martedì 30 aprile 2013

Quando la moneta non basta


di Nicola Melloni
da Liberazione

In Italia ed in Europa ci si continua a domandare come mai la crisi non finisca, come mai tutta la liquidità messa in circolazione dalla Bce non porti ad una crescita degli investimenti. La risposta più comune è che sia tutta colpa delle banche, un'analisi sottoscritta recentemente anche da Mario Draghi.
La realtà è però diversa. Una visione di questo tipo è in realtà condizionata da una percezione sbagliata del funzionamento del sistema economico, che continua ad essere affidato al mercato. Una percezione che si accompagna perfettamente all’austerity e secondo la quale lo Stato non ha nessun ruolo se non quello di tenere in ordine i conti economici. Di conseguenza, la politica fiscale viene esclusa, almeno nel suo ruolo anti-ciclico, dagli strumenti per uscire dalla crisi e ci si affida semplicemente alla politica monetaria, sostenendo, o meglio, sperando, che un tale afflusso di liquidità a tassi molto bassi possa rilanciare gli investimenti.
Non è successo. L’espansione monetaria si è rivelata la risposta giusta alla domanda sbagliata; un aumento della liquidità del sistema sarebbe utile se la scarsa crescita derivasse dal cosiddetto credit crunch, cioè se ci si trovasse in presenza di offerta di moneta insufficiente. In realtà, invece, si tratta del caso contrario, di scarsità di domanda: sono le imprese ad essere riluttanti ad investire, anzi stanno facendo proprio il contrario, riducendo i propri debiti (deleveraging) per rimettere a posto i propri conti. Detto in parole povere: pochi imprenditori sono disposti ad investire. D’altronde, come potrebbe essere altrimenti? Con la disoccupazione alle stelle, con i consumi in calo, quali sono gli stimoli per fare nuovi investimenti?


fonte: Richard Koo, Institute for New Economic Thinking

In un periodo di crisi, con i fondamentali macroeconomici in continuo peggioramento, l’economia reale al meglio stagnante ed il settore privato in ristrutturazione, le forze del mercato non sono in grado da sole di portare l’economia fuori dalla recessione. A maggior ragione se lo Stato, invece di supportarle, crea le condizioni per un peggioramento del ciclo economico. Quello che è successo in questi anni è una politica monetaria espansiva – appunto i famosi quantitative easing – accompagnati da una politica monetaria restrittiva – l’austerity. Per molto tempo si è provato a dare una giustificazione teorica a questo mix di politiche economiche, continuando sostanzialmente a sostenere quella che Paul Krugman ha chiamato confidence fairy, la fatina della fiducia: rassicuriamo i mercati, mettiamo a posto i conti, ed investimenti ed occupazione riprenderanno. Qualsiasi tipo di intervento attivo dello Stato nell’economia reale è stato accuratamente evitato, anzi, stigmatizzato. La politica fiscale, strumento principe di politiche anti-cicliche, è stata accantonata, per continuare a sponsorizzare una visione del mondo mercatista, che continua a vedere con sospetto qualsiasi tipo di intervento pubblico. Ora ci si comincia, piano piano, a rendersi conto dell’assurdità di questa politica, tanto che anche un oltranzista come Olli Rehn ha effettuato una prima, timidissima, marcia indietro, parlando di aprire una nuova fase post-austerity.
La spesa pubblica aumenta l’occupazione, i salari, il denaro in circolazione, i consumi. Cioè tutto quello di cui ha bisogno l’economia reale. Soprattutto quando, proprio grazie all’espansione monetaria, questa spesa può essere finanziata a costi irrisori.
Infatti una buona fetta della liquidità immessa nelle banche e che non è passata al settore privato, è stata utilizzata per comprare titoli di Stato, di conseguenza abbassando il famigerato spread. E’ tutto qui il segreto di pulcinella: mentre Monti e soci si glorificavano di aver rassicurato i mercati e riportato i tassi di interesse sotto controllo (e l’economia intanto, chissà come mai, non ripartiva), in realtà era a Francoforte che si interveniva per dare respiro agli Stati più soffocati dalla crisi. La Bce, prestando denaro alle banche private ad un tasso irrisorio proprio mentre i mercati finanziari erano pieni di titoli ad alto rendimento, ha di fatto indirettamente prestato denari degli Stati, aggirando il divieto di finanziare i debiti pubblici. Mossa giusta, per altro, anche se rimane un costo sociale implicito nel profitto fatto dalle banche che hanno semplicemente agito da intermediari tra la Bce e gli Stati quando sarebbe stato molto più opportuno che fosse la Banca Centrale ad acquistare direttamente i titoli. Purtroppo però l’assurda austerity imposta dalla Trojka ha limitato artificialmente la maggior capacità degli Stati di aumentare la spesa a costo (quasi) zero.
Come abbiamo detto, dunque, i quantitative easing non hanno avuto nessun effetto, né diretto né indiretto sull’andamento dell’economia reale. La liquidità è rimasta nel sistema finanziario, da una parte abbassando il rendimento dei titoli pubblici e, dall’altra, inflazionando i titoli azionistici. Ci ritroviamo così nuovamente in una situazione in cui l’economia finanziaria è totalmente distaccata da quella reale: borsa in pieno rilancio, sia in Usa che in Europa, a fronte di performance economiche che rimangono tra il mediocre ed il disastroso. Con un curioso – ma in fondo, neanche tanto – paradosso. E cioè che le Banche Centrali, così attente e preoccupate dell’inflazione, lascino che il prezzo delle azioni continui a salire senza un concomitante aumento di valore: un fenomeno, appunto, inflattivo, o se vogliamo il crearsi di un’altra bolla finanziaria. Che favorisce i soliti noti – i percettori di reddito da capitale – mentre il lavoro salariato – ove ancora esista – paga le conseguenze della crisi. Che in questa maniera non finirà mai.

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