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mercoledì 3 aprile 2013
La crisi e le banche centrali
di Nicola Melloni
da Liberazione
La settimana scorsa il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne ha presentato la sua quarta finanziaria, ancora una volta incentrata sull’austerity e sulla speranza, molto contro-intuitiva e finora contraddetta dai fatti, che i tagli di bilancio possano rilanciare la crescita. Insomma, nonostante il Pil sprofondi e il debito continui a salire, Osborne e il governo di coalizione si ostinano a perseguire la stessa strada finora percorsa. Allo stesso tempo però, il budget presentato dal Cancelliere ha introdotto una importante novità per quanto riguarda la governance della Banca d’Inghilterra.
La banca centrale del Regno Unito, come la Bce e la maggioranza delle banche centrali europee ha un solo vincolo di mandato, il mantenimento di un basso livello di inflazione – normalmente settato al 2%. Si tratta di una prassi basata su una dottrina molto consolidata nel mainstream macroeconomico, secondo cui solo la stabilità dei prezzi può garantire un corretto funzionamento dei mercati finanziari ed anche dell’economia reale. La stessa teoria che portò Jean Claude Trichet ad alzare i tassi di interesse nel mezzo della crisi del debito mentre mezza Europa era in recessione. Probabilmente una delle peggiori decisioni mai prese da un banchiere centrale – e che dimostra un ardore ideologico tale da far dimenticare quello che anche uno studente al primo anno di economia dovrebbe sapere: in recessione non si alzano i tassi di interesse. Tanto più che in realtà l’ossessione neoliberista con l’inflazione non è supportata da nessun dato reale. Non esiste nessuna prova che l’inflazione al due percento sia meglio che al tre o al quattro, e quindi il target per la crescita dei prezzi è deciso in maniera totalmente arbitraria. Di più: secondo tutti gli studi condotti, l’inflazione ha un impatto sicuramente negativo sulla crescita solo quando supera il 20% annuo. Questo ovviamente, non vuol dire che una inflazione elevata o anche solo media sia positiva per l’economia, ma suggerisce di certo che il controllo dei prezzi andrebbe mediato con altre variabili, quali ad esempio crescita e occupazione.
In questa direzione si è mosso il governo giapponese con il nuovo premier Abe che ha imposto un controllo politico sulla Banca del Giappone richiedendo espressamente un’inflazione più alta per stimolare la crescita attraverso iniezioni di liquidità. Ed inoltre alla Banca del Giappone è stato pure dato il compito di rilanciare la produzione industriale rendendo più competitive le merci giapponesi attraverso una svalutazione dello yen.
In una direzione simile, anche se con passi decisamente più timidi, si è mosso George Osborne con la riforma della Banca d’Inghilterra. Il governo inglese non rivendica, come quello giapponese, un vero e proprio controllo politico sulla politica monetaria, ma è intenzionato ad ampliare il mandato della banca centrale, modellandolo in sostanza su quello della Fed americana che, oltre all’inflazione è incaricata di tenere in considerazione anche crescita ed occupazione. Più in generale viene richiesto di collaborare con il governo per il raggiungimento di obiettivi economici condivisi.
Non è un passo da poco. In Italia, ad esempio, sui testi di economia, si glorifica tuttora il cosiddetto divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia del 1981 che ha portato ad un abbattimento costante dell’inflazione. Peccato che da allora anche la crescita sia diventata una chimera. Ed anche la Bce è stata costruita su un modello di politica monetaria totalmente autonoma e basata solo sul controllo dell’inflazione. L’indipendenza della banca centrale e dunque della politica monetaria risponde a due classiche teorie neo-liberiste: una, quella monetarista, spiega che l’impatto della moneta sull’economia reale è fondamentalmente nullo, concorre solo ad alzare i prezzi senza nessun effetto sulla crescita, tanto più se combinata alle cosiddette aspettative razionali (gli agenti economici capiscono immediatamente che stampando moneta si inflaziona l’economia e non modificano le loro decisioni di spesa ed investimento nemmeno nel breve periodo); l’altra colonna del pensiero neo-liberista è la cosiddetta public choice theory, secondo cui i politici sono interessati solo al proprio tornaconto (le elezioni) e non al bene pubblico. Sottrare loro la politica monetaria per affidarla ad una autorità indipendente vorrebbe dunque dire stabilizzare il ciclo economico ed evitare spese folli in vista delle elezioni per aumentare le possibilità di rielezione.
