di Nicola Melloni
da Liberazione
Il primo atto pubblico del governo Letta è stato un viaggio a Berlino per riferire alla Merkel. Un refrain
ormai consolidato, lo aveva già fatto Monti e anche Bersani in piena
campagna elettorale si era preoccupato di andare in Germania a
rassicurare la Cancelliera invece di preoccuparsi di convincere gli
italiani. Si è visto poi come è finita. E la Merkel non ha mancato di
far vedere la sua benevolenza per l’atto di vassallaggio, riconoscendo i
passi fatti dall’Italia sulla via del "risanamento". Di che passi si
tratti, non è chiaro, con l’economia in recessione, la disoccupazione in
aumento e il numero di giovani fuori dal mercato del lavoro ai massimi
storici.
Un buffetto per Letta, ma nella sostanza i tedeschi sono rimasti
inflessibili sul punto saliente: i paesi in crisi devono fare i compiti a
casa, le riforme strutturali. Leggasi, nessuno ha intenzione di
aiutarli, la competitività dell’economia si ottiene riducendo i salari,
la famigerata deflazione interna, e l’austerity è l’unica
maniera di farlo. Un messaggio, neanche tanto cifrato, che non è solo
indirizzato all’Italia ma anche alla Francia di Hollande che da qualche
giorno ha cominciato a chiedere allentamenti al vincolo di spesa. Letta
non ha nemmeno provato a discutere la retorica dei conti a posto. Anzi,
l’ha ribadita con orgoglio, degno erede del governo Monti, e di quella
tradizione del centrosinistra italiano che dal 1996 in avanti ha fatto
del bilancio in ordine la sua stella cometa. Come se le riforme
strutturali fossero legate ai conti in ordine del governo: il problema
in Italia è legato fondamentalmente alla bassa produttività (e non certo
ai salari alti o alle rigidità del mercato del lavoro) e all’incapacità
del settore privato di investire in ricerca e sviluppo, limitato dalla
dimensione dell’impresa e dalla mancata coordinazione pubblica. Niente a
che vedere col livello del deficit, come richiesto invece dal fiscal compact.
Letta naturalmente ha anche detto che ora è il momento di parlare di crescita a livello europeo da accompagnare all’austerity
dei conti. Anche in questo caso, però, sono parole trite e ritrite. Per
oltre un anno Mario Monti ha parlato di fase due, con la crescita che
sembrava sempre dietro l’angolo. E pure Prodi, in passato, non aveva
resistito alla retorica della ripresa economica dopo le finanziarie
lacrime e sangue. Queste ultime, sempre puntuali, mentre per la crescita
è sempre stato come aspettare Godot.
Letta, come anche i suoi predecessori, scommette su un paradosso,
mettendo insieme due concetti che, nello stato attuale dell’economia,
sono inconciliabili: stretta fiscale e aumento del Pil. Ancora non
sembra passare il concetto che le politiche fiscali restrittive uccidono
l’economia reale quando questa è stagnante (come lo è stata in Italia
per vent’anni) o addirittura in recessione, come ora. Il momento dell’austerity è la crescita, come diceva Keynes, non la crisi.
Il nuovo Primo Ministro pensa di rimettere in moto l’economia
semplicemente con un piano per rilanciare gli investimenti a livello
europeo. Sarebbe un primo passo, ma assolutamente insufficiente. Intanto
di che tipo di investimenti parliamo? Del Tav, che ha un effetto
espansivo minimo, geograficamente limitato, con pochissime ricadute su
altri settori e che sarà pronto tra una trentina d’anni? O invece, per
esempio, del miglioramento della rete ferroviaria locale, che darebbe
lavoro ad un numero molto maggiore di addetti, che migliorerebbe la
qualità della vita di molti ma, soprattutto, renderebbe più efficiente
il sistema economico, diminuendo i ritardi e le ore perse? Parliamo di
soldi buttati negli F35, dove il valore generato dagli investimenti in
Finmeccanica è inferiore alla spesa totale, o di ammodernare il sistema
aeroportuale in disfacimento, con nessun aeroporto italiano incluso
nella lista dei primi 100 al mondo – con buona pace della valorizzazione
del turismo?
Più in generale, la spesa pubblica – ovvero, l’opposto dell’austerity
– è necessaria, mentre il settore privato è in ritirata. In pratica, le
finanze statali devono reagire in maniera opposta a quello che succede
nel settore privato, quando questo si indebita (investe) di meno, è lo
Stato a dover sostenere l’economia, per evitare una spirale depressiva.
Gli investimenti però non bastano, bisogna attuare politiche di sostegno
attivo alla domanda – e, ovviamente, all’occupazione - per rilanciare i
consumi e dunque cambiare le aspettative e gli investimenti del settore
privato. In breve, altro che epica dei conti a posto, bisogna spendere
di più per uscire dalla recessione. O ci si prepara a mettere la
Germania con le spalle al muro o la crisi spazzerà via l’Europa.
Io credo che i problemi del bilancio italiano siano anche e soprattutto dovuti all'evasione fiscale (mafie comprese. O mi sbablio?
RispondiEliminaNon sbagli, ovviamente. Pero' mentre dobbiamo recuperare il maltolto quello che abbiamo in cassa dobbiamo usarlo intelligentemente.
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