di Nicola Melloni
da Liberazione
Fatte le elezioni, votato il governo e si ricomincia a parlare di
riforme istituzionali. Per prima cosa, naturalmente, la legge
elettorale, vedremo come. Ma non basta: bisogna fare una "legislatura
costituente" per sancire il passaggio alla Terza Repubblica, dopo che
già si era provato ai tempi del primo governo Prodi e poi ancora durante
il quinquennio berlusconiano tra 2001 e 2006. Ovviamente con un nulla
di fatto. Adesso, le cosiddette riforme, sarebbero ancora più urgenti,
con la crisi economica e l’assedio della cosiddetta anti-politica. Si
vuole il doppio turno per stabilizzare il Parlamento, si vuole il
semi-presidenzialismo per rafforzare l’esecutivo. Si (voleva) il
federalismo per avvicinare i cittadini alle istituzioni. Insomma, si
spera di salvare il salvabile con le riforme dall’alto.
Ma si tratta solo di un tentativo disperato destinato, per l’ennesima
volta a fallire. In Italia siamo un pò tutti ingegneri costituzionali,
dato che è l’argomento preferito di politici e giornali da oltre
vent’anni. Ma non abbiamo ancora capito come funzionano le istituzioni.
Che non sono uno strumento neutro, applicabile in ogni circostanza, ma
sono il prodotto dei rapporti di potere. E che non funzionano “a
prescindere” ma si adattano alle circostanze.
Basta guardare alla legge elettorale, già cambiata due volte in
vent’anni senza per questo aver minimamente migliorato la stabilità e la
governabilità. Prima ci avevano detto che il maggioritario avrebbe dato
esecutivi di legislatura, mentre invece le crisi di governo sono state
frequenti quasi come durante la Prima Repubblica. E la situazione non è
cambiata in meglio col premio di maggioranza, e non certo solo per il
sistema regionale in vigore al senato. In realtà, i governi sono
instabili perché il sistema politico è fragile e frammentato e i partiti
sono deboli e privi di legittimità. Anche nel momento di massima
bi-polarità, tra il 2001 ed il 2008, i partiti prendevano voti ma non
erano in grado di organizzare il consenso. Erano legati a mini-partitini
(basti pensare ai Mastella di turno) o più spesso a cacicchi locali che
erano però indispensabili collettori di voto in alcune zone chiave (dal
punto di vista elettorale) del Paese. E che godevano quindi di un
potere di ricatto fortissimo, pronti sempre a ribellarsi o a fare il
salto della quaglia quando scorgevano altre opportunità o, più
semplicemente, quando venivano “comprati” politicamente in cambio di
fondi, favori, commissioni o appalti.
Pensare di risolvere tale situazione con una nuova legge elettorale,
tipo il doppio turno, è semplicemente utopico. Lasciamo perdere per un
momento il fatto non da poco che in una situazione di un paese spaccato
in tre non esiste alcuna legge elettorale al mondo che possa garantire
la vittoria di uno sugli altri due e, soprattutto, la presenza di una
maggioranza stabile in Parlamento. Se anche questo fosse possibile, il
peso giocato dai potentati locali nella conquista dei seggi più a
rischio (per altro, aumentati esponenzialmente visto che con l’arrivo
del M5S non esistono più seggi sicuri) sarebbe nuovamente decisivo.
Cosicché anche una maggioranza sulla carta sicura si rivelerebbe avere
piedi d’argilla. Ne sia esempio lampante il suicidio del PD, il partito
teoricamente più strutturato e solido, durante l’elezione del Presidente
della Repubblica. Pur con i numeri nettamente a proprio favore, il PD è
riuscito ad impallinare sia Marini che Prodi, rifiutandosi poi di
prendere in considerazione Rodotà perché i franchi tiratori sarebbero
addirittura aumentati. Si tratta, a tutti gli effetti, di un partito
senza vera guida politica e dominato da interessi di corrente,
particolari e locali.
Lo stesso discorso vale per le tante altre riforme di cui abbiamo
sentito parlare e di cui abbiamo visto gli effetti in questi decenni.
Tutti gli ultimi governi hanno governato a colpi di decreto e di
fiducia, eppure ancora oggi si parla di più poteri per l’esecutivo,
senza rendersi conto che i poteri ci sono ma la disorganizzazione
politica e il dilettantismo della classe dirigente li rende
fondamentalmente inutili. La regionalizzazione ha fatto esplodere,
invece di ridurre, la spesa pubblica, con una classe politica che ha
cercato di “comprarsi” i voti invece di proporre piani di rilancio e di
riassetto sociale, con conseguente esplosione della corruzione. Le
privatizzazioni hanno diminuito la competitività del sistema-Italia,
invece di aumentarla, con i grandi imprenditori (dai Riva ai Benetton ai
capitani coraggiosi) più attenti alla rendita che all’investimento. Non
parliamo poi della riforma del mercato del lavoro applicata in un
contesto di piccole e medie imprese (ma anche di grandi, basti pensare
alla Fiat) che sono state incentivate a competere sul prezzo via salari
più bassi, invece che sull’innovazione di prodotto – per cui invece era
d’obbligo un maggiore intervento pubblico sulla scorta del successo dei
distretti industriali degli anni 70. Per tutti gli anni 90 sono state
create autority per rendere la politica terza rispetto al mercato, e poi
sono state riempite (dalla Consob all’Antitrust) di personaggi
improbabili, in carica non per portare avanti il cosiddetto “scopo
istituzionale”, ma per servire il potente di turno. E potremmo
continuare.
Il prossimo round di riforme, con un sistema politico ormai ridotto ai
minimi termini, si annuncia ancora più inutile, se non catastrofico.
Quello su cui bisognerebbe concentrarsi sono le domande sociali di
cambiamento, la riorganizzazione degli interessi economici, politici, di
classe e di sistema, la fine dell’oligarchia politica che non si
cancella con le primarie ma con una ristrutturazione complessiva delle
grandi organizzazioni sociali. Dimenticando una volta per tutte il mito
della società liquida, perché in politica come in economia sono gli
interessi materiali e la loro organizzazione a governare il sistema.
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