Peccato che in questa maniera si sia sottratta la politica monetaria al controllo democratico, lasciandola in mano di un manipolo di tecnocrati che, come la storia ha dimostrato, da Trichet a Greenspan, si sono dimostrati tutt’altro che competenti ed hanno contribuito in maniera catastrofica a fare impazzire i mercati finanziari, deprimendo nel frattempo la crescita. Non solo: la politica monetaria è stata implementata sotto l’influenza pressante dei grandi stakeholder del sistema finanziario, le banche private che più che essere controllate dalle banche centrali sono diventate attori protagonisti nelle scelte di politica economica. L’inflazione è stata sì tenuta sotto controllo (anche se è da verificare quanto sia stato il vero merito dei banchieri centrali rispetto, ad esempio, ai beni a basso costo provenienti dall’estremo Oriente) e di sicuro le grandi banche e l’intero sistema finanziario hanno fatto grandi profitti in questi trent’anni di egemonia neo-liberista. Allo stesso tempo, però, la crescita, in Italia, in Europa, in America, è stata assai più bassa che nei decenni (keynesiani) precedenti. La ricchezza si è spostata dal lavoro al capitale ed è notevolmente salita l’ineguaglianza. E, soprattutto, i mercati finanziari, teoricamente stabilizzati da politiche anti-inflattive e deresponsabilizzazione degli attori politici, si sono rivelati altamente instabili, fino alla disastrosa crisi attuale.
Ora governi di stampo conservatore, dal Giappone alla Gran Bretagna, stanno cominciando a ridiscutere il ruolo della politica monetaria nella composizione degli obiettivi di crescita dell’economia. E’ un segnale di un cambiamento nella giusta direzione. Peccato che in Europa ancora non ci sia alcun segnale di tutto ciò, mentre la sinistra di governo, in Italia come nel resto del Continente, rimane totalmente muta. Eppure, davanti ai drammatici fallimenti di questi anni, sarebbe davvero giunta l’ora di voltare pagina.
mercoledì 13 luglio 2011
Quello che serve è una forte integrazione politica per dare un governo all'Euro
di Nicola Melloni
Sono nubi nerissime quelle che si addensano sull'Italia. Le attenzioni particolari della speculazione internazionale rischiano di precipitare il paese in una situazione greca, mandando gambe all'aria la nostra economia e di travolgere l'intera area-euro. L'establishment si sta già preparando: finanziaria bi-partisan a colpi di machete (manovra extra da 40 miliardi), privatizzazioni di poste e ferrovie, deregolamentazione finale del mercato del lavoro con l'abbandono della contrattazione nazionale usata come moneta di scambio con le imprese per richiedere un contributo fiscale eccezionale (la patrimoniale). Il tutto in una situazione di sospensione della democrazia, con un governo tecnico e non politico, che salirebbe al Quirinale con l'unico obiettivo di tranquillizzare i mercati e fare di tutto, e pure di più, per salvare l'Euro.
L'Italia, però, non è la Grecia. L'Italia è la terza economia dell'area euro e il suo peso economico non può essere sottovalutato, nè dai mercati né dalla Ue. Si tratta, però, di dare una voce politica a questo peso economico, una voce in grado di rispondere agli attacchi ed anzi passare al contrattacco. Tre sono le direttrici fondamentali. In ambito europeo bisogna cambiare modalità di intervento. Se l'Italia non può permettersi di uscire dall'Euro, l'Euro non può permettersi di perdere l'Italia. Dunque l'Europa tutta deve farsi carico di problemi che non sono solamente nazionali, ma coinvolgono una parte sempre più ampia del Continente. Bisogna immediatamente spingere per una forte integrazione politica per dare un governo all'Euro, con piani di salvataggio basati su trasferimenti e non su prestiti e trasformazione dello stock di debiti nazionali in debiti europei la cui sostenibilità non sarebbe in discussione. Non ha nessun senso economico che paesi con un'unica valuta paghino interessi diversi sul debito pubblico. Altrettanto immediatamente bisogna cambiare la governance della Bce, riportarla sotto il controllo politico e cambiare la sua mission - non solo il controllo dell'inflazione, ma soprattutto il contributo alla crescita con politiche monetarie espansive anche a costo di un moderato aumento dei prezzi. In questo momento la differenza fondamentale tra Italia ed Usa, i cui conti non sono migliori dei nostri, è il controllo sulla politica monetaria. O l'Europa diventa una, oppure tanto vale uscire dall'Euro - una minaccia che a Francoforte prenderebbero in seria considerazione.
