ma l’inflazione è schizzata al 28%, in una reazione
a catena fatta di cambi di valuta illegali, carenze di generi alimentari (in
larga parte importati) e blackout elettrici sempre più numerosi. A tutto
svantaggio dei meno abbienti e della stabilità del bilancio pubblico. (......)
Il principale problema nazionale è però il crimine dilagante. Per l’Osservatorio
Venezuelano sulla Violenza, nel 2011 sono state uccise oltre 19.000 persone,
con un tasso di 48 omicidi ogni 100.000 abitanti (la media globale è di 8,8). Dati
che ne fanno il paese il più pericoloso di tutta l’America Latina, ancor più di
Colombia e Messico, secondo solo all’Honduras. Uno degli aspetti più
inquietanti di questa spirale di violenza è il numero di poliziotti uccisi:
circa 80, finora, nella sola Caracas, in molti casi per mano di ragazzi
giovanissimi. Per Moisés Naím il crescente potere delle organizzazioni dedite
ai traffici di armi, droga, estorsioni e rapimenti, unito alla corrotta
inefficienza del sistema amministrativo e giudiziario, sta trasformando il
Venezuela in uno “Stato mafia””.
Eppure Chávez ha rivinto, e il suo successo trascende i confini del
Venezuela. Non già per la trasformazione sempre più autocratica, ancorché
legittimata democraticamente, del suo governo; quanto per il forte valore che esso
assume a livello internazionale. Pur con difficoltà economiche evidenti,
corruzione e criminalità diffuse, e autoritarismo ormai consolidato, dal 1998 Chávez
mantiene e rafforza la maggioranza del consenso popolare attraverso un tipo di leadership
che in breve è diventata uno dei modelli alternativi di maggiore successo alla
globalizzazione dell’unipolarismo neo-liberista, soprattutto per quella nouvelle vague di leader politici sudamericani
emersa proprio nell’ultimo quindicennio.
Il sentimento di emancipazione delle masse popolari contro l’aristocrazia compradora al soldo di dominatori
stranieri (iberici prima, statunitensi poi) è tra le caratteristiche più
rilevanti della storia e della cultura politica dell’America Latina. Nel
Novecento la sovrapposizione tra anti-imperialismo e anti-americanismo ha
prodotto una lunga ed eterogenea schiera di politici e intellettuali rivoluzionari
– da José Martí a Rubén Darío, da Emiliano Zapata ad Augusto Sandino, da Fidel
Casto a Che Guevara, da Juan Perón a Salvador Allende – accomunati, almeno a
parole, dalla difesa di poveri e diseredati e da politiche economiche
interventiste volte alla nazionalizzazione dei capitali produttivi per scopi
domestici.
Chávez e il chavismo derivano, in larga misura, da questa temperie. Nel
corso degli anni il Venezuela, uno dei pochi paesi sudamericani con una solida
borghesia mercantile, è scivolato verso un sistema sempre più corrotto e instabile,
costellato di ricorrenti colpi di stato militari. L’enorme ricchezza
petrolifera veniva pagata a basso prezzo dalle corporation straniere, e i suoi
ricavi non erano utilizzati per sostenere lo sviluppo del paese e l’espansione
della classe media, ma soprattutto per rafforzare il potere di un’elite ossequiosa
ai dettami della dollar diplomacy statunitense.
Da qui la scarsa credibilità dell’opposizione anti-chavista cui Capriles, però,
è riuscito a dare un volto nuovo e più presentabile.
La politica estera chavista non si inquadra in una logica anti-occidentale
perché anti-democratica, bensì in una anti-americana perché anti-colonialista. Il
suo obiettivo non può che essere un’evoluzione multipolare del sistema
internazionale. Così si spiegano l’amicizia con la Cina, l’Iran e la Russia
nonché, in particolare, il sostegno ad altre leadership rivoluzionarie in Sud America.
Chávez ha sostenuto le FARC in Colombia, l’odiato vicino, ma è stato anzitutto il
promotore del gruppo ALBA, il rassemblement delle nazioni latinoamericane di
ispirazione bolivariana originato dall’alleanza tra Venezuela e Cuba del 2004 a
cui si sono aggiunti, finora, altri sei paesi (in particolare la Bolivia,
l’Ecuador e il Nicaragua).
Ancora più rilevante è stato, quest’estate, l’ingresso del Venezuela nel MERCOSUR,
la principale organizzazione di integrazione economica regionale fondata da Argentina
e Brasile nel 1991 insieme a Paraguay e Uruguay, e oggi asse portante dell’UNASUR,
la sua estensione a tutto il Sud America. Un grande risultato perché offre al
regime una piena legittimazione internazionale, non più ristretta a una
periferia di paesi di scarsa credibilità, ma ora proveniente dai principali
attori regionali. Non è un caso, infatti, che il primo leader straniero a
congratulare Chávez per la sua rielezione sia stata la Presidente
dell’Argentina, Cristina Fernández, una delle figure più attive (e discusse)
del panorama politico sudamericano.
Il successo di Chávez rappresenta anche una battuta d’arresto per il “nuovo
corso” della politica estera latinoamericana degli USA. Abbandonato il disastroso
neo-imperialismo di Bush, l’amministrazione Obama ha adottato un approccio più soft.
Con l’Asia al centro dei propri interessi strategici, Washington ha favorito la
creazione, avvenuta lo scorso giugno, dell’Alleanza del Pacifico, una nuova
zona di libero scambio orientata ai mercati dell’Estremo Oriente costituita da
Cile, Colombia, Messico e Perù (oggi i principali alleati di Washington nella
regione). Una sorta di caucus all’interno dell’APEC e, per certi versi, il
tentativo di creare un’aggregazione alternativa a un MERCOSUR sempre più “fortezza
latina”. (....)
Ciò che
rende il chavismo un fenomeno peculiare è l’apprezzamento di cui gode in larga
parte dell’America Latina, un risultato che nessun altro movimento politico, né
il castrismo né il peronismo, era riuscito a ottenere. (.....)Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete
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