sabato 26 marzo 2011

RESISTENZA contro i tagli nel Regno Unito

Copenhagen Fields, Islington, London, 1834 Guildhall Library & Art Gallery


Uniti contro i tagli di Simone Rossi Sabato 26 marzo, si tiene a Londra la prima grande manifestazione) per protestare contro le politiche di riduzione del debito pubblico che il Governo Liberal Conservatore ha messo in campo, convocata dalla centrale sindacale Trade Union Congress (TUC). Si tratta di misure che mirano al progressivo smantellamento dell'appartato statale, descritto come elefantiaco ed inefficiente, per lasciar spazio alla Big Society, la società civile che si prenderebbe carico dei servizi non più offerti dallo Stato, facendo in modo che siano i cittadini a rendersene responsabili. Nei fatti si tratterà della pura e semplice privatizzazione di quanto appetibile in termini finanziari per le compagnie private, primi tra tutti istruzione e sanità, mentre i sussidi ed i servizi alla persona non lucrativi saranno semplicemente ridotti se non eliminati. Pertanto è evidente che la società civile e le organizzazioni del Terzo Settore non avranno alcun ruolo in tutto ciò, tolto quello della foglia di fico, soprattutto considerando le drastiche riduzioni di personale e prestazioni offerte dalle cooperative e dalle associazioni che hanno già visto ridotti gli stanziamenti da parte del governo centrale e degli enti locali. Da metà ottobre, quando il Ministro delle Finanze Osborne illustrò il programma di rientro del deficit pubblico per il quinquennio successivo, si è assistito alla proliferazione di comitati e gruppi spontanei che si oppongono ai tagli o alla difesa di specifici servizi locali quali biblioteche, centri sportivi, scuole, ambulatori, ospedali ed all'emergere di un considerevole movimento studentesco, in opposizione all'innalzamento del tetto massimo per le tasse universitarie da ’3'000 a ’9'000 annuali. Tuttavia su scala nazionale non esiste un movimento unitario che sappia coordinare i gruppi ed i comitati locali in una prospettiva più ampia, globale, che consenta di formulare proposte che vadano oltre la semplice opposizione puntuale alla chiusura di servizi. I tre coordinamenti nazionali attualmente esistenti afferiscono ad altrettante aree della Sinistra britannica e sono incapaci di comunicare e di superare le rivalità e le divergenze ideologiche in nome della comune lotta per la salvaguardia dello Stato Sociale; inoltre essi non sono in grado di attrarre e coordinare quei gruppi locali sorti spontaneamente, senza connotazione o egemonia partitica. Noi di Resistenza Internazionale guardiamo con interesse alla manifestazione del 26 marzo, perché si tratterà di un a tappa importante nell'opposizione alle politiche promosse dalla coalizione di governo, perché essa potrebbe rappresentare il punto di inizio di un'ampia mobilitazione nazionale organizzata ed unitaria, in grado di far deragliare i piani governativi, come accadde nel 1990 con la tassa Poll Tax voluta dal governo Thatcher. Essa potrebbe fornire l'impulso per la formulazione di un progetto di alternativa al modello sociale ed economico prospettato dalla coalizione liberal-conservatrice, per l'affermazione di una piattaforma di Sinistra dopo trent'anni di egemonia culturale del pensiero unico neoliberista. In caso contrario, l'opposizione allo smantellamento definitivo del welfare system permarrà nel suo stato di divisione e di insignificanza, lasciando il campo aperto allo stravolgimento del modello sociale in cui siamo vissuti sinora ed alla trasformazione di diritti quali la salute, l'istruzione, una vecchiaia serena, il lavoro in privilegi alienabili. Per tale motivo alcuni di noi, residenti nel Regno Unito, parteciperanno alla manifestazione ed abbiamo deciso di dedicare uno spazio sul nostro blog all'analisi dell'attuale situazione economica e dei piani di riduzione del debito dell'Esecutivo, anche attraverso i racconti di vita quotidiana di chi, tra noi, sta toccando con mano i primi effetti delle politiche attuate dalla maggioranza liberal-conservatrice. Un modo efficace, a nostro parere, di illustrare quali siano le ricadute reali sulla quotidianità delle persone.

