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lunedì 13 maggio 2013

La fine del centrismo


Per anni ci siamo sentiti dire che le elezioni si vincevano al centro, e forse per un po' di tempo è stato anche vero, con la sconfitta globale della sinistra e l'appiattimento di centrodestra e centrosinistra su un programma moderato e pro-mercato, in cui le differenze spesso sono state sui diritti civili e sul carisma della leadership piuttosto che sui programmi di governo.
Ma con la crisi tutto è cambiato, un pò ovunque. In America un presidente nero - ed inizialmente portatore di istanze fortemente progressiste, almeno per l'elettorato americano - è stato eletto, mentre i Repubblicani hanno mobilizzato il loro consenso attraverso una piattaforma dichiaratamente estremista. Ed in Europa sta succedendo la stessa cosa, in maniera ancora più evidente. In Grecia è sparita la sinistra moderata del PASOK e la sinistra radicale è in lotta per essere il primo partito. In Francia il governo Hollande - votato al primo turno da una maggioranza tutt'altro che schiacciate - è in seria difficoltà nei sondaggi, e sia sinistra che destra sono in forte ascesa. In Italia PD e PDL hanno perso insieme circa il 25% dei voti - con la conseguente ascesa del M5S, un movimento radical movimentista, quanto di più lontano dal centrismo si possa immaginare.
Ed in Spagna, come mostra l'articolo qui sotto, PP e PSOE sono ormai alla canna del gas: il primo paga un governo inutile ed inviso alla popolazione, mentre il PSOE non riesce nemmeno a capitalizzare dalla frana dei popolari. Da una parte la sinistra di Izquierda Unida, dall'altra il nazionalismo regionale fanno ormai la parte del leone.
La crisi economica è ormai diventata crisi di sistema, mentre ancora discutiamo sull'importanza dei conti in ordine.


Gobierno sin liderazgo ni apoyo


di Fernando Garea
da El Pais




La rueda de prensa posterior al Consejo de Ministros del 26 de abril fue vista como el punto de no retorno del Gobierno de Mariano Rajoy. Como el momento en el que las expectativas que creó antes de las elecciones de noviembre de 2011 se venían abajo al admitir, por ejemplo, que no se crearía empleo en esta legislatura. Los 6,2 millones de parados y esa imagen de rendición se concretan dos semanas después en un desmoronamiento de la imagen del Gobierno y de su presidente, según el sondeo de Metroscopia para EL PAÍS. El PP está en el 22,5% de estimación de voto, es decir, casi en la mitad del 44,6% de las últimas generales. En caso de elecciones, parte de su electorado podría movilizarse, pero ese 22,5% es el resumen del estado de ánimo del momento.
Ha perdido dos puntos en un mes y de su caída libre da cuenta que la tercera fuerza, Izquierda Unida, está a solo seis puntos de los populares. Gobiernan con mayoría absoluta, en soledad y, según el sondeo, completamente alejados del sentir ciudadano.
Todos los indicadores muestran que la imagen del Gobierno y de su presidente se han derrumbado. No ha servido para frenar la caída la comparecencia de Rajoy en el Congreso el miércoles, con apariencia de discurso dirigido a los cuadros de su partido, más que a los españoles faltos de liderazgo. Vendió con el entusiasmo del que es capaz su éxito sobre la prima de riesgo, un dato intangible para los que sufren recortes y desempleo. Los indicadores de rechazo global llegan a cifras récord: el 80% tiene una impresión negativa del Gobierno; el 74% da por hecho que improvisa; el 87% desconfía de Rajoy y el 77% desaprueba su gestión.
Hay siete ministros que suspenden entre los votantes del PP y, pese todo, el presidente valora positivamente la labor de los miembros de su equipo y asegura que no tiene intención de cambiar a ninguno antes del verano. El Gobierno está reducido a escombros como lo prueba que los ciudadanos sean más críticos con el actual Gabinete de lo que fueron nunca con el último de José Luis Rodríguez Zapatero, que acabó como acabó. Como Rajoy nunca ha sido un líder, la paz interna acrítica se la daba su poder institucional y la abrumadora mayoría absoluta, pero ahora la desesperanza ha empezado a abrir grietas entre él y sectores ruidosos del partido que ven traicionados sus principios sin resultados. Esperanza Aguirre y otros barones regionales no ocultan su disgusto por el incumplimiento masivo del programa y el entierro de sus expectativas. Y la respuesta de Rajoy, para que todos sepan que seguirá sin cambiar el paso, se asemeja a la inscripción de la entrada del infierno de Dante: Que abandonen toda esperanza. La falta de liderazgo hunde la impresión general sobre los principales partidos, porque solo la mitad de los españoles dice que votaría y la tercera fuerza política sería hoy la de la papeleta en blanco.
No hay amparo en el PSOE porque Alfredo Pérez Rubalcaba está en el punto en el que todos girarían la cabeza descreídos aunque proclamara el establecimiento del paraíso terrenal en la tierra. Su imagen se sigue deteriorando, a la espera de ver si aguanta un año más en su travesía de redefinición ideológica y con el PSOE en una estimación de voto del 20,2%, la más baja de su historia, a 2,3 puntos del PP, pero con solo una ventaja de 3,8 puntos sobre IU.
La pregunta entre los dirigentes del PSOE es qué puede ocurrir en las elecciones europeas de dentro de un año, cuando castigar a los dos grandes partidos no tiene consecuencia en gobiernos concretos y hay una circunscripción única que les perjudica. Dirigentes socialistas empiezan a prepararse, si alguien no lo remedia, ante la posibilidad cierta de ser la tercera fuerza política por primera vez.
UPyD se mantiene por encima del 13% con pequeños altibajos, es decir, casi triplica su último resultado.
En este páramo de liderazgo político, los ciudadanos lamentan la ausencia de iniciativas de pacto de Estado frente a la crisis. Un 71% desearía ese acuerdo y el 76% no distingue al atribuir responsabilidad en la falta de iniciativa, pero mira especialmente a Rajoy como culpable. El presidente ya dejó claro el miércoles en el Congreso que no quiere ayuda. Intentará en breve un acercamiento a sindicatos y patronal, pero prefiere refugiarse en el poder de su mayoría absoluta. Ha renunciado al consenso político, ha abandonado el consenso ciudadano y peligra su consenso interno.

venerdì 10 maggio 2013

Spagna: crisi economica


Questo interessante articolo, pubblicato originalmente su Infolibre e tradotto da Presseurop, ci parla di una Spagna ormai al collasso, povertà, disoccupazione, disperazione. Eppure una Spagna politicamente immobile, che non lotta per il cambiamento. Da una parte, come spesso, la disillusione con la politica porta ad una passività dell'elettorato che non vede vie d'uscita. Dall'altra la mancanza di una grande idea alternativa, che possiamo far risalire alla sconfitta del socialismo, da cui la sinistra ancora non si è ripresa, nè in Spagna, nè altrove, taglia le gambe a qualsiasi speranza di un mondo diverso. Ed infine, dato importante e forse decisivo, bisogna ricordare che anche in periodi di crisi una larga parte della popolazione ha ancora qualcosa da perdere, casa, risparmi, beni materiali, e che è quindi più preoccupata a salvare quello che ancora ha invece che lottare per riconquistare quello che ha perso.



Nonostante la disoccupazione di massa, gli sfratti e i tagli, contestazioni e disordini sono ancora isolati. La paura di perdere il benessere residuo è più forte della rabbia.
da Infolibre

Siamo nel quinto anno della crisi. La disoccupazione, la povertà e l’esclusione sociale aumentano; si registrano i primi casi di malnutrizione infantile; decine di famiglie sono state sfrattate dalle loro case; i salari continuano a scendere ma lo stesso non accade ai prezzi dei beni e dei servizi. La gente ha capito che la tempesta non è passeggera e potrebbe durare ancora per anni. Perché la società non si ribella? Perché il sistema non salta per aria? Quanto può reggere la Spagna prima che esploda la rivolta?
È difficile pensare a un concorso di cause più favorevole a una detonazione sociale. In primo luogo, gli effetti della crisi sono devastanti. Come fa a sopravvivere un paese con sei milioni di disoccupati? La cosa peggiore è che la disoccupazione continua ad aumentare, e la domanda interna crolla vertiginosamente. I risparmi e gli aiuti che hanno permesso a molti di tirare avanti stanno cominciano a esaurirsi. Tra coloro che hanno un lavoro, molti percepiscono uno stipendio di sussistenza nell’economia sommersa.
In secondo luogo le inclementi politiche di austerity imposte alla Spagna e all’Unione europea servono solo a dissanguare il paese e allontanare la ripresa. Anziché investire per bilanciare il calo della domanda, il governo sta tagliando tutte le voci di spesa dall’amministrazione. In questo modo non soltanto si aggrava la crisi, ma si compromette la copertura sociale per le persone colpite dalla disoccupazione e dalla povertà. Sembra che il governo e l’Ue abbiano stabilito che l’uscita dalla crisi deve passare per l’impoverimento generale della maggioranza degli spagnoli. Il significato di “svalutazione interna” è precisamente questo.
In terzo luogo è cresciuta la percezione di una divisione dei sacrifici enormemente iniqua. Il caso più clamoroso, ma non certo l’unico, è quello degli sfratti. Lo stato stanzia importanti aiuti e si indebita fino al collo per salvare le banche, ma non fa nulla per porre fine al dramma di coloro che non riescono a pagare il mutuo. L’insensibilità dei poteri pubblici e dei grandi partiti davanti a questa tragedia ha contribuito ad alimentare l’indignazione di buona parte della popolazione.
In quarto luogo, come accade spesso in momenti come questo, la speranza viene meno. Nonostante la propaganda del governo e la promessa di una ripresa imminente, la gente ha capito che stiamo attraversando una fase duratura di stanca, e dunque ci attendono anni difficili.
Infine siamo penalizzati da un governo inefficace e composto da partiti corrotti. Sembra incredibile, ma in uno scenario così doloroso abbiamo un presidente del governo che è ricattato per il finanziamento illecito del partito che dirige.
Nonostante tutte le calamità che ho appena enumerato, però, la gente ancora non si ribella. Che sta succedendo?
Da una parte, ormai non ci sono più alternative. Oggi non esiste un’ideologia in grado di proporre un cammino alternativo a quello attuale o di organizzare una resistenza collettiva. La popolazione si lascia dominare dalla rabbia, che si traduce nell’alienazione e nel rifiuto del sistema economico e politico ma non si cristallizza in un movimento che possa rappresentare una minaccia collettiva.

