giovedì 2 maggio 2013

Pellegrinaggio a Berlino

di Nicola Melloni
da Liberazione

Il primo atto pubblico del governo Letta è stato un viaggio a Berlino per riferire alla Merkel. Un refrain ormai consolidato, lo aveva già fatto Monti e anche Bersani in piena campagna elettorale si era preoccupato di andare in Germania a rassicurare la Cancelliera invece di preoccuparsi di convincere gli italiani. Si è visto poi come è finita. E la Merkel non ha mancato di far vedere la sua benevolenza per l’atto di vassallaggio, riconoscendo i passi fatti dall’Italia sulla via del "risanamento". Di che passi si tratti, non è chiaro, con l’economia in recessione, la disoccupazione in aumento e il numero di giovani fuori dal mercato del lavoro ai massimi storici.
Un buffetto per Letta, ma nella sostanza i tedeschi sono rimasti inflessibili sul punto saliente: i paesi in crisi devono fare i compiti a casa, le riforme strutturali. Leggasi, nessuno ha intenzione di aiutarli, la competitività dell’economia si ottiene riducendo i salari, la famigerata deflazione interna, e l’austerity è l’unica maniera di farlo. Un messaggio, neanche tanto cifrato, che non è solo indirizzato all’Italia ma anche alla Francia di Hollande che da qualche giorno ha cominciato a chiedere allentamenti al vincolo di spesa. Letta non ha nemmeno provato a discutere la retorica dei conti a posto. Anzi, l’ha ribadita con orgoglio, degno erede del governo Monti, e di quella tradizione del centrosinistra italiano che dal 1996 in avanti ha fatto del bilancio in ordine la sua stella cometa. Come se le riforme strutturali fossero legate ai conti in ordine del governo: il problema in Italia è legato fondamentalmente alla bassa produttività (e non certo ai salari alti o alle rigidità del mercato del lavoro) e all’incapacità del settore privato di investire in ricerca e sviluppo, limitato dalla dimensione dell’impresa e dalla mancata coordinazione pubblica. Niente a che vedere col livello del deficit, come richiesto invece dal fiscal compact.
Letta naturalmente ha anche detto che ora è il momento di parlare di crescita a livello europeo da accompagnare all’austerity dei conti. Anche in questo caso, però, sono parole trite e ritrite. Per oltre un anno Mario Monti ha parlato di fase due, con la crescita che sembrava sempre dietro l’angolo. E pure Prodi, in passato, non aveva resistito alla retorica della ripresa economica dopo le finanziarie lacrime e sangue. Queste ultime, sempre puntuali, mentre per la crescita è sempre stato come aspettare Godot.
Letta, come anche i suoi predecessori, scommette su un paradosso, mettendo insieme due concetti che, nello stato attuale dell’economia, sono inconciliabili: stretta fiscale e aumento del Pil. Ancora non sembra passare il concetto che le politiche fiscali restrittive uccidono l’economia reale quando questa è stagnante (come lo è stata in Italia per vent’anni) o addirittura in recessione, come ora. Il momento dell’austerity è la crescita, come diceva Keynes, non la crisi.
Il nuovo Primo Ministro pensa di rimettere in moto l’economia semplicemente con un piano per rilanciare gli investimenti a livello europeo. Sarebbe un primo passo, ma assolutamente insufficiente. Intanto di che tipo di investimenti parliamo? Del Tav, che ha un effetto espansivo minimo, geograficamente limitato, con pochissime ricadute su altri settori e che sarà pronto tra una trentina d’anni? O invece, per esempio, del miglioramento della rete ferroviaria locale, che darebbe lavoro ad un numero molto maggiore di addetti, che migliorerebbe la qualità della vita di molti ma, soprattutto, renderebbe più efficiente il sistema economico, diminuendo i ritardi e le ore perse? Parliamo di soldi buttati negli F35, dove il valore generato dagli investimenti in Finmeccanica è inferiore alla spesa totale, o di ammodernare il sistema aeroportuale in disfacimento, con nessun aeroporto italiano incluso nella lista dei primi 100 al mondo – con buona pace della valorizzazione del turismo?
Più in generale, la spesa pubblica – ovvero, l’opposto dell’austerity – è necessaria, mentre il settore privato è in ritirata. In pratica, le finanze statali devono reagire in maniera opposta a quello che succede nel settore privato, quando questo si indebita (investe) di meno, è lo Stato a dover sostenere l’economia, per evitare una spirale depressiva. Gli investimenti però non bastano, bisogna attuare politiche di sostegno attivo alla domanda – e, ovviamente, all’occupazione - per rilanciare i consumi e dunque cambiare le aspettative e gli investimenti del settore privato. In breve, altro che epica dei conti a posto, bisogna spendere di più per uscire dalla recessione. O ci si prepara a mettere la Germania con le spalle al muro o la crisi spazzerà via l’Europa.

2 commenti:

  1. Io credo che i problemi del bilancio italiano siano anche e soprattutto dovuti all'evasione fiscale (mafie comprese. O mi sbablio?

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    1. Non sbagli, ovviamente. Pero' mentre dobbiamo recuperare il maltolto quello che abbiamo in cassa dobbiamo usarlo intelligentemente.

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