A Londra ritorna la lotta di classe di Nicola Melloni E così a pochi mesi dal ritorno al governo dei Conservatori che si erano presentati in veste assai nuova e ben mimetizzati sotto il sorriso affabile di David Cameron, a Londra sono ricominciati gli scontri di piazza, oltre un ventennio dopo la durissima lotta che vide fronteggiarsi i sindacati e la signora Thatcher. D’altronde non poteva essere altrimenti. La finanziaria 2010 di George Osborne, il Ministro del Tesoro, è stata a dir poco draconiana. I conti pubblici inglesi sono in grave disordine, questo è vero, ma la responsabilità di questo non può essere scaricata, come si tenta di fare in Italia, sui costi dello stato sociale. Il deficit è semplicemente causa della crisi finanziaria e dell’aiuto pubblico dato per salvare le banche incapaci di sopravvivere in quel mercato non regolato che proprio banchieri e finanzieri hanno sostenuto. Ma questo non conta. Propio la comunità finanziaria, con una faccia di bronzo senza eguali nella storia, ha rinfacciato al governo il debito accumulato in questi ultimi anni ed ha lanciato il proprio diktat: rimettere a posto i conti immediatamente. Chi paga? Certo non loro, loro, si sa, prendono solo. Quindi a pagare deve essere la popolazione. Non è bastato l’aumento della disoccupazione, la stretta finanziaria e la recessione che ha colpito soprattutto i lavoratori mentre i banchieri hanno continuato a pagarsi bonus d’oro con i soldi pubblici. No, ovviamente, non poteva bastare. I veri dolori arrivano ora. Il governo Tory, spalleggiato dai liberaldemocratici che erano riusciti a fare incetta di voti di sinistra in libera uscita dal New Labour con una campagna elettorale farlocca e fasulla, ha dichiarato guerra al lavoro, alla scuola, ai servizi pubblici. Sotto attacco è il modello di convivenza civile che ha caratterizzato l’Europa dal secondo dopo guerra in avanti. Un attacco che non riguarda solo il Regno Unito ed è di una virulenza e di una violenza sociale che non ha eguali nella storia recente. Le tasse scolastiche vengono triplicate e gli investimenti pubblici nell’università vengono quasi dimezzati. Ma è il progetto che sta dietro questi tagli a fare paura: la scuola pubblica viene di fatto abbandonata, trasformata in un mercato dove gli studenti diventano consumatori e le università imprese. Siamo all’apogeo del mercato, alla mercificazione della cultura e, più in generale, del servizio pubblico. In questi ultimi vent’anni di bugie ci avevano raccontato che la lotta di classe era finita. Ma come altro possiamo definire questa situazione cui ci troviamo davanti ora? Questa è una battaglia di redistibuzione del reddito dalle classe popolari ai capitalisti, alla finanza rapace, agli arroganti scherani del potere che lo scorso anno gettavano banconote da 20 sterline sulla testa dei manifestanti anti-G20. La rivolta non ha tardato a cominciare. Gli studenti sono scesi in piazza in maniera massiccia per dire no alla distruzione del sistema universitario. Hanno detto che non sono disponibili a pagare per i danni provocati dalle banche . Il centro di Londra ha assistito al primo grande scontro tra sfruttati e sfruttatori, un processo di lotte che si sta allargando a macchia d’olio a tutta l’Europa, da piazza San Giovanni agli scioperi francesi. Una lotta che non può essere rimandata perchè il capitale sta cercando di stravolgere il nostro modello di convivenza civile. Sfruttando la crisi, il modello che invece ora ci viene imposto è un modello classista che premia i ricchi, ed in cui il mercato invade e rimpiazza la sfera pubblica non più sulla base della supposta efficienza del liberismo ma con la scusa che non ci sono più soldi in cassa per garantire il livello di servizi cui eravamo abituati. Non è vero naturalmente. Le nostre economie continuano a produrre ricchezza, bisogna solo decidere come la si spartisce. E’ un concetto vecchio, è la lotta di classe. Si tratta della riapertura del conflitto sociale che è stato sopito per anni concedendo le briciole dell’accumulazione capitalista ai lavoratori che ora si trovano deprivati anche di quel poco e questo vuol dire che anche il sistema politico che aveva supportato quel contratto sociale diventa, tutto ad un tratto, inadeguato. Il capitale approfittatore non può permettersi il compromesso democratico che ha caratterizzato i nostri paesi nella seconda metà del XX secolo. La diseguaglianza, la polarizzazione del reddito, la concentrazione del capitale in poche, rapaci mani deve per forza alzare il livello di repressione per contenere la rivolta sociale. Negli scorsi mesi a Londra abbiamo avuto la prova generale di questo giro di vite. Carabineros a cavallo contro studenti a mani nude, come in Cile nel ’73, come a fine Ottocento contro le primemanifestazioni operaie. Il neo-liberismo torna alle origini, alla violenza per governare la piazza, alla repressione brutale, come si è visto davanti al Parlamento brittanico, con dimostranti bloccati al freddo, effettivamente sequestrati in una piazza chiusa ermeticamente da camioncini della polizia, da forze dell’ordine in tenuta anti-sommossa, da bastonatori a cavallo. Una scena di lotta di classe nel lussuosissimo centro di Londra, una scena che vedremo sempre più spesso nel prossimo futuro. Quello cui ci dovremo abituare però, è anche il tentativo che continuerà di limitare la nostra libertà e di trasformare sempre più le nostre democrazie in stati di polizia, una degenerazione che solo un forte movimento sociale, organizzato, strutturato e cosciente del suo ruolo politico può evitare.


