Il G20 finanziario dello scorso weekend è stato l'ennesimo appuntamento ad uso delle telecamere che non ha portato a nessun risultato concreto. Anzi, leggendo tra le righe si capisce come ormai l'egemonia americana abbia lasciato spazio ad un nuovo disordine mondiale.
I temi in discussione erano soprattutto due, i disequilibri commerciali - esemplificati dal deficit americano e dal surplus cinese - e l'aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime. Nel primo caso, gli Stati Uniti hanno continuato a chiedere con forza uno stabilizzatore automatico per evitare il ripetersi di situazioni come quelle attuali ma non hanno ottenuto nient'altro che dichiarazioni formali. Washington continua il pressing su Pechino perchè rivaluti lo yuan, in tal maniera da ridurre le importazioni cinesi e rendere più competitive le merci americane. Ma una analisi più approfondita rivela che tale richiesta semplifica un problema ben più sostanziale, senza dare una risposta di sistema. Infatti in questi ultimi cinque anni la Cina ha lasciato che la propria valuta si riapprezzasse di oltre il 20 percento in termini nominali senza che il deficit commerciale americano diminuisse in maniera sostanziale. E soprattutto, se si tiene conto della crescente inflazione cinese che determina un sempre più alto costo del lavoro, lo yuan si è rivalutato, in termini reali, di quasi il 50 percento. Il punto è che ormai molte merci non vengono più prodotte in Occidente, le fabbriche sono state delocalizzate e la Cina offre, nonostante l'inflazione, rendimenti sugli investimenti molto più alti di quelli che possano garantire gli Stati Uniti. La Cina, nonostante la crisi internazionale, ha continuato a crescere e quindi continua ad attirare il capitale internazionale. Non può certo essere un mero riaggiustamento del cambio a modificare questa situazione.
La crescita economica cinese e l'inflazione che l'accompagna ci porta al problema successivo - l'impennata dei prezzi delle materie prime. Tremonti ha parlato di gravi responsabilità della speculazione internazionale che scommettendo su una ripresa economica anche in Occidente ha spinto i prezzi verso l'alto. Questo è sicuramente vero, ma, nuovamente, si tratta solo di una escrescenza del problema e non della sua vera natura. In Europa e negli Stati Uniti siamo sempre stati abituati a pensare che nei periodi di recessione i prezzi delle materie prime sarebbero calati a causa della diminuita domanda, e per secoli, infatti, le cose si sono svolte esattamente in questa maniera. La situazione però ora è cambiata, drammaticamente. Negli Stati Uniti i salari sono stagnanti e la disoccupazione non decresce, ciò nonostantel’inflazione a Gennaio è cresciuta dell’1.6%, guidata dall’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità – energia e cibo. Una situazione simile si sta concretizzando in Europa, con ef- fetti facilmente immaginabili, diminu- zione del potere d’acquisto dei salari e peggioramento delle condizioni di vita per i detentori di reddito da lavoro. La crescita dei prezzi è provocata dalla prepotente entrata nei mercati internazionali di Cina, India, Brasile che più che compensano la stagnazione delle economie occidentali, nel frattempo generando una situazione di disastro sociale nelle economie più deboli, come quelle del Maghreb, dove il rincaro delle materie prima ha effetti devastanti. La questione sociale però rischia di non fermarsi a sud del Meditteraneo. In una Europa sempre più impoverita e marginale la crisi rimette al centro della discussione politica la questione sociale. Questione sociale che, ovviamente, non è mai sparita ma è stata tenuta sotto controllo in questi ultimi vent’anni di egemonia neo-liberale dal processo di globalizzazione di marca americana che permetteva l’arrivo di merci a bassissimo costo dal Sud e soprattutto dall’Est del mondo. I salari sono rimasti in molti casi stagnanti, la forbice tra ricchi e poveri si è allargata, ma il potere d’acquisto si è mantenuto nella maggior parte dei casi intatto. Ma proprio il mo- dello di sfruttamento compulsivo del- le economie emergenti ci ha portato al- la situazione attuale, dimenticando che il capitalismo è sempre stato legato alla produzione di valore, e quindi di mer- ci, e dunque il cuore del capitalismo mondiale si è mano a mano spostato verso Oriente. La crisi finanziaria e la fine dell’egemonia americana ci lasciano quindi un mondo disordinato in cui le tensioni – tanto domestiche quanto internazionali – si susseguono. Il G20 non è neanche in grado di imporre re- strizioni sui movimenti di capitale che ridarebbero fiato agli stati, restringendo le capacità della finanza internazionale di imporre le proprie politiche economiche prova ne sia l’intensa attività di lobby esercitata dalle associazioni im- prenditoriali americane nei giorni scorsi in difesa della mobilità del capitale e degli accordi di libero scambio. Lasciare che sia ancora la supposta ma inesistente razionalità del mercato ad aggiustare la crisi e gli squilibri è utopia e, più spesso, malafede. Il capitalismo liberale porta sperequazioni, povertà, disastri sociali ed ecologici. La depoliticizzazione dei mercati ha disarmato i governi e svuotato la democrazia di ogni conte- nuto significativo, ma la crisi sta ripor- tando la politica fuori dalle borse, nelle piazze gremite di mezzo mondo. Piazze che gridano non solo contro il Mubarak ed il Berlusconi di turno, ma lottano per conquistarsi un posto nel mondo, un futuro migliore. Democrazia non vuol dire solo libere elezioni, ma soprattutto capacità di controllare il processo decisionale, di condizionare le scelte politiche ed economiche. Di controllare le condizioni materiali della maggioranza della popolazione, anche a scapito di una minoranza di ricchi. Da lì è inevitabile ripartire per costruire l’alternativa ad un sistema sempre più auto-referenziale e avviato verso il collasso.
Nicola Melloni (Liberazione, 22-2-2011)
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