Secondariamente, bisogna bastonare la speculazione, farsi subito promotori dell'adozione della Tobin Tax, della reintroduzione di controlli sui movimenti di capitale e di una riorganizzazione complessiva del sistema finanziario, riducendo la dimensione delle banche, introducendo controlli sulla struttura e le operazioni degli hedge fund, regolamentando il mercato dei derivati. Bisogna anche essere chiari sul fatto che non saranno gli italiani ma gli speculatori a pagare. Se gli attacchi continueranno, lo Stato italiano, con il coinvolgimento europeo, ha la possibilità di bloccare la fuga dai titoli pubblici, convertendo forzatamente i titoli in scadenza in titoli pluriennali ancorati ai rendimenti dei bund tedeschi. Un'altra minaccia credibile: i mercati internazionali non si possono permettere il fallimento italiano che li metterebbe completamente in ginocchio.
Infine, ma in maniera altrettanto decisiva, il governo dovrebbe preoccuparsi dei problemi strutturali della nostra economia, che pure esistono e la cui soluzione è la conditio sine qua non per avere credibilità internazionale agli occhi dell'Europa e dei mercati. Ed il problema fondamentale dell'Italia, lo sappiamo, è la crescita, non la dinamica del deficit fiscale. Quindi, ristrutturazione complessiva del sistema paese in maniera da garantire occupazione, produttività e sostegno ai consumi. Ristrutturazione a carico, ça va sans dire, di chi in questi anni tanto ha preso e nulla ha dato.
Articolo tratto da "Liberazione".
L'Italia, però, non è la Grecia. L'Italia è la terza economia dell'area euro e il suo peso economico non può essere sottovalutato, nè dai mercati né dalla Ue. Si tratta, però, di dare una voce politica a questo peso economico, una voce in grado di rispondere agli attacchi ed anzi passare al contrattacco. Tre sono le direttrici fondamentali. In ambito europeo bisogna cambiare modalità di intervento. Se l'Italia non può permettersi di uscire dall'Euro, l'Euro non può permettersi di perdere l'Italia. Dunque l'Europa tutta deve farsi carico di problemi che non sono solamente nazionali, ma coinvolgono una parte sempre più ampia del Continente. Bisogna immediatamente spingere per una forte integrazione politica per dare un governo all'Euro, con piani di salvataggio basati su trasferimenti e non su prestiti e trasformazione dello stock di debiti nazionali in debiti europei la cui sostenibilità non sarebbe in discussione. Non ha nessun senso economico che paesi con un'unica valuta paghino interessi diversi sul debito pubblico. Altrettanto immediatamente bisogna cambiare la governance della Bce, riportarla sotto il controllo politico e cambiare la sua mission - non solo il controllo dell'inflazione, ma soprattutto il contributo alla crescita con politiche monetarie espansive anche a costo di un moderato aumento dei prezzi. In questo momento la differenza fondamentale tra Italia ed Usa, i cui conti non sono migliori dei nostri, è il controllo sulla politica monetaria. O l'Europa diventa una, oppure tanto vale uscire dall'Euro - una minaccia che a Francoforte prenderebbero in seria considerazione.
Secondariamente, bisogna bastonare la speculazione, farsi subito promotori dell'adozione della Tobin Tax, della reintroduzione di controlli sui movimenti di capitale e di una riorganizzazione complessiva del sistema finanziario, riducendo la dimensione delle banche, introducendo controlli sulla struttura e le operazioni degli hedge fund, regolamentando il mercato dei derivati. Bisogna anche essere chiari sul fatto che non saranno gli italiani ma gli speculatori a pagare. Se gli attacchi continueranno, lo Stato italiano, con il coinvolgimento europeo, ha la possibilità di bloccare la fuga dai titoli pubblici, convertendo forzatamente i titoli in scadenza in titoli pluriennali ancorati ai rendimenti dei bund tedeschi. Un'altra minaccia credibile: i mercati internazionali non si possono permettere il fallimento italiano che li metterebbe completamente in ginocchio.