Effetti dei tagli sulla popolazione di Carla Gagliardini Qualche settimana fa ho partecipato ad una riunione di latino-americani a Londra. Si discuteva delle linee organizzative per partecipare in modo rumoroso e colorato alla manifestazione del 26 marzo a Londra contro i tagli alla spesa pubblica. All'incontro, organizzato nel quartiere latino-americano di Elephant and Castle presso uno dei tanti shopping centres, hanno partecipato un parlamentare della sinistra Labour, un paio di rappresentanti di organizzazioni territoriali che si occupano dei problemi dei propri connazionali e un gruppo piuttosto folto di persone. La comunità latino-americana sarà certamente danneggiata in modo preoccupante dai tagli in arrivo. Questo perché si tratta prevalentemente di persone che svolgono lavori c.d. “umili” e in particolare si tratta di un gran numero di uomini e donne che lavorano nel settore delle pulizie. Ciò significa che i loro redditi sono tendenzialmente bassi e per vivere in una città come Londra, dove tanto per citare due esempi il costo del trasporto e delle abitazioni è molto caro, è possibile solo con il sostegno dei contributi governativi e degli enti locali a favore dei redditi bassi. Questi sostegni, tuttavia, verranno ridotti in modo significativo già a partire da aprile 2011. Ma non è questo l'unico aspetto che preoccupa questi compagni e queste compagne latino-americani. Alcuni dei tagli già in vigore hanno ridotto i fondi per le associazioni che si occupano di fornire certi servizi sul territorio. E così una ormai storica associazione latino-americana che si occupa di prestare servizi agli anziani latino-americani, molti dei quali non parlano inglese, sarà a breve costretta a chiudere le sue porte perché non più in grado di pagare l'affitto dei locali. La presidentessa dell'associazione raccontava di essere stata a visitare una struttura offerta loro dal quartiere in una delle zone più a rischio dell'area. Si trattava di un bagno pubblico, si proprio quello che più volgarmente chiamiamo cesso, situato all'interno di un parco che quando viene buio mette i brividi. Esprimeva alla sala che l'ascoltava la sensazione di umiliazione provata di fronte a quella inaspettata offerta. I tagli che verranno fatti vanno nella direzione di colpire le persone già economicamente e socialmente più deboli della società. E il rincaro dell'IVA (passata dal 17.50% al 20%) è un ulteriore gravame che impoverirà ancora di più le famiglie dal reddito basso. La rabbia cresce tra i cittadini perché anche le prospettive lavorative di questo paese, che un tempo offriva opportunità di lavoro e carriera, oggi sono ridotte all'osso. In compenso dobbiamo assistere ancora una volta al pagamento dei super-bonus che la banca RBS ha fatto ai propri managers, nonostante un altro anno chiuso in perdita. Pensate che questa banca è stata in parte (84%) nazionalizzata dal governo britannico per salvarla dal fallimento che la stava travolgendo per via della crisi finanziaria. Quindi per salvarla il governo di Sua Maestà al quale anch'io verso le tasse, ci ha messo i soldi di noi contribuenti. Il governo inglese ha detto: “scusate signori ma è richiesto un comportamento più etico. Questa storia l'abbiamo già vissuta e abbiamo imparato per cui i super-bonus sono una politica che appartiene al passato e, pertanto, non sono più ammessi”. Scusate ho scherzato un po' con voi. Ovviamente il governo di David Cameron e del suo fedele ministro delle finanze George Osborne non ha detto questo. Mentre scrivevo dovevo avere la testa tra le nuvole. No, il governo, invece, ha lasciato fare. Eppure in campagna elettorale metteva quasi paura quando lo si ascoltava dire che comportamenti così deplorevoli da parte dei banchieri non sarebbero stati da loro tollerati! Non ci ho creduto per un solo secondo ma altri invece ci sono cascati. Ma torniamo ai nostri tagli. A ricevere un duro colpo non è solo il settore pubblico ma anche quello privato. Questo perché molti degli appalti che un tempo venivano fatti dal governo o dagli enti locali oggi sono stati cancellati determinando una drastica riduzione del lavoro delle imprese che, già da tempo, hanno aperto le porte dei loro uffici per dare il benservito ai loro dipendenti i quali, improvvisamente, sono stati classificati come un “esubero”. E la NHS (l'equivalente del nostro SSN – servizio sanitario nazionale) non sta affatto meglio. Si parla persino di privatizzare la sanità pubblica! Infine in un paese dove la delinquenza è un dato preoccupante si è votato in parlamento per il draconiano taglio dei fondi alle forze di polizia, il che significa meno agenti e ovviamente meno agenti sulle strade. Mi domando se l'Inghilterra rimanga sempre quel paese il cui modello ispira una certa parte della sinistra italiana. Mah..........