La soglia argentina

Inoltre, nonostante l’impoverimento generalizzato, la Spagna mantiene un livello di sviluppo considerevole, e sappiamo che le democrazie sviluppate sono straordinariamente stabili e possono sopportare quasi tutto. In questo senso c’è un dato storico molto significativo: non è mai successo che una democrazia con un pil pro capite inferiore a quello dell’Argentina del 1976 sia collassata.
La Spagna ha un pil pro capite molto superiore a quella soglia, nonostante la crisi degli ultimi anni. Per questo motivo è prevedibile che ci siano episodi violenti e tensioni, ma non una rivolta generalizzata. Ciò accade in parte perché lo stato è molto potente e può facilmente reprimere la protesta, e in parte perché ci sono molte famiglie proprietarie di immobili o attive in borsa che non sono disposte a rischiare il loro futuro in avventure dal risultato incerto. Lo sviluppo porta con sé un alto livello di conservatorismo politico in tutti i settori della società.
Il sintomo più chiaro del fatto che la gente, per quanto esasperata, non intende correre rischi, è l’assenza di un dibattito pubblico in Spagna sull’opportunità di restare all’interno dell’eurozona. Nonostante l’unione monetaria si sia rivelata una trappola per topi, quasi nessuno è pronto ad accettare le conseguenze a breve termine di un’uscita dall’euro. Intanto la gente continua a indirizzare le proprie lamentele contro i partiti e le istituzioni spagnole nonostante il problema risieda più in alto, nelle leggi che regolano il funzionamento dell’euro e nelle politiche decise dai paesi del nord.
Certo, l’opinione che il popolo ha delle istituzioni europee è crollata, ma non ci sono state conseguenze. L’appoggio nei confronti dell’euro è netto e costante, e fino a quando resterà tale non ci sarà alcuna rivolta. E alla fine continueremo a sopportare una situazione che comunque la si consideri resta intollerabile.
(tradotto per pressurop da Andrea Saracino)

sabato 6 aprile 2013

L'Italia, la crisi e gli scenari catastrofici

di Nicola Melloni
da Liberazione

Come riportato da Federico Fubini sulle pagine del Corriere, la comunità economica internazionale tiene sotto costante scrutinio l’Italia. In questi giorni, alla conferenza dell’Institute for New Economic Thinking i delegati si sono trovati sotto gli occhi un breve documento prodotto da Bridgewater – il più grande hedge fund del mondo – che propone uno scenario catastrofico, per quanto improbabile: Grillo che vince le elezioni, l’Italia che esce dall’euro, l’Europa che collassa.
Il documento Bridgewater calcola una possibilità del 5-10% che questo scenario diventi reale. Un rischio marginale ma non proprio irrilevante. E, forse, sottostima i rischi. La crisi infatti sta entrando nella sua fase peggiore, nonostante politici, analisti, giornali ci continuino a ripetere che la ripresa è dietro l’angolo. La realtà, invece, è assai diversa. Le stime economiche parlano di continua recessione e, soprattutto, di un decennio di stagnazione alla fine del quinquennio di crollo economico, con devastanti conseguenze sociali. Questo infatti vorrebbe dire che non c’è, all’orizzonte, nessuna vera speranza di ripresa dell’occupazione se non, come nel Regno Unito, di lavoro precario e stagionale. Inoltre, gli effetti occupazionali della crisi vengono magnificati da un cambiamento strutturale nell’industria che, attraverso un nuovo ciclo di automatizzazione, sta ricominciando a produrre diminuendo la forza-lavoro impiegata, come nel caso degli Stati Uniti. Insomma, crescita zero, o quasi, con una quota sempre maggiore di profitti a danno della quota salari.
In tutto questo i governi della Ue non solo non riescono a rilanciare la crescita ma stanno anzi peggiorando la crisi, che ormai esce dai confini del Sud Europa. La Francia è quasi in recessione, tant’è che il ministro Moscovici ha chiesto più tempo alla Ue per raggiungere il target del deficit che rischia di costare altre centinaia di migliaia di posti di lavoro. La risposta tedesca è stata immediata: il rigore non è in contrasto con la crescita.
Lo schema proposto è sempre lo stesso: la disoccupazione si traduce in salari minori che rilancerebbero dunque produttività e competitività. L’aggiustamento strutturale delle economie del Sud Europa dovrebbe dunque avvenire sulla pelle dei lavoratori – come spiegato senza tanti giri di parole dalle ricerche della banca d’affari francese Natixis. Allo stesso tempo, i salari ridotti permetterebbero una riduzione dell’inflazione e dunque tassi di interesse molto bassi per poter rifinanziare il debito.
Un ragionamento economicista (per altro, come abbiamo detto più volte, drammaticamente sbagliato) che non tiene in conto le decisive variabili sociali e politiche. Ed è in questo, indubbiamente, che il documento di Bridgewater potrebbe rappresentare una salutare boccata di aria fresca. L’analisi della crisi deve muoversi dall’economia alla politica. In Europa tassi di disoccupazione simili a quelli attuali non sono stati registrati per quasi un secolo, e questo sta mettendo sotto tensione la tenuta del patto sociale. Nel giro di appena un paio di anni abbiamo visto la preoccupante crescita di un movimento para-nazista in Grecia e di molti altri gruppi anti-sistema nel resto d’Europa. L’Italia ovviamente è la punta dell’iceberg di questo fenomeno, come dimostrato dalle ultime elezioni. E’ impensabile che una situazione del genere possa durare ancora per lungo tempo. Nessuna democrazia è in grado di sopportare livelli di disoccupazione a doppia cifra per oltre dieci anni, né che i lavoratori continuino a impoverirsi senza batter ciglio. Per uscire da quest’impasse è dunque urgente una grande ed innovativa risposta politica. Purtroppo, però, l’Europa continua a rimanere un progetto acefalo, un grande mercato senza una vera guida politica – se non quella tedesca che sembra però non interessarsi ai bisogni degli Stati mediterranei. Ma senza un progetto condiviso, senza un patto sociale che tenga insieme gli europei su una base comune, senza le istituzioni di un vero stato, il mercato europeo è destinato a distruggere l’idea stessa di Europa.

giovedì 4 aprile 2013

Alle radici della crisi in Corea


Qui di seguito proponiamo due pezzi molto interessanti sulla crisi coreana, tutti e due da Project Syndicate. Entrambi spiegano con cura quali sono le radici del comportamento del regime di Pyongyang, che troppe volte, in Occidente e sopratutto in Italia, viene descritto come un gruppo di lunatici. La situazione è invece assai diversa. Come dicemmo già tempo fa è difficile valutare culture e società differenti sulla base dei nostri parametri. In Corea del Nord larga parte del consenso vero la famiglia Kim è il frutto di una tradizione culturale di lunga data ed ha dunque una reale base materiale - anche se molto difficile da valutare. E per quanto anacronistica, la dittatura di Pyongyang non è guidata da fanatismo o follia ma da un preciso calcolo strategico dettato dalle condizioni internazionali. Come spiegato da entrambi i commentatori qui sotto - uno dei quali è stato ministro degli esteri di Seul, quindi non certo tacciabile di simpatie verso il Nord - l'Occidente, e dunque soprattutto l'America, ma anche Corea del Sud e Giappone hanno gravi responsabilità nell'aver isolato la Corea del Nord, rendendola più aggressiva e pericolosa, e, non avendole riconosciuto nessun vero ruolo negli anni passati - pensando forse di poterla cancellare dalla mappa con un colpo di penna - si ritrovano ora con un partner inaffidabile. Per altro la storia dei cosiddetti rogue states - dall'Iraq alla Libia - non può che mettere in allarme la dirigenza nord-coreana che dunque vuol sedersi ad un tavolo di trattativa da una situazione di (relativo) potere, dato in questo caso dalle minacce militari. Un gioco pericoloso ma perfettamente razionale. 
Non va dimenticato, per altro, che quello stesso regime è stato per anni tutt'altro che bellicoso e che comunque fino ad inizio anni 2000 si parlava di una possibile rappacificazione tra Nord e Sud con le due delegazioni che, all'Olimpiade di Sidney, sfilavano sotto la stessa bandiera. E che le tensioni sono iniziate successivamente, quando gli USA hanno chiuso la porta in faccia ad ogni dialogo. Infine, l'ultima escalation è avvenuta, non a caso, dopo la vittoria, sia in Giappone che in Corea del Sud, di due leader nazionalisti, e decisamente avversi al dialogo con Pyongyang. Insomma, se è vero che la Corea rischia di diventare un problema serio per il resto del mondo, è forse d'uopo che anche i governi occidentali si comincino a prendere delle responsabilità per contenere la crisi e riportare un po' di sereno sopra il 38° parallelo.