Infine, ma in maniera altrettanto decisiva, il governo dovrebbe preoccuparsi dei problemi strutturali della nostra economia, che pure esistono e la cui soluzione è la conditio sine qua non per avere credibilità internazionale agli occhi dell'Europa e dei mercati. Ed il problema fondamentale dell'Italia, lo sappiamo, è la crescita, non la dinamica del deficit fiscale. Quindi, ristrutturazione complessiva del sistema paese in maniera da garantire occupazione, produttività e sostegno ai consumi. Ristrutturazione a carico, ça va sans dire, di chi in questi anni tanto ha preso e nulla ha dato.
Articolo tratto da "Liberazione".
martedì 22 febbraio 2011
Alla radice del disordine internazionale
Il G20 finanziario dello scorso weekend è stato l'ennesimo appuntamento ad uso delle telecamere che non ha portato a nessun risultato concreto. Anzi, leggendo tra le righe si capisce come ormai l'egemonia americana abbia lasciato spazio ad un nuovo disordine mondiale.
I temi in discussione erano soprattutto due, i disequilibri commerciali - esemplificati dal deficit americano e dal surplus cinese - e l'aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime. Nel primo caso, gli Stati Uniti hanno continuato a chiedere con forza uno stabilizzatore automatico per evitare il ripetersi di situazioni come quelle attuali ma non hanno ottenuto nient'altro che dichiarazioni formali. Washington continua il pressing su Pechino perchè rivaluti lo yuan, in tal maniera da ridurre le importazioni cinesi e rendere più competitive le merci americane. Ma una analisi più approfondita rivela che tale richiesta semplifica un problema ben più sostanziale, senza dare una risposta di sistema. Infatti in questi ultimi cinque anni la Cina ha lasciato che la propria valuta si riapprezzasse di oltre il 20 percento in termini nominali senza che il deficit commerciale americano diminuisse in maniera sostanziale. E soprattutto, se si tiene conto della crescente inflazione cinese che determina un sempre più alto costo del lavoro, lo yuan si è rivalutato, in termini reali, di quasi il 50 percento. Il punto è che ormai molte merci non vengono più prodotte in Occidente, le fabbriche sono state delocalizzate e la Cina offre, nonostante l'inflazione, rendimenti sugli investimenti molto più alti di quelli che possano garantire gli Stati Uniti. La Cina, nonostante la crisi internazionale, ha continuato a crescere e quindi continua ad attirare il capitale internazionale. Non può certo essere un mero riaggiustamento del cambio a modificare questa situazione.