Il progetto Merlin – un trucco mal riuscito di Alessandro Volpi Lo scorso Febbraio le quattro principali banche britanniche (HSBC, Royal Bank of Scotland, Barclays e Lloyds) hanno raggiunto con il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne un accordo che va sotto il nome di Merlin Project. Il clima in cui si è svolta la trattativa e gli esiti finale sono evidenti segnali che non molto è cambiato nell’Inghilterra del governo neo-Conservatore. Le Banche hanno riguadagnato la loro spavalderia e sfidano apertamente la società e la politica, quella stessa politica che solo due anni e mezzo fa ne permise la sopravvivenza. L’audizione del CEO di Barclays davanti ai Membri del Comitato del Tesoro, che ha di poco preceduto l’accordo Merlin, è stata in questo senso illuminante: sprezzante rifiuto nel manifestare gratitudine ai contribuenti britannici, esaltazione della propria industria, negazione di qualsiasi impegno a rinunciare ai compensi milionari dei top-executives. Appare quanto mai opportuno calare i fatti nel loro contesto. Due dei quattro più grandi istituti finanziari (RBS e Lloyds) insieme a una serie di altre banche minori e Building Society furono salvate dalla bancarotta nel corso della crisi finanziaria del 2008 da un massiccio intervento del Governo Laburista, un intervento che assunse diverse forme a seconda della gravità dei casi. RBS fu di fatto nazionalizzata (il Tesoro ne controlla tuttora più del 80%), così come Lloyds anche se in minor proporzione. In altri casi, il Governo fornì forme di garanzia della solvibilità, creò dei Fondi di emergenza, e tramite la Bank of England immise ingentissimi quantitativi di liquidità nel sistema finanziario, per scongiurare un rischio “Lehman Brothers”. Il sistema finanziario fu salvato, anche se ad un prezzo altissimo per le finanze pubbliche. Tale intervento risultò sommamente impopolare a livello di società e pubblica opinione. Molti pensarono che i risparmi e le tasse dei contribuenti venivano utilizzati per salvare quelle stesse banche d’affari che avevano generato la crisi attraverso una sistematica, eccessiva e spregiudicata assunzione di rischio. Molti altri non riuscivano a capire perché non si potesse semplicemente lasciar fallire, come si sarebbe fatto con le imprese di un altro settore, quelle istituzioni che per i propri errori e avidità avevano causato una crisi che mordeva ora l’economia reale. Altri ancora si indignavano per i livelli di retribuzione di un’industria che sottrae costantemente molti giovani talenti alla società senza restituire un beneficio collettivo, e che ora, dopo anni di ampi profitti privati, trovava “dovuta” la collettivizzazione delle perdite. Su un punto tutti convenivano: rendere la crisi finanziaria una lezione storica, un punto di inflessione del sistema da cui ripartire con regole nuove e più severe, che si applicassero in primis alle banche, che rendessero la finanza un’industria “normale” al servizio della produzione e non ripiegata su stessa e su torbidi giochi di speculazione internazionale. L’intero spettro della nomenclatura politica sembrava sostenere con forza una simile linea d’azione. Chiedevano a gran voce la fine della cultura dei super-bonus basati sui risultati di breve periodo, la fine del paradigma del “ too big to fail”, l’idea per cui un colosso finanziario non può essere lasciato fallire perché trascinerebbe con sé per effetto domino l’intero sistema, con conseguenze disastrose sull’economia; infine, la riscoperta della reale funzione di un sistema finanziario, e cioè l’efficiente allocazione delle risorse alle imprese e alle realtà produttive. La crisi finanziaria, si diceva, ha avuto enormi ripercussioni sulla collettività. La politica ha il compito di garantire che questi eccessi non abbiano a ripetersi, che i banchieri rientrino nei ranghi, che si modifichi la natura stessa del sistema finanziario. Tra i critici più indignati e accesi sostenitori di tali posizioni svettavano Osborne, Cameron, e tutto lo stato maggiore dei Liberal Democrats, allora tutti all’opposizione. Le elezioni dell’anno passato sancirono un logico, quasi scontato cambio di testimone. Il governo laburista era percepito, per molti versi a ragione, come responsabile della deregulation che aveva condotto al meltdown finanziario, e i conservatori hanno avuto buon gioco a criticare il disastro che era sotto gli occhi di tutti. Il messaggio era semplice: la crisi è grave, e ci sarà un prezzo da pagare che sarà salato e ricadrà sulla società e sul settore pubblico. Il governo laburista ha lasciato finanze dissestate (proprio a causa del salvataggio delle banche), e non esistono alternative indolori. Ma quanto alle banche, si diceva, si cambia registro: regole severe sui livelli di rischio tollerabili, sulla quantità di riserve obbligatorie, sul sistema di bonus e compensi, sull'erogazione del credito alle imprese, sulla dimensione massima di una singolo gruppo, sulla struttura stessa delle istituzioni. Tutti punti dirimenti che costituiscono lo scheletro portante del sistema finanziario di un paese. Vinte le elezioni, l’inusuale coalizione di Conservatori e Lib Dem non ha tardato a implementare i cosiddetti sacrifici richiesti alla società. Tagli drammatici del welfare, eliminazione di circa 100 mila posti pubblici all’anno, triplicazione delle rette universitarie, tagli alle amministrazioni locali e alle organizzazione no-profit. Si tratta di politiche piuttosto rischiose (molti commentatori di diverse aree di pensiero hanno parlato di “big gamble”), in quanto l’ulteriore compressione della spesa e dei consumi privati potrebbe frenare la ripresa economica o persino innescare una nuova recessione, ma sostanzialmente in linea col programma elettorale dei Tories. E le banche? Sulle banche