Realism on North Korea


di Yoon Young Kwan
da Project Syndicate

The world’s task in addressing North Korea’s saber rattling is made no easier by the fact that it confronts an impoverished and effectively defeated country. On the contrary, it is in such circumstances that calm foresight is most necessary.
The genius of the Habsburg Empire’s Prince Klemens von Metternich in framing a new international order after the Napoleonic Wars was that he did not push a defeated France into a corner. Although Metternich sought to deter any possible French resurgence, he restored France’s prewar frontiers.
By contrast, as Henry Kissinger has argued, the victors in World War I could neither deter a defeated Germany nor provide it with incentives to accept the Versailles Treaty. Instead, they imposed harsh terms, hoping to weaken Germany permanently. We know how that plan ended.
John F. Kennedy was in the Metternich mold. During the Cuban missile crisis, he did not try to humiliate or win a total victory over the Soviet Union. Rather, he put himself in Nikita Khrushchev’s shoes and agreed to dismantle, secretly, American missiles in Turkey and Italy in exchange for withdrawal of Soviet missiles from Cuba. Kennedy’s pragmatism prevented World War III.
Sadly, North Korea has not received such far-sighted statesmanship. Faced with the North’s dangerous nuclear game, we should ask what would have happened if, over the last 20 some years, the North Korea problem had been approached with the sagacity of Metternich and Kennedy.
Of course, North Korea is not early-nineteenth century France or the USSR of 1962. In the eyes of Western (including Japanese) political leaders, it has never amounted to more than a small, fringe country whose economic failings made it appear to be poised perpetually on the edge of self-destruction. For the most part, world leaders preferred not to be bothered with North Korea, and so reacted in an ad hoc way whenever it created a security problem. But now, following the North’s recent nuclear tests, and given its improving ballistic-missile capabilities, that approach is no longer tenable.
Perhaps the best chance to address the problem at an earlier stage was immediately after the Soviet Union’s collapse in 1991. Back then, Kim Il-sung – the North’s founder – faced economic collapse, diminution of his conventional military forces, and diplomatic isolation. In interviews with Asahi Shimbun and The Washington Times in March and April 1992, Kim clearly expressed a wish to establish diplomatic relations with the US. But US and South Korean leaders were not ready to accommodate Kim’s overture. Their received ideas about North Korea prevented them from recognizing a fast-changing political reality.
Another opportunity was missed later in the decade. If North Korea had reciprocated in a timely manner following US envoy William Perry’s visit to Pyongyang in May 1999, President Bill Clinton’s policy of engagement with the North might have been upgraded to a push for normalization of diplomatic relations. Instead, the North procrastinated, sending Vice Marshall Jo Myong-rok to the US only in October 2000, near the end of Clinton’s presidency. A few months later, newly elected President George W. Bush reversed Clinton’s North Korea policy.
I still recall the difficulty that I faced, as South Korea’s foreign minister, in convincing Bush administration policymakers to negotiate with North Korea instead of merely applying pressure and waiting for the North to capitulate. Back then, North Korea was restarting its Yongbyon nuclear facility and producing plutonium, thus strengthening its bargaining position vis-à-vis the US. Precious time was squandered before North Korea’s first nuclear test in 2006. Though Bush shifted his policy toward bilateral negotiations with the North a few months later, the Kim regime had become much more obstinate.
Indeed, North Korea’s behavior has since become even more volatile. Its sinking of the South Korean corvette Cheonan and the shelling of Yeonpyeong Island in 2010 were unprecedented, and raised inter-Korean tensions to their highest level in decades. Today, following the North’s third nuclear test, we seem to have entered the most precarious stage yet, with the regime declaring that it will never surrender its nuclear option. So, what should be done?
The first option should be deterrence of further aggression through diplomacy. But achieving diplomatic deterrence will depend on China’s cooperation, and this requires that China’s vital national-security interests be recognized. China fears not only the social and economic consequences of a North Korean implosion, but also the strategic consequences of reunification – in particular, that the US military, through its alliance with South Korea, would gain access to territory on its border.
A mere statement by the US that it has no intention to press this military advantage will not assuage China’s fears. Chinese leaders recall that the US promised Soviet President Mikhail Gorbachev that German reunification and democratic transition in Eastern Europe would not mean eastward expansion of NATO. So a more concrete undertaking, one that preserves South Korea’s bedrock security concerns, is needed. Only after its security is assured will China free itself from complicity in North Korean brinkmanship and be better able to control the North’s behavior. 
But Chinese cooperation, though necessary, will not resolve the North Korea problem on its own. A comprehensive approach must recognize the speed of internal change, especially in the minds of ordinary North Koreans. Simply put, North Koreans are not as isolated as they once were, and have a growing appreciation of their impoverishment, owing primarily to greater trade and closer connections with booming China.
This internal change needs to be encouraged, because it will prove more effective than external pressure in influencing the regime’s behavior. But such encouragement must be undertaken in ways that do not incite the North’s fears of being destroyed by indirect means.  South Korean President Park Geun-hye’s recent proposal to provide humanitarian assistance despite the recent spike in tension, is a start in the right direction.
The lives of ordinary North Koreans matter as much as the security of North Korea’s neighbors. A comprehensive approach is required – one that focuses as much on the human dimension as on the security dimension. It remains to be seen whether this approach requires more foresight and courage than today’s political leaders in South Korea, the West, and China can muster.



di Ian Buruma
da Project Syndicate

Nobody would care much about North Korea – a small and isolated country of 24 million people, ruled by a grotesque dynasty that calls itself communist – if it were not for its nuclear weapons. Its current ruler, Kim Jong-un, the 30-year-old grandson of North Korea’s founder and “Great Leader,” is now threatening to turn Seoul, the rich and bustling capital of South Korea, into “a sea of fire.” American military bases in Asia and the Pacific are also on his list of targets.
Kim knows very well that a war against the United States would probably mean the destruction of his own country, which is one of the world’s poorest. His government cannot even feed its own people, who are regularly devastated by famine. In the showcase capital, Pyongyang, there is not even enough electricity to keep the lights on in the largest hotels. So threatening to attack the world’s most powerful country would seem like an act of madness.
But it is neither useful nor very plausible to assume that Kim Jong-un and his military advisers are mad. To be sure, there is something deranged about North Korea’s political system. The Kim family’s tyranny is based on a mixture of ideological fanaticism, vicious realpolitik, and paranoia. But this lethal brew has a history, which needs to be explained.
The short history of North Korea is fairly simple. After the collapse in 1945 of the Japanese empire, which had ruled quite brutally over the whole of Korea since 1910, the Soviet Red Army occupied the north, and the US occupied the south. The Soviets plucked a relatively obscure Korean communist, Kim Il-sung, from an army camp in Vladivostok, and installed him in Pyongyang as the leader of North Korea. Myths about his wartime heroism and divine status soon followed, and a cult of personality was established.
Worshipping Kim, and his son and grandson, as Korean gods became part of a state religion. North Korea is essentially a theocracy. Some elements are borrowed from Stalinism and Maoism, but much of the Kim cult owes more to indigenous forms of shamanism: human gods who promise salvation (it is no accident that the Reverend Sun Myung Moon and his Unification Church came from Korea, too).
But the power of the Kim cult, as well as the paranoia that pervades the North Korean regime, has a political history that goes back much further than 1945. Wedged awkwardly between China, Russia, and Japan, the Korean Peninsula has long been a bloody battleground for greater powers. Korean rulers only managed to survive by playing one foreign power off against the other, and by offering subservience, mainly to Chinese emperors, in exchange for protection. This legacy has nurtured a passionate fear and loathing of dependency on stronger countries.
The Kim dynasty’s main claim to legitimacy is Juche, the regime’s official ideology, which stresses national self-reliance to the point of autarky. In fact, Kim Il-sung and his son, Kim Jong-il, were typical Korean rulers. They played China against the Soviet Union, while securing the protection of both. Of course, this did not stop North Korean propagandists from accusing the South Koreans of being cowardly lackeys of US imperialism. Indeed, paranoia about US imperialism is part of the cult of independence. For the Kim dynasty to survive, the threat of external enemies is essential.
The fall of the Soviet Union was a disaster for North Korea, as it was for Cuba; not only did Soviet economic support evaporate, but the Kims could no longer play off one power against another. Only China was left, and North Korea’s dependence on its northern neighbor is now almost total. China could crush North Korea in a day just by cutting off food and fuel supplies.
There is only one way to divert attention from this humiliating predicament: propaganda about self-reliance and the imminent threat from US imperialists and their South Korean lackeys must be turned up to a hysterical pitch. Without this orchestrated paranoia, the Kims have no legitimacy. And no tyranny can survive for long by relying on brute force alone.
Some people argue that the US could enhance security in northeast Asia by compromising with the North Koreans – specifically, by promising not to attack or attempt to topple the Kim regime. The Americans are unlikely to agree to this, and South Korea would not want them to. Apart from anything else, there is an important domestic political reason for US reticence: a Democratic US president cannot afford to look “soft.” More important, even if the US were to provide such guarantees to North Korea, the regime’s paranoid propaganda would probably continue, given the centrality to Juche of fear of the outside world.
The tragedy of Korea is that no one really wishes to change the status quo: China wants to keep North Korea as a buffer state, and fears millions of refugees in the event of a North Korean collapse; the South Koreans could never afford to absorb North Korea in the way that West Germany absorbed the broken German Democratic Republic; and neither Japan nor the US would relish paying to clean up after a North Korean implosion, either.
And so an explosive situation will remain explosive, North Korea’s population will continue to suffer famines and tyranny, and words of war will continue to fly back and forth across the 38th parallel. So far, they are just words. But small things – a shot in Sarajevo, as it were – can trigger a catastrophe. And North Korea still has those nuclear bombs.