La crescita economica cinese e l'inflazione che l'accompagna ci porta al problema successivo - l'impennata dei prezzi delle materie prime. Tremonti ha parlato di gravi responsabilità della speculazione internazionale che scommettendo su una ripresa economica anche in Occidente ha spinto i prezzi verso l'alto. Questo è sicuramente vero, ma, nuovamente, si tratta solo di una escrescenza del problema e non della sua vera natura. In Europa e negli Stati Uniti siamo sempre stati abituati a pensare che nei periodi di recessione i prezzi delle materie prime sarebbero calati a causa della diminuita domanda, e per secoli, infatti, le cose si sono svolte esattamente in questa maniera. La situazione però ora è cambiata, drammaticamente. Negli Stati Uniti i salari sono stagnanti e la disoccupazione non decresce, ciò nonostantel’inflazione a Gennaio è cresciuta dell’1.6%, guidata dall’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità – energia e cibo. Una situazione simile si sta concretizzando in Europa, con ef- fetti facilmente immaginabili, diminu- zione del potere d’acquisto dei salari e peggioramento delle condizioni di vita per i detentori di reddito da lavoro. La crescita dei prezzi è provocata dalla prepotente entrata nei mercati internazionali di Cina, India, Brasile che più che compensano la stagnazione delle economie occidentali, nel frattempo generando una situazione di disastro sociale nelle economie più deboli, come quelle del Maghreb, dove il rincaro delle materie prima ha effetti devastanti. La questione sociale però rischia di non fermarsi a sud del Meditteraneo. In una Europa sempre più impoverita e marginale la crisi rimette al centro della discussione politica la questione sociale. Questione sociale che, ovviamente, non è mai sparita ma è stata tenuta sotto controllo in questi ultimi vent’anni di egemonia neo-liberale dal processo di globalizzazione di marca americana che permetteva l’arrivo di merci a bassissimo costo dal Sud e soprattutto dall’Est del mondo. I salari sono rimasti in molti casi stagnanti, la forbice tra ricchi e poveri si è allargata, ma il potere d’acquisto si è mantenuto nella maggior parte dei casi intatto. Ma proprio il mo- dello di sfruttamento compulsivo del- le economie emergenti ci ha portato al- la situazione attuale, dimenticando che il capitalismo è sempre stato legato alla produzione di valore, e quindi di mer- ci, e dunque il cuore del capitalismo mondiale si è mano a mano spostato verso Oriente. La crisi finanziaria e la fine dell’egemonia americana ci lasciano quindi un mondo disordinato in cui le tensioni – tanto domestiche quanto internazionali – si susseguono. Il G20 non è neanche in grado di imporre re- strizioni sui movimenti di capitale che ridarebbero fiato agli stati, restringendo le capacità della finanza internazionale di imporre le proprie politiche economiche prova ne sia l’intensa attività di lobby esercitata dalle associazioni im- prenditoriali americane nei giorni scorsi in difesa della mobilità del capitale e degli accordi di libero scambio. Lasciare che sia ancora la supposta ma inesistente razionalità del mercato ad aggiustare la crisi e gli squilibri è utopia e, più spesso, malafede. Il capitalismo liberale porta sperequazioni, povertà, disastri sociali ed ecologici. La depoliticizzazione dei mercati ha disarmato i governi e svuotato la democrazia di ogni conte- nuto significativo, ma la crisi sta ripor- tando la politica fuori dalle borse, nelle piazze gremite di mezzo mondo. Piazze che gridano non solo contro il Mubarak ed il Berlusconi di turno, ma lottano per conquistarsi un posto nel mondo, un futuro migliore. Democrazia non vuol dire solo libere elezioni, ma soprattutto capacità di controllare il processo decisionale, di condizionare le scelte politiche ed economiche. Di controllare le condizioni materiali della maggioranza della popolazione, anche a scapito di una minoranza di ricchi. Da lì è inevitabile ripartire per costruire l’alternativa ad un sistema sempre più auto-referenziale e avviato verso il collasso.
Nicola Melloni (Liberazione, 22-2-2011)
I temi in discussione erano soprattutto due, i disequilibri commerciali - esemplificati dal deficit americano e dal surplus cinese - e l'aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime. Nel primo caso, gli Stati Uniti hanno continuato a chiedere con forza uno stabilizzatore automatico per evitare il ripetersi di situazioni come quelle attuali ma non hanno ottenuto nient'altro che dichiarazioni formali. Washington continua il pressing su Pechino perchè rivaluti lo yuan, in tal maniera da ridurre le importazioni cinesi e rendere più competitive le merci americane. Ma una analisi più approfondita rivela che tale richiesta semplifica un problema ben più sostanziale, senza dare una risposta di sistema. Infatti in questi ultimi cinque anni la Cina ha lasciato che la propria valuta si riapprezzasse di oltre il 20 percento in termini nominali senza che il deficit commerciale americano diminuisse in maniera sostanziale. E soprattutto, se si tiene conto della crescente inflazione cinese che determina un sempre più alto costo del lavoro, lo yuan si è rivalutato, in termini reali, di quasi il 50 percento. Il punto è che ormai molte merci non vengono più prodotte in Occidente, le fabbriche sono state delocalizzate e la Cina offre, nonostante l'inflazione, rendimenti sugli investimenti molto più alti di quelli che possano garantire gli Stati Uniti. La Cina, nonostante la crisi internazionale, ha continuato a crescere e quindi continua ad attirare il capitale internazionale. Non può certo essere un mero riaggiustamento del cambio a modificare questa situazione.