invece si è proceduto con enorme cautela, tra generiche dichiarazioni di buone intenzioni, deleghe alla sovranità europea, avvertimenti sul rischio di perdita di competitività internazionale e del ruolo di Londra come hub dei servizi finanziari del continente. Fino al progetto Merlin del mese passato. I punti sul tavolo erano sostanzialmente due: (i) garantire un aumento dell’erogazione del credito all’impresa e ai business medio-piccoli per aiutare la ripresa economica; (ii) il sistema di bonus e compensi, sia in termini del valore e della quantità dei premi corrisposti, sia nel modello di differimento temporale, sia infine in termini di trasparenza degli stessi. A tutto ciò si aggiungeva l’annosa e mai risolta questione del “modello” bancario, causa ultima del problema sistemico insito nella crisi del 2008: si deve porre un limite alle dimensioni che una singola istituzione può raggiungere, senza che questa costituisca un rischio intrinseco per tutto il sistema? E ancora: la banca retail e commerciale che raccoglie i risparmi dei cittadini deve essere separata dalla banca d’affari che gioca sui mercati internazionali (come sosteneva Vince Cable, attuale Business Secretary del governo di coalizione) ? O le due divisioni possono coesistere all’interno dello stesso gruppo, con un forte grado di interdipendenza, che e’ il business-model attuale delle banche britanniche? Su questi punti si attendeva una risposta dal confronto tra Tesoro e le quattro grandi, cui si è aggiunto parzialmente il gruppo Santander che nel corso della crisi ha consolidato la sua presenza in UK tramite una serie di acquisizioni. E su questi punti la lobby delle banche ha ottenuto una vittoria inequivocabile. Vediamo perché. Credito all’impresa: le banche si sono impegnate in via teorica a incrementare di 11 miliardi su base annua i prestiti alle imprese (da 179 a 190), quasi la metà dei quali dovrebbero andare agli small business. Tuttavia, il Governo non ha nessuna forza di coercizione né può imporre alcuna sanzione qualora questi obiettivi dichiarati non vengano raggiunti. Inoltre, e quasi inevitabilmente, tali crediti verranno concessi secondo criteri commerciali, con attenta valutazione del profilo dei richiedenti, e sempre che le condizioni di mercato siano sufficientemente stabili. A ben vedere, dunque, le banche si sono impegnate a incrementare il credito solo se lo riterranno conveniente, e nei termini che riterranno opportuni. Non un accordo, ma una dichiarazione d’intenti che preserva lo status quo. E quel che è peggio, l’associazione degli Small Business continua a lamentare le condizioni di accesso al credito. I potenziali prestiti sono soggetti a tassi alti, spesso non sostenibili, e risultano quindi non praticabili. In generale, quindi, si tratta di vuote dichiarazioni di intenti non corroborate da alcuna sostanza fattuale. Bonus e compensi: anche su questo fronte il Governo esce con risultati scadenti. Non ha introdotto dei tetti di compensazione, e neppure una tassazione sistematica più severa che serva da deterrente o perlomeno da misura redistributiva dei premi. Si assiste così al paradosso di pagamento di bonus milionari a alti esecutivi di banche “pubbliche” (come RBS) che hanno chiuso l’anno con una perdita netta, con la motivazione che la perdita era inferiore all’anno precedente e che senza bonus stellari nessuna banca può competere nel mantenimento dei propri top-performers e nella ricerca di nuovi talenti. In quanto allo schema di pagamento, ogni banca ne adotta uno diverso. È pratica consolidata che parte dei compensi alti vengano corrisposti in azioni o in cash differito su un certo periodo di tempo (tipicamente da uno a quattro anni). Ma questa pratica in sé è un palliativo ed era di fatto in essere già da molti anni, senza che riuscisse in nessun modo a scoraggiare quei comportamenti di eccessivo risk-taking nella ricerca di un profitto immediato che hanno portato alla crisi. In quanto alla trasparenza, le banche si sono impegnate a rendere noto il compenso dei 5 top-executives, anche se in forma anonima. Questa misura non applica però ai traders, spesso destinatari dei pacchetti più generosi. Anche in questo caso quindi, la cultura dei big bonus non viene seriamente scalfita dagli accordi del progetto Merlin. Business Model: quest’aspetto è il più complesso e ha profonde implicazione sulla struttura del sistema finanziario. A onor del vero, e’ parte di un discorso più ampio rispetto al contenuto di un singolo accordo. Ma a tutt’oggi si può riscontrare che nulla e’ stato fatto per risolvere il problema del “too big to fail”. Se una nuova crisi venisse a colpire uno dei grandi colossi, avremmo di nuovo il problema che un singolo fallimento potrebbe potenzialmente innescare una reazione a catena che affondi l’intero sistema. Non si sono posti limiti alle dimensioni di una singola istituzione o al grado di interdipendenza tra queste. Quanto al Business Model, alcune banche (come Barclays e HSBC) vantano il proprio modello di integrazione banca d’affari – banca commerciale tradizionale come un pilastro del loro successo e della (relativa) solidità dimostrata nella crisi. Ma va ricordato che il problema non e’ stabilire se questa o quella banca sono più o meno solide, o come hanno reagito a una situazione di estremo stress finanziario. La questione è piuttosto eliminare il problema del rischio sistemico. Nessuna istituzione dovrebbe avere dimensioni tali da non poter fallire. O altrimenti, avrà sempre per definizione una garanzia statale sulla propria solvenza. Ovvero si riproporrà sempre il problema di un’istituzione privata che è spinta ad assumere rischio e a macinare profitti per impiegati e azionisti con la garanzia che, in caso di tempesta, lo stato passerà a saldare il conto.