mercoledì 3 aprile 2013

La crisi e le banche centrali


di Nicola Melloni
da Liberazione

La settimana scorsa il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne ha presentato la sua quarta finanziaria, ancora una volta incentrata sull’austerity e sulla speranza, molto contro-intuitiva e finora contraddetta dai fatti, che i tagli di bilancio possano rilanciare la crescita. Insomma, nonostante il Pil sprofondi e il debito continui a salire, Osborne e il governo di coalizione si ostinano a perseguire la stessa strada finora percorsa. Allo stesso tempo però, il budget presentato dal Cancelliere ha introdotto una importante novità per quanto riguarda la governance della Banca d’Inghilterra.
La banca centrale del Regno Unito, come la Bce e la maggioranza delle banche centrali europee ha un solo vincolo di mandato, il mantenimento di un basso livello di inflazione – normalmente settato al 2%. Si tratta di una prassi basata su una dottrina molto consolidata nel mainstream macroeconomico, secondo cui solo la stabilità dei prezzi può garantire un corretto funzionamento dei mercati finanziari ed anche dell’economia reale. La stessa teoria che portò Jean Claude Trichet ad alzare i tassi di interesse nel mezzo della crisi del debito mentre mezza Europa era in recessione. Probabilmente una delle peggiori decisioni mai prese da un banchiere centrale – e che dimostra un ardore ideologico tale da far dimenticare quello che anche uno studente al primo anno di economia dovrebbe sapere: in recessione non si alzano i tassi di interesse. Tanto più che in realtà l’ossessione neoliberista con l’inflazione non è supportata da nessun dato reale. Non esiste nessuna prova che l’inflazione al due percento sia meglio che al tre o al quattro, e quindi il target per la crescita dei prezzi è deciso in maniera totalmente arbitraria. Di più: secondo tutti gli studi condotti, l’inflazione ha un impatto sicuramente negativo sulla crescita solo quando supera il 20% annuo. Questo ovviamente, non vuol dire che una inflazione elevata o anche solo media sia positiva per l’economia, ma suggerisce di certo che il controllo dei prezzi andrebbe mediato con altre variabili, quali ad esempio crescita e occupazione.
In questa direzione si è mosso il governo giapponese con il nuovo premier Abe che ha imposto un controllo politico sulla Banca del Giappone richiedendo espressamente un’inflazione più alta per stimolare la crescita attraverso iniezioni di liquidità. Ed inoltre alla Banca del Giappone è stato pure dato il compito di rilanciare la produzione industriale rendendo più competitive le merci giapponesi attraverso una svalutazione dello yen.
In una direzione simile, anche se con passi decisamente più timidi, si è mosso George Osborne con la riforma della Banca d’Inghilterra. Il governo inglese non rivendica, come quello giapponese, un vero e proprio controllo politico sulla politica monetaria, ma è intenzionato ad ampliare il mandato della banca centrale, modellandolo in sostanza su quello della Fed americana che, oltre all’inflazione è incaricata di tenere in considerazione anche crescita ed occupazione. Più in generale viene richiesto di collaborare con il governo per il raggiungimento di obiettivi economici condivisi.
Non è un passo da poco. In Italia, ad esempio, sui testi di economia, si glorifica tuttora il cosiddetto divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia del 1981 che ha portato ad un abbattimento costante dell’inflazione. Peccato che da allora anche la crescita sia diventata una chimera. Ed anche la Bce è stata costruita su un modello di politica monetaria totalmente autonoma e basata solo sul controllo dell’inflazione. L’indipendenza della banca centrale e dunque della politica monetaria risponde a due classiche teorie neo-liberiste: una, quella monetarista, spiega che l’impatto della moneta sull’economia reale è fondamentalmente nullo, concorre solo ad alzare i prezzi senza nessun effetto sulla crescita, tanto più se combinata alle cosiddette aspettative razionali (gli agenti economici capiscono immediatamente che stampando moneta si inflaziona l’economia e non modificano le loro decisioni di spesa ed investimento nemmeno nel breve periodo); l’altra colonna del pensiero neo-liberista è la cosiddetta public choice theory, secondo cui i politici sono interessati solo al proprio tornaconto (le elezioni) e non al bene pubblico. Sottrare loro la politica monetaria per affidarla ad una autorità indipendente vorrebbe dunque dire stabilizzare il ciclo economico ed evitare spese folli in vista delle elezioni per aumentare le possibilità di rielezione.
Peccato che in questa maniera si sia sottratta la politica monetaria al controllo democratico, lasciandola in mano di un manipolo di tecnocrati che, come la storia ha dimostrato, da Trichet a Greenspan, si sono dimostrati tutt’altro che competenti ed hanno contribuito in maniera catastrofica a fare impazzire i mercati finanziari, deprimendo nel frattempo la crescita. Non solo: la politica monetaria è stata implementata sotto l’influenza pressante dei grandi stakeholder del sistema finanziario, le banche private che più che essere controllate dalle banche centrali sono diventate attori protagonisti nelle scelte di politica economica. L’inflazione è stata sì tenuta sotto controllo (anche se è da verificare quanto sia stato il vero merito dei banchieri centrali rispetto, ad esempio, ai beni a basso costo provenienti dall’estremo Oriente) e di sicuro le grandi banche e l’intero sistema finanziario hanno fatto grandi profitti in questi trent’anni di egemonia neo-liberista. Allo stesso tempo, però, la crescita, in Italia, in Europa, in America, è stata assai più bassa che nei decenni (keynesiani) precedenti. La ricchezza si è spostata dal lavoro al capitale ed è notevolmente salita l’ineguaglianza. E, soprattutto, i mercati finanziari, teoricamente stabilizzati da politiche anti-inflattive e deresponsabilizzazione degli attori politici, si sono rivelati altamente instabili, fino alla disastrosa crisi attuale.
Ora governi di stampo conservatore, dal Giappone alla Gran Bretagna, stanno cominciando a ridiscutere il ruolo della politica monetaria nella composizione degli obiettivi di crescita dell’economia. E’ un segnale di un cambiamento nella giusta direzione. Peccato che in Europa ancora non ci sia alcun segnale di tutto ciò, mentre la sinistra di governo, in Italia come nel resto del Continente, rimane totalmente muta. Eppure, davanti ai drammatici fallimenti di questi anni, sarebbe davvero giunta l’ora di voltare pagina.

sabato 30 marzo 2013

Il futuro economico e politico dell'Europa

Il dramma cipriota ha riportato al centro del dibattito politico la crisi europea. Dopo i drammi del 2011 e 2012 legati allo spread, si era pensato - o meglio, fatto pensare - che la crisi fosse sostanzialmente finita o quantomeno meno acuta e pericolosa. E' vero, i tassi di interesse sono scesi e questo è senza dubbio un ottimo segnale per i governi che non rischiano, almeno nel breve periodo, una crisi di liquidità e non sono costretti a pagare interessi eccessivi sul loro debito. Ma la crisi è ben altro. Nel passato, in paesi in via di sviluppo, dopo la crisi si è assistito ad un nuovo impeto nella crescita, la svalutazione rilanciò i settori industriali, alcune delle criticità di fondo furono sistemate. E' il caso della Corea dopo il 1997, ad esempio, ma anche della Malesia ed in parte di Russia, Brasile, Argentina e Turchia. Non è però il caso dell'Europa oggi. A causa delle politiche di austerity l'economia continua ad avvitarsi. L'industria rimane al palo, i consumi calano ed il mercato interno ne soffre. L'euro continua a rimanere forte bloccando le esportazioni. E dunque si cerca di rilanciare la competitività attraverso una svalutazione domestica, riducendo i salari e l'occupazione. Dunque l'Europa sta anche peggio del Giappone che pure con un decennio di crescita stagnante ha mantenuto la disoccupazione sotto controllo dopo lo scoppio della bolla immobiliare. La domanda è quanto potrà resistere l'Europa con una situazione sociale che si fa sempre più incandescente. Con disoccupazione e povertà in continua crescita, per quanto ancora i popoli d'Europa appoggeranno una Unione che sembra scavare la sua stessa fossa?

