di Nicola Melloni
da Liberazione
L’ultima moda europea è la crescita. Tutti vogliono la ripresa
economica, a parole, anche se nessuno sa come ottenerla. Il massimo cui
ci è spinti finora è richiedere qualche mese o anno di più per ridurre
il deficit, come nel caso francese, mentre alcuni paesi, come l’Italia,
per bocca del neo-ministro Saccomanni, rifiutano anche questo
modestissimo aiuto.
Si tratta però di un palliativo, una misura assolutamente insufficiente
che non rilancerebbe la crescita ma, al massimo, rallenterebbe la
recessione. D’altronde l’Europa è dominata da un modello culturale che
non sembra essere intaccato nemmeno dagli ultimi drammatici dati, con la
disoccupazione giovanile che ha raggiunto il 64% in Grecia ed il 58% in
Spagna – in Portogallo è ferma sotto il 40% solo perché i giovani
stanno emigrando in massa, un fenomeno sociale che ci riporta indietro
di quasi un secolo. Gli ultimi vent’anni di storia europea sono stati
caratterizzati da un monetarismo ed una ideologia anti-statale che frena
qualsiasi tentativo di reagire al collasso economico. L’enfasi messa
sull’austerity e sul pareggio di bilancio è la propaganda di chi pensa
che lo Stato sia, a prescindere, parte del problema e non della
soluzione. Un paradigma cui molta della cosiddetta sinistra europea ha
felicemente contribuito nel corso degli anni, a cominciare naturalmente
dal New Labour inglese di marca blairiana che pare ancora essere il
modello di riferimento tra i socialisti europei. Una idea in sostanziale
continuità con il famigerato patto di “stupidità” che legava mani e
piedi alle politiche pubbliche in nome di una supposta superiorità del
mercato.
Ora però tale costrutto ideologico è stato smentito dalla cruda realtà,
come qualsiasi osservatore neutrale potrebbe facilmente notare: la crisi
è nata sui mercati, in particolare nel settore finanziario, e la
successiva crisi dei conti pubblici è il risultato del collasso
economico e non certo la sua causa. Pensare dunque di risolvere un
problema del settore privato – in continua recessione – con politiche
punitive verso il settore pubblico è un controsenso economico e logico,
che è stato abbracciato con entusiasmo in tutto il continente e da
praticamente tutte le forze politiche di governo, conservatori e
pseudo-socialsti, spagnoli e tedeschi. Mentre la Cina reagiva alla crisi
con un programma di stimolo neo-keynesiano che controbilanciava la
caduta della domanda internazionale, mentre Obama lanciava un
mini-programma di sostegno pubblico all’economia che quantomeno
invertiva, seppure parzialmente, l’andamento del Pil, la Ue nordica sta
martirizzando le economie mediterranee. In realtà, dunque, non è lo
Stato ad essere parte del problema, ma la politica, questa politica.
Il nostro paese ne è l’esempio più lampante. Quei partiti che hanno
imposto un suicida fiscal compact, che hanno stravolto il mercato del
lavoro con una riforma demenziale, che hanno cambiato la Costituzione,
che hanno gettato l’Italia in recessione – e che di conseguenza hanno
straperso le elezioni – si sono rimessi insieme e ci vengono a fare
lezioni sulla crescita. Prima hanno distrutto il sistema, ora vorrebbero
metterlo a posto, senza però neanche quel minimo sindacale di
auto-critica, di analisi storica ed economica, di prospettiva politica
che vada appena al di là della propaganda e del piccolo cabotaggio. Non
c’è da stupirsi: sono rappresentanti di quel centro-sinistra che per 20
anni ci ha parlato solo di conti in ordine davanti ad un paese in
declino, e uomini della destra impegnati soprattutto ad abbassare le
tasse per i ricchi. Ora riapplicano solo le loro ricette, trite e
ritrite ma soprattutto inutili, sperando in un miracolo. Che non
avverrà.
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