Londra, 8/2/2011 Nicola Melloni, 08 febbraio 2011

L’ascia del Cancelliere sul welfare britannico. Le conseguenze del meltdown finanziario stanno cominciando a farsi sentire anche in Paesi come la Gran Bretagna, dove le ondate speculative che negli ultimi mesi hanno colpito Grecia e Irlanda ancora non hanno prodotto conseguenze significative. D’altronde le elezioni politiche del maggio 2010 si erano giocate proprio sul come gestire il dopo crisi, come affrontare il deficit governativo che era schizzato alle stelle. Per i conservatori le politiche di austerità rappresentavano l’unica soluzione per ripristinare la market confidence, mentre per i liberaldemocratici, membri anche loro del governo di coalizione, il riordino dei conti pubblici sarebbe dovuto avvenire in maniera più graduale.


La linea del ministro del Tesoro Osborne sembra però aver prevalso, e il Regno Unito ha intrapreso una serie di politiche economiche dal durissimo impatto sociale. La VAT (la nostra IVA), inizialmente abbassata per favorire i consumi, è stata prima riportata al suo valore iniziale e sarà poi alzata a metà 2011 – una misura fortemente regressiva perché colpisce in maniera disproporzionata le famiglie a reddito più basso, ossia quelle che utilizzano la parte maggiore del proprio reddito in consumo. Il settore pubblico verrà fortemente colpito con il blocco salariale e la pianificata diminuzione di ben 200.000 lavoratori che, nelle speranze del cancelliere, dovrebbero essere assorbiti dal settore privato. Una speranza che purtroppo non si fonda su alcun dato concreto, come conferma la maggioranza degli economisti e come evidenziato da quella che finora è una (timida) jobless recovery. Il deficit, per quanto elevato, non sembra peraltro essere tale da richiedere interventi draconiani, che rischiano piuttosto di minare la crescita. Anzi, in fasi d’incertezza economica, l’intervento pubblico può stimolare la ripresa economica, che renderebbe la dinamica del debito sostenibile nel medio periodo.


Il programma di Cameron e Osborne sembra in realtà un manifesto ideologico in cui la crescita è affidata totalmente alle virtù taumaturgiche del mercato, dimenticando che è stato un fallimento di mercato e non certo dello Stato a scatenare la crisi finanziaria del 2007 e che i conti dello Stato sono al momento deficitari proprio per il gigantesco bail out bancario degli ultimi anni.


In questo contesto la riforma universitaria sembra il punto più discutibile e quello che ha provocato maggiori proteste, almeno per il momento. I finanziamenti pubblici sono stati tagliati del 40%, mentre le tasse universitarie sono state raddoppiate e in alcuni casi triplicate fino a 9.000 pound annui. I giovani che entreranno all’università non dovranno pagare le quote immediatamente, ma potranno ripagare l’ammontare (tra le 40 e le 50.000 sterline alla fine del percorso universitario) nel momento in cui saranno assunti con un salario di almeno 20 mila sterline l’anno – non certo un salario da benestanti. Molti studenti saranno disincentivati dall’iscriversi all’università non avendo vere aspettative di salari alti nel futuro (ricordiamo che il Regno Unito ha la mobilità sociale più bassa d’Europa insieme all’Italia), mentre altri preferiranno emigrare negli Stati Uniti, sfruttando anche il cambio favorevole. Allo stesso tempo anche moltissimi studenti europei, che in questi anni hanno affollato le università inglesi, saranno costretti a rinunciare a studiare oltremanica. In ogni caso ci sarà una perdita secca in termini di qualità degli studenti. Le università migliori riusciranno comunque ad attirare studenti (e quindi denaro) contando sul loro nome e prestigio, mentre le altre rischiano seriamente di chiudere o di venire fortemente ridimensionate. Inoltre, tale riforma sembra dare nuova linfa all’economia del debito, causa principale del collasso finanziario. Le proteste degli studenti sono state durissime, represse peraltro con pugno di ferro dal governo. Il rischio è che le nuove misure di austerity, quando entreranno in vigore, causino ulteriori discontenti e proteste generalizzate.


I tagli ai sussidi agli affitti e le loro potenziali conseguenze Di Simone Rossi A metà di ottobre 2010 il Ministro delle Finanze Osborne ha presentato al Parlamento la previsione di bilancio per i prossimi cinque anni, confermando i tagli e le misure draconiane anticipate poco dopo l’insediamento del Governo liberal-conservatore. Nonostante i proclami della coalizione di maggioranza di voler distribuire equamente tra la popolazione i sacrifici per superare la crisi, la manovra nel suo complesso mira a far pagare la crisi economica agli strati più poveri della società.


Sino ad oggi lo Stato britannico ha provveduto ad integrare il reddito dei cittadini bisognosi con forme di sussidio che consentono loro di raggiungere una qualità della vita accettabile. Tra questi aiuti economici si trova il sussidio per l’affitto, destinato non solo ai disoccupati, ai pensionati ed agli inabili al lavoro, ma anche a quelle famiglie il cui reddito non permetterebbe l’accesso al mercato delle locazioni “libere”. Questo sussidio è considerato da molti britannici come una forma di “compensazione” da parte dello Stato per il suo pressoché totale disimpegno nella costruzione edilizia economico popolare, a fronte di una sempre più crescente domanda. Pur a fronte di un inadeguato intervento statale nel settore immobiliare, deve esser tenuto in conto che tale sussidio ha evitato un massiccio esodo di popolazione povera dalle zone centrali o più pregiate delle città durante gli anni della bolla speculativa e dell’impennata dei prezzi, garantendo il mantenimento di un minimo mix sociale ed etnico e preservando il tessuto di relazioni sociali esistenti nel territorio.