Europe’s Lost-and-Found Decade


di Barry Eichengreen
da Project Syindicate

Sentiment in European financial markets has turned. For the moment, the possibility of a Greek exit from the eurozone is off the table. If interest-rate spreads on Spanish and Italian government bonds are any guide, bondholders are no longer betting on a eurozone breakup. European stocks even rose in the week following last month’s inconclusive Italian elections.Investors evidently believe that Europe’s leaders will do just enough to hold their monetary union together. But, at the same time, it is unlikely that Europe’s economy will follow the pattern of emerging-market crises and rise, phoenix-like, from the ashes. Rather, the most likely scenario appears to be a Japanese-style lost decade of slow or no growth.
The first obstacle to a “phoenix miracle” is that governments remain in austerity mode. Yes, there are whispers that the pace of fiscal consolidation could be slowed; indeed, France has already been given more time to hit its deficit target. But this looks a lot like Japan, where the fiscal tap was tentatively opened and closed. Japanese consumers knew that increases in public spending were temporary, so they did not change their spending habits, rendering the policy ineffectual.
The European Central Bank, for its part, is reluctant to do anything to jump-start growth. Like the Bank of Japan in the 1990’s, it interprets its mandate narrowly. It remains a noncombatant in the global currency wars. But, with the BOJ joining the US Federal Reserve and the Bank of England in easing monetary policy, there will be upward pressure on the euro. And a strong euro is the last thing that a weak Europe needs.
Tepid US and global growth forecasts are reinforcing these fears. The few countries that have succeeded in growing, despite austerity, have done so by exporting. But, with global growth below trend in 2013, emulating them will be difficult. Likewise, the early-1990’s recession in the US depressed Japan’s exports and helped to initiate its lost decade.
Finally, Europe’s property-market and banking problems heighten the danger of a Japanese scenario. Japan’s banks invested heavily in commercial real estate and were dragged down when the property-market boom of the 1980’s went bust. Spanish banks are similarly exposed to the property sector and have not yet acknowledged their losses, while Europe, much like Japan 20 years ago, has done too little to strengthen its financial system.
Thus, in Europe now, as in Japan then, the pieces are in place for a lost decade: weak banks make for weak government finances, which in turn make for weak growth and even weaker banks, with the absence of monetary and fiscal support leaving no escape from this vicious spiral.
But there is one important difference. Even at its worst, unemployment in Japan rarely exceeded 4%, owing to a combination of early retirement, social programs, work-sharing, and political pressure on large employers. In the eurozone, by contrast, unemployment is running at a socially catastrophic 12% and is continuing to rise. In Spain and Greece, unemployment is approaching 30%, while youth unemployment is nearing a staggering 60%.
This makes the risk of social upheaval in Europe today much greater than it was in Japan two decades ago. We cannot predict when or where, but sooner or later there will be an explosion of protest, whether violent or taking the form of organized support for political parties espousing radically different policies. Either way, Plan A, in which governments do just enough to avert collapse but fail to jump-start growth, will no longer be viable.
The only question is whether disaffected voters will opt for a harmless comedian like Beppe Grillo or a more dangerous proto-fascist candidate to be named later. In the first case, the result will be economic chaos. There will be a falling out between the new populist government and German Chancellor Angela Merkel (and the ECB), creating high uncertainty about what comes next.
In the second case, the new government’s war of words and policies will be waged not just with the German government in Berlin and the ECB in Frankfurt, but also against minority and immigrant groups at home. The economic threat could be the least of Europe’s worries.
European leaders need to address these dangers. If they double down on status quo policies, their reign will eventually give way to an extended period of populist-inspired economic chaos and minority scapegoating. Alternatively, leaders can listen to their critics and adopt a balanced, two-handed approach that applies both supply-side reforms and supportive demand-side measures to the challenge of ending Europe’s malaise.
For better or worse, the fact that the most severe political and social turbulence is yet to come at least means that Europe will be unable to afford the dithering and half-measures that produced Japan’s lost decade. “If something cannot go on forever,” as the economist Herbert Stein famously put it, “it will stop.”


sabato 23 marzo 2013

Il PD e la crisi dell'Eurozona

Proponiamo questo interessante articolo di Alfonso Gianni uscito sul Manifesto in cui si chiede chiarezza al PD sulle prossime strategie da adottare a livello europeo. Gli 8 punti di Bersani parlano di uno stop all'austerity ma rimangono assai vaghi sul significato di questa formula, come già evidenziato in un nostro post precedente. La UE non sembra per nulla prendere in considerazione il fermento sociale e politico generato dalla crisi e la situazione richiede dunque scelte politiche coraggiose. A maggior ragione, dopo la grande novità di Cipro e della possibilità di forzare Bruxelles e Berlino a rimodulare le loro proposte o, altrimenti, a rifiutarle. Da questi dati dovrebbe partire una radicale riconsiderazione delle politiche economiche. Se si vuole cambiare, da qui bisognerà partire.

di Alfonso Gianni
da Il Manifesto

«Il governo italiano si fa protagonista attivo di una correzione delle politiche europee di stabilità»: questo è l’incipit degli otto punti su cui Bersani intende fondare la sua proposta di governo, sempre che Napolitano gli conferisca l’incarico. Sul piano formale questa formulazione segna una certa distanza dalla Carta di intenti originaria. E smentisce chi diceva che certe cose non si possono dire pena la vendetta dei mercati. Leggendo però le aride righe successive se ne scopre anche il limite.
Si scopre che questa correzione si limiterebbe ad un allentamento dei vincoli di bilancio per liberare risorse per investimenti produttivi. Se capisco bene, una golden rule in miniatura.
Molto poco di fronte alla gravità della crisi che non attende le schermaglie della politica italiana. Se la pressione sullo spread si è un poco allentata – ma questo non è dovuto all’azione del governo Monti, quanto all’iniziativa assunta dalla Bce nell’acquisto dei titoli del debito italiano -, il fronte dell’economia reale si presenta come un vero disastro. L’Italia è in recessione da sei trimestri, ma quello che è peggio è il l’immediato futuro. Nell’Eurozona l’ultimo trimestre del 2012 si è chiuso con un andamento del Pil in discesa rispetto ai mesi precedenti. Il record negativo appartiene alla martoriata Grecia, ma l’Italia si piazza al terzo posto della decrescita, che chiamiamo infelice per non turbare i seguaci di Latouche. Infatti nel quarto trimestre del 2012 l’Italia ha segnato un -2,7% del Pil, dopo avere chiuso i precedenti trimestri con un -1,3%, un -2,3%, un -2,4%. La Germania che fin qui aveva continuato a crescere, seppure a ritmi sempre più rallentati, registra nel quarto trimestre un calo pari a -0,6% rispetto al terzo. Poca cosa, ma significativa per indicare che anche il potente motore tedesco comincia a tossicchiare.
Le cifre della disoccupazione, sia quella europea, sia quella italiana, aggravata dalla sempiterna questione meridionale, sono drammatiche (da noi in particolare per le donne), e quelle della disoccupazione giovanile ci danno la misura di una generazione perduta, sul piano sociale nient’affatto morale. Infatti il tasso di disoccupazione ufficiale fra le persone comprese nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni ha toccato in Italia, nel gennaio 2013, la percentuale del 38,7% («agghiacciante», ha detto il presidente di Confindustria), mentre i precari sono in tutto 2 milioni 800mila, di cui 2 milioni 375mila con contratti a termine e il restante con contratti di collaborazione. Non c’è da stupirsi, sia detto per inciso, se a fronte della indifferenza del quadro politico dominante, moltissimi di questi giovani sono stati tra i protagonisti dello tsunami grillino.
Servirebbe quindi una svolta radicale nelle politiche economiche europee e italiane. Invece assistiamo all’esatto contrario. Dire: escludiamo gli investimenti produttivi dai limiti di bilancio, non garantisce nulla. Quali sono gli investimenti “produttivi”? Nel caso italiano, si fa la Tav ma non gli ospedali? Si insiste sull’automobile e non sul riordino dell’assetto idrogeologico del territorio? La recente decisione del parlamento europeo di bocciare il progetto di diminuzione del bilancio europeo presentato da Van Rumpuy ha un unico precedente nel lontano 1984, con la differenza che oggi Strasburgo ha potere codecisionale in materia, quindi di veto. Si apre perciò un inedito conflitto fra le istituzioni elettive e quelle nominate come la Commissione e il Consiglio europeo su una materia decisiva quale quella della politica economica. Mario Draghi ha minimizzato le conseguenze del voto italiano, affermando che in ogni caso è stato innestato un “pilota automatico” che guida l’economia senza bisogno di governi nella pienezza dei poteri. Infatti è stato deciso che la formulazione dei bilanci dei singoli paesi venga preventivamente supervisionata per evitare sforamenti. Ma questo potrebbe essere messo in discussione se si affermasse una volontà politica dotata di sostegno popolare pronta a farlo.
Di questo non vi è traccia nei punti del Pd che sembrano riporre le speranze di successo nell’allentamento dei vincoli grazie ai nuovi presunti spazi che sarebbero stati aperti dalla lunga lettera inviata qualche settimana fa dal commissario Olli Rehn ai ministri dell’Ecofin, nonché ai presidenti della Bce e del Fmi. Ma se si legge con attenzione quel documento ci si accorge che quelle speranze sono del tutto infondate.
Il testo di Rehn fa un vago accenno al fatto che gli effetti depressivi delle misure restrittive adottate dalla Ue hanno superato le previsioni, ma si guarda bene dal denunciare come profondamente sbagliati i moltiplicatori fiscali adottati in Europa, come invece ha dimostrato chiaramente lo stesso Fmi, e quindi di suggerire modifiche effettive. Attribuisce il calo della pressione sugli spread alle restrizioni di bilancio, occultando che invece essi vanno interamente attribuiti alle decisioni della Bce sulle Outright Monetary Transactions (OMTs), ovvero gli acquisti dei titoli di stato a breve sul mercato secondario. Infine si dichiara disposto ad allungare i tempi per raggiungere gli obiettivi di bilancio, a condizione che vengano mantenute le famose riforme strutturali che in realtà consistono in cospicui tagli alla spesa pubblica e quindi ulteriore smantellamento del welfare, svendita dei beni pubblici, blocco dell’intervento pubblico in economia, riduzione del personale e delle retribuzioni reali nella pubblica amministrazione. Ovvero l’implementazione di tutti i punti della famosa lettera Bce inviata al morente governo Berlusconi ai primi di agosto del 2011.
Tutto ciò malgrado che la certezza granitica sulle virtù delle politiche di rigore comincia a incrinarsi anche nella potente Germania, che da queste ha tratto i maggiori vantaggi. La Camera dei Länder che compongono lo Stato federale tedesco, dove ha la maggioranza l’opposizione rosso-verde, ha bloccato l’intesa sul bilancio richiesto dalla Merkel ai partner europei, proponendo in cambio il varo di un salario minimo nazionale, progetto respinto dall’esecutivo centrale.
Naturalmente la Cancelliera non intende demordere. Anzi rilancia. Ed ecco che, cosa mai avvenuta prima, si reca a Varsavia per partecipare al vertice del gruppo di Visegrad (composto da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) per lanciare un nuovo patto per la competitività, che a Est si coniuga perfettamente con una preesistente situazione di basse retribuzioni, welfare quasi nullo e tanti vantaggi fiscali per attirare capitali stranieri. Nel frattempo nasce «Alternativa per la Germania» un partito antieuro, favorevole al ritorno al marco o quantomeno a un’unione monetaria più concentrata sul grande paese tedesco e i suoi satelliti. Non contenti degli insuccessi dell’austerity gli organi europei e il Fmi impongono a Cipro, in cambio di “aiuti”, il prelievo forzoso sui depositi bancari privati fino al 9,9% (quando Amato lo fece nel 1992 si fermò allo 0’6%). Aveva proprio ragione chi ha scritto sui muri di Atene «Per favore, non aiutateci»!
In questo quadro, fatto di crisi, ma anche di nuove potenzialità, ciò che resta della sinistra radicale si divide tra chi vorrebbe un piano per l’uscita dall’euro e chi sostiene la ridiscussione dei trattati senza passare dalla fuga dalla moneta unica. La scelta chiama in campo questioni complesse, ma si potrebbe intanto osservare che chi chiede l’uscita dell’Italia dall’euro pone tutta una serie di condizioni per contenerne gli effetti immediatamente negativi e indesiderati di una simile mossa ( quali l’indicizzazione dei salari, il controllo dei movimenti di capitale ecc.), condizioni che richiedono necessariamente un’azione di governo per compierla, ovvero una forza reale capace di fare fronte alle immediate manovre speculative del capitale internazionale. Allo stesso modo un’azione comune tra i paesi mediterranei e più in difficoltà nell’Eurozona per la modifica dei trattati richiederebbe una forza decisionale e un sostegno popolare altrettanto grandi, e non in un paese solo. Si può quindi concludere che in realtà i due piani, almeno per un considerevole percorso, potrebbero nella pratica se non coincidere, almeno tenersi per mano senza divisioni così aspre tra l’uno e l’altro. In altre parole lo spazio oggettivo per un europeismo di sinistra si è allargato e non ristretto, basti guardare al programma di Syriza. Da noi invece è ancora senza interpreti che siano dotati di forza e di consensi e non solo di buoni argomenti.