La crescita economica cinese e l'inflazione che l'accompagna ci porta al problema successivo - l'impennata dei prezzi delle materie prime. Tremonti ha parlato di gravi responsabilità della speculazione internazionale che scommettendo su una ripresa economica anche in Occidente ha spinto i prezzi verso l'alto. Questo è sicuramente vero, ma, nuovamente, si tratta solo di una escrescenza del problema e non della sua vera natura. In Europa e negli Stati Uniti siamo sempre stati abituati a pensare che nei periodi di recessione i prezzi delle materie prime sarebbero calati a causa della diminuita domanda, e per secoli, infatti, le cose si sono svolte esattamente in questa maniera. La situazione però ora è cambiata, drammaticamente. Negli Stati Uniti i salari sono stagnanti e la disoccupazione non decresce, ciò nonostantel’inflazione a Gennaio è cresciuta dell’1.6%, guidata dall’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità – energia e cibo. Una situazione simile si sta concretizzando in Europa, con ef- fetti facilmente immaginabili, diminu- zione del potere d’acquisto dei salari e peggioramento delle condizioni di vita per i detentori di reddito da lavoro. La crescita dei prezzi è provocata dalla prepotente entrata nei mercati internazionali di Cina, India, Brasile che più che compensano la stagnazione delle economie occidentali, nel frattempo generando una situazione di disastro sociale nelle economie più deboli, come quelle del Maghreb, dove il rincaro delle materie prima ha effetti devastanti. La questione sociale però rischia di non fermarsi a sud del Meditteraneo. In una Europa sempre più impoverita e marginale la crisi rimette al centro della discussione politica la questione sociale. Questione sociale che, ovviamente, non è mai sparita ma è stata tenuta sotto controllo in questi ultimi vent’anni di egemonia neo-liberale dal processo di globalizzazione di marca americana che permetteva l’arrivo di merci a bassissimo costo dal Sud e soprattutto dall’Est del mondo. I salari sono rimasti in molti casi stagnanti, la forbice tra ricchi e poveri si è allargata, ma il potere d’acquisto si è mantenuto nella maggior parte dei casi intatto. Ma proprio il mo- dello di sfruttamento compulsivo del- le economie emergenti ci ha portato al- la situazione attuale, dimenticando che il capitalismo è sempre stato legato alla produzione di valore, e quindi di mer- ci, e dunque il cuore del capitalismo mondiale si è mano a mano spostato verso Oriente. La crisi finanziaria e la fine dell’egemonia americana ci lasciano quindi un mondo disordinato in cui le tensioni – tanto domestiche quanto internazionali – si susseguono. Il G20 non è neanche in grado di imporre re- strizioni sui movimenti di capitale che ridarebbero fiato agli stati, restringendo le capacità della finanza internazionale di imporre le proprie politiche economiche prova ne sia l’intensa attività di lobby esercitata dalle associazioni im- prenditoriali americane nei giorni scorsi in difesa della mobilità del capitale e degli accordi di libero scambio. Lasciare che sia ancora la supposta ma inesistente razionalità del mercato ad aggiustare la crisi e gli squilibri è utopia e, più spesso, malafede. Il capitalismo liberale porta sperequazioni, povertà, disastri sociali ed ecologici. La depoliticizzazione dei mercati ha disarmato i governi e svuotato la democrazia di ogni conte- nuto significativo, ma la crisi sta ripor- tando la politica fuori dalle borse, nelle piazze gremite di mezzo mondo. Piazze che gridano non solo contro il Mubarak ed il Berlusconi di turno, ma lottano per conquistarsi un posto nel mondo, un futuro migliore. Democrazia non vuol dire solo libere elezioni, ma soprattutto capacità di controllare il processo decisionale, di condizionare le scelte politiche ed economiche. Di controllare le condizioni materiali della maggioranza della popolazione, anche a scapito di una minoranza di ricchi. Da lì è inevitabile ripartire per costruire l’alternativa ad un sistema sempre più auto-referenziale e avviato verso il collasso.
Nicola Melloni (Liberazione, 22-2-2011)
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