A tutto ciò il Governo guidato da D. Cameron ha deciso di porre fine, fissando un tetto al valore del sussidio concesso a ciascun soggetto avente titolo: £250 settimanali per un appartamento con una stanza da letto, £400 per uno da quattro stanze. Tale limite è determinato sulla base delle dimensioni delle abitazioni, a prescindere dalla località in cui esse si trovano e dal valore di mercato, ragion per cui risulta fondato il timore espresso da esponenti delle istituzioni e del mondo accademico di vedere un progressivo allontanamento dei poveri dalle zone più costose delle città e del Paese verso le aree più degradate, che sarebbero trasformate in ghetti. Tutto ciò in un momento in cui le organizzazioni dei consumatori già registrano un aumento dei casi di famiglie non in grado di pagare l’affitto o la rata del mutuo, a causa della crisi economica; momento in cui, invece, l’investimento pubblico dovrebbe crescere.


Di fronte alle polemiche ed alle pressioni, provenienti anche dal campo conservatore come il sindaco della Grande Londra, il populista B. Johnson, la maggioranza difende la propria scelta proponendola come una norma progressista, che forzerà i proprietari di appartamenti a ridurre il valore degli affitti e scoraggerà coloro che godono illegittimamente dei sussidi, frodando lo Stato. Quest’ultimo è un leit motiv cui l’Esecutivo ricorre frequentemente per giustificare il taglio indiscriminato e pesante di ogni forma di sussidio, esagerando la portata del fenomeno dei “falsi invalidi” e di coloro che sono definiti “ladri di sussidi” e finanche riportando esempi di frode che, alla prova dei fatti, non trovano riscontro nella realtà. In questa operazione di mistificazione la maggioranza trova una sponda nei media, soprattutto la carta stampata di area moderata o conservatrice; durante l’estate ad esempio, il quotidiano The Sun pubblicò scandalisticamente la notizia di una famiglia di origini extra-europee che viveva nel centro di Londra grazie ad un sussidio di circa £36.000 l’anno, pari ad una volta e mezzo il salario medio inglese. L’articolo diede l’avvio ad una campagna, di taglio populistico, di denigrazione dei fruitori di sussidi con il risultato che, quando fonti ufficiali smentirono la notizia, l’idea che i lavoratori dovessero mantenere con le proprie tasse dei parassiti era già luogo comune. Nonostante la propria ostentata inflessibilità, però, il Governo ha dovuto posticipare l’entrata in vigore della nuova norma al 2012, cedendo temporaneamente alle pressioni delle organizzazioni non governative e di alcuni enti locali, profondamente preoccupati degli effetti sui servizi pubblici causato da una rapida migrazione di migliaia di cittadini verso aree già disagiate e dalla possibile segregazione per censo che la società inglese potrebbe subire. Il rischio che i nuovi tetti entrino in vigore non sarà comunque evitato fintanto che l’approccio vittoriano dei liberal-conservatori nei confronti dei poveri godrà dell’appoggio di strati della piccola e media borghesia.