mercoledì 20 febbraio 2013

La crisi dell'Euro non è finita

Proponiamo di seguito un interessante disamina di Martin Wolf, capo economista al Financial Times. Wolf spiega con dovizia di particolari perché la crisi dell'Euro non sia finita. Si, il rischio spread è calato notevolmente, e questo potrebbe, ipoteticamente, dare più tempo ai nostri governi per rimettere a posto la UE. Ma per fare questo bisogna cambiare la natura dell'Europa e affrontare direttamente i problemi della crisi, il debito, la competitività e il disequilibrio tra Sud e Nord Europa. Altrimenti la crisi è destinata a tornare, e probabilmente prima di quando pensiamo.

Why the euro crisis is not yet over

di Martin Wolf
da Financial Times

Is the eurozone crisis over? The answer is: “yes and no”. Yes, risks of an immediate crisis are reduced. But no, the currency’s survival is not certain. So long as this is true, the possibility of renewed stress remains.
The best indicator of revived confidence is the decline in interest-rate spreads between sovereign bonds of vulnerable countries and German Bunds. Irish spreads, for example, were just 205 basis points on Monday, down from 1,125 points in July 2011. Portuguese spreads are 465 basis points, while even Greek spreads are 946 basis points, down from 4,680 points in March 2012. Italian and Spanish spreads have been brought to the relatively low levels of 278 and 362 basis points, respectively. (See
Behind this improvement lie three realities. The first is Germany’s desire to keep the eurozone intact. The second is the will of vulnerable countries to stick with the policies demanded by creditors. The third was the decision of the European Central Bank to announce bold initiatives – such as an enhanced longer-term refinancing operation for banks and outright monetary transactions for sovereigns – despite Bundesbank opposition. All this has given speculators a glorious run.
Yet that is not the end of the story. The currency union is supposed to be an irrevocable monetary marriage. Even if it is a bad marriage, the union may still survive longer than many thought because the costs of divorce are so high. But a bad romance is still fragile, however large the costs of breaking up. The eurozone is a bad marriage. Can it become a good one?
A good marriage is one spouses would re-enter even if they had the choice to start all over again. Surely, many members would refuse to do so today, for they find themselves inside a nightmare of misery and ill will. In the fourth quarter of last year, eurozone aggregate gross domestic product was still 3 per cent below its pre-crisis peak, while US GDP was 2.4 per cent above it. In the same period, Italian GDP was at levels last seen in 2000 and at 7.6 per cent below its pre-crisis peak. Spain’s GDP was 6.3 per cent below the pre-crisis peak, while its unemployment rate had reached 26 per cent. All the crisis-hit economies, save for Ireland’s, have been in decline for years. The Irish economy is essentially stagnant. Even Germany’s GDP was only 1.4 per cent above the pre-crisis peak, its export power weakened by the decline of its main trading partners.
If all members of the eurozone would rejoin happily today, they would be extreme masochists. It is debatable whether even Germany is really better off inside: yes, it has become a champion exporter and runs large external surpluses, but real wages and incomes have been repressed. Meanwhile, the political fabric frays in crisis-hit countries. Anger at home and friction abroad plague both creditors and debtors.
What, then, needs to happen to turn this bad marriage into a good one? The answer has two elements: manage a return to economic health as quickly as possible, and introduce reforms that make a repeat of the disaster improbable. The two are related: the more plausible longer-term health becomes, the quicker should be today’s recovery.
A return to economic health has three related components: write-offs of unpayable debt inherited from the past; rebalancing; and financing of today’s imbalances. In considering how far all this might work, I assume that the risk-sharing and fiscal transfers associated with typical federations are not going to happen in the eurozone. The eurozone will end up more integrated than before, but far less integrated than Australia, Canada or the US.
On debt write-offs, more will be necessary than what has happened for Greece. Moreover, the more the burden of adjustment is forced on to crisis-hit countries via falling prices and wages, the greater the real burden of debt and the bigger the required write-offs. Debt write-offs are likely to be needed both for sovereigns and banks. The resistance to recognising this is immensely strong. But it may be futile.
The journey towards adjustment and renewed growth is even more important. It is going to be hard and long. Suppose the Spanish and Italian economies started to grow at 1.5 per cent a year, which I doubt. It would still take until 2017 or 2018 before they returned to pre-crisis peaks: 10 lost years. Moreover, it is also unclear what would drive such growth. Potential supply does not of itself guarantee actual demand.
Fiscal policy is contractionary. Countries suffering from private sector debt overhangs, such as Spain, are unlikely to see a resurgence in lending, borrowing and spending in the private sector. External demand will be weak, largely because many members are adopting contractionary policies at the same time. Not least because it is far from clear that the competitiveness of crisis-hit countries has improved decisively, except in the case of Ireland, as Capital Economics explains in a recent
note. Indeed, evidence suggests that Italian external competitiveness is worsening, relative to Germany’s. Yes, the external account deficits have shrunk. But much of this is due to the recessions they have suffered.
Meanwhile, the financing from the ECB, though enough to prevent a sudden collapse into insolvency of weak sovereigns and the banks to which they are tied, required rapid fiscal tightening. The results have been dismal. In a recent letter to ministers, Olli Rehn, the European Commission’s vice-president in charge of economics and monetary affairs, condemned the International Monetary Fund’s recent doubts on fiscal multipliers as not “helpful”. This, I take it, is an indication of heightened sensitivities. Instead of listening to the advice of a wise marriage counsellor, the authorities have rejected it outright.
Those who believe the eurozone’s trials are now behind it must assume either an extraordinary economic turnround or a willingness of those trapped in deep recessions to soldier on, year after grim year. Neither assumption seems at all plausible. Moreover, prospects for desirable longer-term reforms – a banking union and enhanced risk sharing – look quite remote. Far more likely is a union founded on one-sided, contractionary adjustment. Will the parties live happily ever after or will this union continue to be characterised by irreconcilable differences? The answer seems evident, at least to me. If so, this unhappy story cannot yet be over.

fonte: http://www.ft.com/cms/s/0/74acaf5c-79f2-11e2-9dad-00144feabdc0.html#axzz2LNamElyG

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venerdì 1 febbraio 2013

Uno spettro si aggira per l'Europa....

E non è, ahime, lo spettro del comunismo. Secondo Ha Joon Chang sono, invece, gli scansafatiche, i veri responsabili della crisi del capitalismo. O così, almeno, vogliono farci credere. I nostri problemi nascono col welfare state, con le troppe tasse per i ricchi, con i Greci che van troppo in vacanza o in pensione troppo presto, etc etc... L'economista di Cambridge, però, la pensa diversamente. Come sempre è un "discorso" da intendersi alla Foucault, o ancora meglio una prova di egemonia della classe dominante che, attraverso menzogne ripetute continuativamente, impone al centro del dibattito politico falsi temi per eludere le vere questione della crisi europea....


Europe is haunted by the myth of the lazy mob


di Ha Joon Chang
da Guardian


"A spectre is haunting Europe." Thus began the famous opening passages of The Communist Manifesto by Karl Marx and Friedrich Engels.
Today, once again, Europe is haunted by a spectre. But, unlike back in 1848 when Marx and Engels wrote those passages, it is not communism, but laziness.
Gone are the days when the upper classes were terrified of the angry mob wanting to smash their skulls and confiscate their properties. Now their biggest enemy is the army of lazy bums, whose lifestyle of indolence and hedonism, financed by crippling taxes on the rich, is sucking the lifeblood out of the economy.
In Britain, the coalition government constantly slags off those welfare slobs in the working class suburbs, sleeping off their hard night's slog with Sky Sports and online casino. It is their shameless demand for "something for nothing", pandered to by the previous Labour government, we are told, that has created the huge deficits that the country is struggling to get rid of.
In the eurozone, many believe that its fiscal crisis can be ultimately traced back to those lazy Mediterranean types in Greece and Spain, who had lived off hard-working Germans and Dutch, spending their time sipping espresso and playing card games. Unless those people start working hard, it is said, the eurozone's problems cannot be fixed.
The problem with this story is that it is, well, just a story.
First of all, it is important to reiterate that the fiscal deficits in the European countries, including Britain, are largely due to the fall in tax revenues following the finance-induced recession, rather than to the rise in welfare spending. So, attacking the poor and eviscerating the welfare state is not going to cure the underlying cause of the deficits.
Moreover, on the whole, poorer people typically work harder. They usually work in jobs with longer hours and tougher working conditions. Except for a tiny minority, they are poor despite the welfare state, not because of it.
The point comes into a sharper relief, if we compare nations. According to the Organisation for Economic Co-operation and Development, people in Greece, that famous nation of skivers, worked on average 2,032 hours in 2011 – only a shade less than the supposedly workaholic South Koreans (2,090 hours). In the same year, the Germans worked only 70% as long (1,413 hours), while the Netherlands was officially the "laziest" nation in the world, with only 1,379 hours of work per year. These numbers tell us that, whatever else is wrong with Greece, it is not the laziness of their people.
Now, if the laziness story has such flimsy bases in reality, why is it so widely believed? It is because, in the past three decades of dominance by free-market ideology, many of us have come to believe in the myth of the individual fully in charge of his/her destiny.
Starting from Disney animations we watch as young children telling us that "if you believed in yourself, you can achieve anything", we are bombarded with the message that individuals, and they alone, are responsible for what they get in their lives. This is what I call the L'Oreal principle – if some people are paid tens of millions of pounds a year, it must be because they're "worth it"; if others are poor, it must be because they are either not good enough or not trying hard enough.
Now, it is politically difficult to criticise the poor for their incompetence, so the attack is focused on the mythical lazy slob, who has no moral leg to stand on. But then the end result is the dismantling of a whole set of policies and institutions that help all poor people in the name of punishing the lazy.
The beauty of this worldview – for those who disproportionately benefit from the current system – is that, by reducing everything down to individuals, it draws people's attention away from the structural causes of poverty and inequality.
It is well known that poor childhood nutrition, lack of learning stimulus at deprived homes, and sub-par schools restrict capability developments of poor children, diminishing their future prospects. When they grow up, they have to contend with all sorts of prejudices that constantly discourage and deflate them, especially if they have the wrong gender or the wrong skin colour.
With these sandbags on their legs, the poor find it difficult to win the race even in the fairest market. Markets are frequently rigged in favour of the rich, as we have seen from a series of recent scandals surrounding deliberate mis-selling of financial products, lies told to the regulators, to the rigging of the Libor rate.
More importantly, money gives the super-rich the power even to rewrite the basic rules of the game by – let's not mince our words – buying up politicians and political offices (think of all those former banker-turned-US treasury secretaries). Many deregulations of the financial and the labour market, as well as tax cuts for the rich, in the last three decades are results of such money politics.
By turning the debate into a morality tale of laziness, the rich and powerful can divert people's attention away from all of these structural problems that create more poverty and inequality than is necessary.
All of this is not to say that individual talents and efforts should not be rewarded. Attempts to completely suppress them can create societies that are ostensibly equal but fundamentally unfair, as in the former socialist countries.
However, it is vital to recognise that poverty and inequality also have structural causes and start a real debate on how to change those things. Ridding the debate of the pernicious and baseless myth of the lazy mob is an important first step in that direction.

http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2013/jan/29/myth-lazy-mob-hands-rich

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mercoledì 26 dicembre 2012

Il grande crash spagnolo

Oggi proponiamo un documentario prodotto da Paul Mason che racconta la crisi finanziaria in Spagna.




Il documentario è stato duramente attaccato dal governo spagnolo e questo è solamente un motivo in più per guardarlo. Mason, che ha seguito per NewsNight tutta l'evolversi della crisi greca e di quella europea in generale, fornisce un dettagliato resoconto di cosa sia la vita in Spagna ai tempi della crisi, dell'economia drogata dalla finanza e di come i salvataggi della UE siano sempre a favore dei soliti noti.
Un'ora di grande giornalismo, da non perdere assolutamente e da diffondere il più possibile.



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domenica 23 dicembre 2012

Il ricatto dei mercati e la grande bugia dello spread

Riproponiamo oggi un articolo uscito su Ombre Rosse appena all'indomani della caduta del governo Monti, quando gia' si vagheggiava di un attacco contro l'Italia dei mercati finanziari. Come si e' visto, l'ennesimo falso ideologico costruito a favore del governo.

di Nicola Melloni

da Ombre Rosse

Cade il governo e ricomincia la solita storia: panico e preoccupazione per la reazione dei mercati. Il solito ricatto che sentiamo da almeno 12 mesi. Non si può fare politica, bisogna semplicemente ubbidire a quello che richiede il mercato, pena la bancarotta.

E dunque, lo scorso weekend è stato tutto un piangersi addosso. Ha iniziato Napolitano che invece di tranquillizzare ha deciso di buttare benzina sul fuoco, con parole torve e minacciose: «I mercati? Vedremo cosa fanno lunedì». E poi han continuato Corriere e Repubblica e tutti gli altri grandi sponsor del governo tecnico: «Comunità internazionale che non capisce e da lunedì ci farà pagare un prezzo assai alto» (De Bortoli), «Le dimissioni di Monti sono arrivate come un fulmine. Non certo un fulmine a ciel sereno perché sereno non è affatto ed anzi è rigonfio di nubi nere e cariche di tempesta….una campagna elettorale con l'insegna del "tanto peggio tanto meglio", con i mercati in agguato e la finanza pubblica a rischio di grave pericolo» (Scalfari). Il messaggio era chiaro: non si può mettere in discussione la linea di politica economica finora adottata.

Lunedì  la Borsa ha aperto in ribasso, lo spread è salito, ed ecco che tutti i giornali titolavano sul grande rischio che correva l’Italia. Intanto Monti ribadiva: «I mercati? Li capisco». E di questo, almeno, nessuno ha mai dubitato. Forse allora avevano avuto ragione l’anno scorso quando ci era stato imposto il governo tecnico, una sorta di male necessario per evitare il peggio.

Ed invece… Mercoledì l’asta dei Bot è stata un successo coi rendimenti in ribasso, nonostante la crisi di governo. E giovedì è intervenuto addirittura Moody’s con una dichiarazione che ha tagliato la testa al toro: «Le turbolenze politiche in Italia hanno conseguenze limitate sull'affidabilità creditizia del Paese». Ma che sorpresa! Allora si può andare a votare senza mettere a rischio la stabilità del Paese, come d’altronde, nel mezzo della crisi, avevano fatto in Spagna, Portogallo, Irlanda e perfino, per ben due volte, in Grecia.

Attenzione però, ci dicono ora. Votare va bene, ma bisogna votare in un certo modo. Non a caso la preoccupazione principale del centrosinistra è quella di rassicurare i mercati e i partner europei (così giorni fa l’Unità ed anche Bersani intervistato dal Wall Street Journal). Che tradotto vuole circa dire, votate, vinciamo, ma la famosa agenda rimane sempre la stessa perché lo vogliono i mercati. E chi la discute è demagogico, populista, irresponsabile.

Ma siamo sicuri che sia proprio così? Chi sono questi mercati e cosa vogliono esattamente? Occorre fare chiarezza. I mercati sono entità astratte, composte da migliaia di operatori. I mercati, in fondo, siamo anche noi quando compriamo un Bot o un CCT. Gli investitori, quelli cioè che hanno messo i soldi, vogliono semplicemente una cosa, che i debiti vengano onorati. Che lo si faccia tassando i ricchi o i poveri, per loro ha poca importanza. Altra cosa, invece, è quella che vogliono i grandi capitalisti (anche se non tutti, per fortuna): loro vogliono meno tasse per i ricchi, libertà di licenziamento, salari bassi. C’è una bella differenza.

Per un anno e più ci hanno detto che l’austerity non si poteva discutere se non si voleva fallire. E che austerity non vuol dire, ad esempio, patrimoniale, ma Iva maggiorata e tagli a sanità e scuola. Ma eran tutte balle. In America, dove non c’è stata austerity, ed il debito è salito, i tassi di interesse sono scesi, non saliti. E recentemente, l’ex vice presidente di Moody’s ha attaccato Monti e Draghi, responsabili dei pessimi risultati dell’Italia. Ed anche un editoriale del Financial Times ha festeggiato le dimissioni di Monti, le cui politiche si sono rivelate inadeguate. Tanto per citare alcune autorevoli voci dei mercati finanziari che non credono in questo tipo di politica economica che arricchisce alcuni ma mette a rischio la tenuta proprio di quei famosi mercati di cui tanto parliamo. Gli investitori, infatti, sarebbero ben più contenti se l’Italia crescesse, perché soltanto con la crescita, e non certo con l’austerity, si possono pagare i debiti.

In realtà in questo anno, sotto il cosiddetto ricatto dello spread, si è approfittato della crisi per scassinare la Costituzione e far passare a tamburo battente le contro-riforme del lavoro e delle pensioni. L’agenda Monti è stata l’agenda del grande capitale che si approfitta di crisi, disastri ed emergenze per imporre politiche altrimenti inaccettabili, come spiegato già qualche tempo fa da Naomi Klein nel suo Shock Doctrine. Ora ci vorrebbero far votare sotto lo stesso ricatto, ripetendo le stesse bugie.

fonte: http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2012/12/15/29354-il-ricatto-dei-mercati-e-la-grande-bugia-dello-spread/


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martedì 25 settembre 2012

Lisbona insegna

Di Monica Bedana

Il Portogallo, commissariato dalla troika da maggio del 2011, rilancia a sorpresa la propria sovranità nazionale: non c'è imposizione di barriera di contenimento del debito che tenga davanti all'esasperazione dei cittadini, che per due settimane consecutive son stati in piazza in massa a ricordare al Governo (conservatore) che il lavoro dipendente non è carne da macello.

Risultato: Passos Coelho convoca tutte le parti sociali, ma proprio tutte (sindacati, confindustria, opposizione, associazioni civili) per studiare un'alternativa all'ultima tassa destinata ad aumentare ulteriormente il carico fiscale sui lavoratori e ad alleggerirlo alle aziende. Non piaceva nemmeno agli impresari perché avrebbe indebolito ulteriormente il consumo interno, già agonizzante.

Una grande lezione di coesione nazionale in faccia all'Europa delle divisioni, le incertezze, il tutto contro tutti, la mancanza di solidarietà ed equità in ogni sua espressione.

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lunedì 17 settembre 2012

Senza diritti, senza futuro, non siamo nulla

Di Monica Bedana

A volte la vita corre più veloce del passo di una manifestazione e sabato scorso non ero a Madrid se non col cuore. Per le strade della capitale spagnola oltre un milione di persone a chiedere di potersi esprimere in un referendum contro i tagli imposti dalla liberale austerità e sul paventato salvataggio del Paese da parte dell'Unione Europea.

Non una manifestazione qualunque ma un vero summit sociale che ha riunito, compatti, i sindacati, il settore dell'educazione, dei servizi sociali in generale e, in particolare, coloro che in famiglia o nel pubblico hanno a carico persone dipendenti: i beneficiari di una delle leggi socialmente più sentite dell'epoca Zapatero, completamente cancellata dai tagli. E poi chi lavora nella sanità, nei servizi pubblici in generale e le donne, moltissme donne, motore di una corrente particolarmente attiva all'interno delle sei "maree tematiche" che strutturavano la manifestazione.

C'è poi il Portogallo appiccicato, dove un giovane meno di 48 ore fa si è dato fuoco per protesta; c'è ormai la certezza che la crisi sia una scusa per cambiare profondamente e definitivamente un modello sociale esemplare. 14mila milioni di euro di riduzione della spesa per la protezione contributiva alla disoccupazione fino al 2014 non lasciano dubbi sulla portata antisociale dei provvedimenti presi dal governo Rajoy in meno di un anno. Gli interessi sul debito pubblico spagnolo pagati sulla pelle di quell'1,7 milioni di famiglie che hanno tutti i loro membri disoccupati. E sui 5,7 milioni di disoccupati totali del Paese, secondo il sondaggio sulla popolazione attiva del 2012, 2º trimestre (EPA), ben 2,8 milioni di persone non godono di alcuna protezione pubblica.

La riforma del lavoro, per molti versi parallela a quella italiana in quanto a cancellazione dei diritti, ha reso più facile licenziare, ha emarginato i rappresentanti sindacali spalancando le porte ad uno squilibrio che ora pare incolmabile tra il lavoratore indifeso ed il potere incontrollato delle aziende. In un Paese in cui la pressione fiscale per gli imprenditori è estremamente più bassa rispetto al resto d'Europa.

Si induriscono i requisiti per l'accesso ai sussidi di disoccupazione e, al tempo stesso, si riduce drasticamente la spesa pubblica per le politiche attive dell'impiego.Il lavoratore dipendente viene stretto in una morsa che lo logora soprattutto dal punto di vista umano, facendogli credere di non avere abbastanza capacità per accedere ai diritti, riducendolo all'esclusione, alla povertà, all'emarginazione sociale e a farlo sentire finalmente colpevole della propria situazione. A ciò si oppone con forza la società spagnola: al fatto che un governo incapace di dare risposte socialmente equitative alla crisi, la scarichi sulle fasce più deboli della popolazione convincendole di aver vissuto per anni al di sopra delle proprie possibilità.

Il referendum è uno strumento di consultazione democratica di cui in Spagna non si è certo abusato: dal '76 ad oggi ne sono stati fatti solo 4 ed anche questo fatto sottolinea la straordinaria drammaticità del momento.

C'è necessità impellente di non farsi rubare la democrazia con l'inganno e di scacciare a pedate certi fantasmi della dittatura che rivivono puntualmente quando le disuguaglianze danno una mano a spingere gli estremismi. Nella Spagna di oggi non può esserci più posto per striscioni come questo, apparso durante la manifestazione di sabato.

L'appuntamento è ora a fine mese con i sindacati europei. Come già detto altre volte, l'indignazione non basta più.Occorre rimettere al più presto il lavoro al centro a livello europeo e senza smagliature. E da lí riprenderci il futuro a cui ogni essere umano ha diritto.

PS:Il titolo del post è quello dello striscione dei funzionari catalani che abbero il coraggio di sfilare sabato a Madrid dopo l'imponente manifestazione per l'indipendenza della Catalogna della scorsa settimana.

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venerdì 20 luglio 2012

La foto che vorremmo vedere in Val di Susa, per esempio

Di Monica Bedana


Madrid, ieri sera, l'immensa protesta di cittadini e di tutti i sindacati uniti, unitissimi contro il Governo di Rajoy ed il governo-ombra della troika, che porteranno il Paese ad essere una nuova Argentina (nel migliore dei casi) o una seconda Grecia.

Appare un gruppetto sparutissimo di poliziotti  e sfila con lo striscione "siamo la polizia del popolo, non dei politici". Hanno il coraggio di dire che non dovrebbe essere la povera gente (in senso letterale; tagli per 65.000 milioni di euro approvati ieri, l'IVA sul materiale scolastico che passa dal 4% al 21%, una matita sarà un bene di lusso, guai a rosicchiarla) il bersaglio delle manganellate.

Nel frattempo, le mogli dei minatori costrette a denudarsi per passare i controlli per entrare in Parlamento, quell'Istituzione aperta a tutti i cittadini perché noi ne abbiamo scelto i rappresentanti.
E il Ministro di Giustizia che indurisce il codice penale all'inverosimile.
E Rajoy che evita di mostrarsi in Parlamento mentre si approva la macelleria sociale.
La triste sensazione personale che in questo Paese in cui ho vissuto per 20 anni la classe politica, pur meno sozza che in Italia, abbia perso completamente l'orientamento ed il senso della vergogna.

Ma la gente non ha perso il coraggio. "Fai sempre quello che hai paura di fare" (e non mi ricordo chi l'ha detto ma ci va benissimo lo stesso). Come quei quattro poliziotti della foto, che staranno già pagando le conseguenze di un gesto che dà coraggio a tutti.

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domenica 13 maggio 2012

Ad Atene un governo della minoranza: e la chiamano democrazia

QUESTO POST E' STATO, COME OVVIO, SUPERATO DAI FATTI. DIMAR NON HA ADERITO AL GOVERNO DI COALIZIONE, COME INIZIALMENTE SEMBRAVA. RESISTENZA INTERNAZIONALE SI SCUSA



L'aria fresca che le proteste dei popoli stanno portando dentro i palazzi del potere, in Europa e non solo, si è nuovamente fermata di fronte ad una politica auto-referenziale che se ne infischia della democrazia. E purtroppo, una volta di più, lo spettacolo peggiore è offerto da una parte di quelle cosiddette sinistre europee sempre disposte a vendere l'anima in cambio di un posto di potere. D'altronde c'era da immaginarlo sarebbe successo - lo avevamo pure paventato all'indomani delle elezioni. Il partitino Dimar era nato due anni fa, staccandosi dal Synaspismos - il fulcro di Syriza, il vero vincitore morale delle consulatazioni della settimana scorsa. Ed una scissione a destra durante la crisi è sempre sospetta - d'altronde ce lo ha insegnato Andreotti, che se ne intendeva, che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si prende. Ed infatti. Dimar si è candidato alle elezioni rifiutando il memorandum imposto dalla UE, ha preso i voti sulla base di quella piattaforma ed ora forma un governo con Pasok e Nuova Democrazia, gli unici due partiti che difendono l'accordo che sta trascinando la Grecia nel caos. 
Uno sputo in faccia al suo elettorato. Uno sputo in faccia all'intero popolo greco, chè se le elezioni avevano dato una indicazione chiara e precisa è che la Grecia non voleva il diktat di Bruxelles e Berlino, solo il 30% di un elettorato comunque in calo aveva sostenuto Pasok e ND. Ed ora Atene si troverà governata da una piccola minoranza che avvantaggiandosi della legge elettorale e comprandosi un partitino di canaglie potrà imporre il Berlin Consensus su un popolo che non ne vuole sapere. Mentre ormai la maggioranza degli economisti più seri, da Krugman a Roubini, da Rodrik a Eichengreen spiegano che l'uscita dall'Euro della Grecia è meglio che continuare con questa folle corsa ai tagli. 
Senza dimenticare che la maggioranza dei greci rifiuta entrambe le alternative, volendo semplicemente smettere di essere schiavizzata da personaggi cui interessa solo difendere le proprie banche e magari anche le proprie industrie militari.
Syriza non chiedeva l'uscita dall'Europa, diceva semplicemente no al memorandum. Dimar, invece, definito "sinistra filo-europea" da Corriere e Repubblica, è solo filo-Bruxelles, o forse neanche quello. Ribadisce solo la vecchia tradizione dei socialdemocratici disposti a vendersi per un piatto di lenticchie.  
E poi si lamentano della destra populista e dell'anti-politica? 


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