Lezioni inglesi di Nicola Melloni La Gran Bretagna per anni ci è stata presentata come il paese dei miracoli. La stampa italiana, senza eccezioni, l’ha descritta come il paese dove tutto funzionava, la “cool Britannia” di Tony Blair dove tutti volevano andare a vivere, con un governo autorevole, una democrazia stabile e bipolare (anzi, bipartitica), lavoro flessibile che faceva funzionare il paese ma, allo stesso tempo, non immiseriva i lavoratori. Insomma, un esempio da imitare, importare l’assetto istituzionale inglese, sostenevano i nostri liberali, sarebbe stato il segreto per il futuro successo del nostro paese. In realtà, molti dei cosiddetti pregi della Gran Bretagna erano mitologie belle e buone già durante gli anni di premierato di Tony Blair. La mobilità sociale del Regno Unito già negli scorsi anni era la più bassa d’Europa insieme a, sorpresa sorpresa, quella italiana. Nato ricco, morto ricco e, soprattutto, nato povero e morto povero. D’altronde con un sistema educativo dominato dalla presenza delle scuole private – un’altra delle cose invidiate dai liberali di casa nostra – difficilmente potrebbe essere altrimenti. Certo Londra era ritornata l’ombelico del mondo, ma il resto del paese diventava perdeva quote sostanziali di reddito e la forbice tra ricchi e poveri si era allargata enormemente. Ma, si diceva, un costo sopportabile in una economia che va come un treno. Non era vero nulla, invece. Si trattava di una grande bolla speculativa, soldi facili attraverso le banche investite nel settore immobiliare, l’unica attività produttiva di una qualche importanza in Gran Bretagna. Il resto era un paese dedicato ai servizi, dove si produceva poca ricchezza reale. Un paese dominato dalla finanza che sembrava aver risolto tutti i problemi. Non solo provvedeva il capitale per gli investimenti ma finanziava anche il consumo, sopperendo così all’eterno dilemma del capitale, bloccato tra riduzione dei salari e aumento delle vendite. Ma era una soluzione illusoria. Dalla moneta non si produce ricchezza, l’economia del debito privato non è più virtuosa di quella del debito pubblico ed inevitabilmente è destinata a crollare quando questi debiti non si possono più pagare. La crisi ha travolto l’economia brittanica, l’ha messa in ginocchio e ancora oggi dopo 4 anni dall’inizio della crisi il nuovo governo conservatore è incapace di rimettere in moto un giocattolo ormai rotto. Le banche hanno ricominciato a fare profitti ma la disoccupazione non scende e l’economia non riesce a crescere. Il governo ha salvato le banche e ora si ritrova non solo con un livello altissimo di debiti privati, ma anche di debito pubblico. Ed ha deciso di farlo pagare ai più deboli. Ma il fallimento del neo-liberalismo anglosassone non è solo quello di Londra. Così come per oltre un decennio ci siamo sentiti ripetere delle virtù del mercato, ora è il momento di fare i conti con i limiti del mercato. Mercato che crea società non solo ingiuste e disfunzionali, ma anche economicamente inefficienti. Mercato che privatizza i profitti e socializza le perdite, che non è capace di autoregolarsi e che tende, inevitabilmente ad entrare in conflitto con la democrazia. Queste sono le lezioni della crisi bancaria, della crisi del modello inglese. Seppur con ampio ritardo sarebbe ora che l’Europa e soprattutto l’Italia si rendessero conto di questo fallimento e riscoprissero le virtù di un modello alternativo di sviluppo, quello del capitalismo temperato e democratico, che ha ricostruito economicamente e politicamente il continente dopo il 1945. In breve, abbiamo bisogno di un nuovo patto sociale, non di riforme che continuano a spingere in direzione opposta.


Gonfaloni di alcune sezioni sindacali: - fornai ebrei di Londra - tecnici delle miniere - facchini del porto di Londra - lavoratori delle ferrovie, marittimi e trasporti

giovedì 24 marzo 2011

NO AL NUCLEARE

La Merkel ha dichiarato che "Più presto la Germania uscirà dal nucleare meglio sarà". La Germania ha 17 reattori che saranno spenti con un anticipo di nove anni, nel 2026 e non più nel 2035 come previsto prima di Fukushima. Nei prossimi tre mesi tutte le centrali tedesche saranno controllate con uno "stress test" e sette reattori saranno spenti per manutenzione e uno definitivamente., altri cinque saranno disattivati in maggio per controlli. Se la matematica non è un'opinione, come vorrebbero i nuclearisti (a proposito qualcuno sta ancora blaterando sul nucleare sicuro di "nuovissima" generazione?), la Germania entro l'estate, una potenza economica mondiale, disporrà solo di 4 reattori (17 - 8 - 5 = 4). Come potrà sopravvivere? Con lo sviluppo delle energie rinnovabili che valgono già oggi il 17% dell'elettricità prodotta (il nucleare è al 22%).
Le centrali nucleari in Europa sono centinaia. La Francia è la prima nazione nucleare. La Francia dispone di 19 centrali con 58 reattori, nel 2009 l'energia nucleare ha generato il 75.17% del suo fabbisogno di energia elettrica, la prima al mondo, le altre nazioni arrivano al massimo al 30%.. Un reattore EPR è in costruzione in Normandia, il secondo dopo quello finlandese di Olkiluoto che ha come partner l'Enel al 12,5% degli investimenti e che ha già raddoppiato i costi e i tempi di costruzione. La Francia ha modello di sviluppo basato sull'energia nucleare, sull'armamento nucleare strettamente connesso a quello civile, un modello mantenuto in vita grazie alle tasse dei francesi e all'approvvigionamento dell'uranio dal NigerAreva (vedi Greenpeace "L'uranio di Areva sta uccidendo il Niger"). La Francia, dopo Fukushima, è rimasta con il cerino nucleare in mano e con la Francia anche l'Europa. Due modelli di sviluppo inconciliabili sono davanti a noi, uno legato alle rinnovabili e al risparmio energetico, rappresentato dalla Germania, e un'altro nucleare, della Francia. Su questo tema l'Europa deve pronunciarsi attraverso un referendum collettivo. Gli europei devono decidere della politica energetica dell'Europa e del loro futuro, non soltanto i singoli governi. Alle frontiere occidentali dell'Italia sono schierate 7 centrali nucleari, da Super Phénix a Marcoule. Qualcuno ci ha chiesto il permesso? Se un aereo di linea, come è successo l'11 settembre, fosse dirottato su una centrale parte della Francia e dell'Italia diventerebbero un deserto radioattivo. Il Giappone, quando si sarà ripreso, abbandonerà l'energia nucleare. Le borse mondiali lo hanno già fatto, le industrie del nucleare sono andate a picco. Le lobby non si faranno mettere da parte così facilmente, controllano i media che hanno seppellito Fukushima con il corpo ancora caldo. L'Europa ha bisogno di statisti, non di affaristi alla Sarkozy o alla Berlusconi. Siamo in guerra e la vinceremo. 


http://www.beppegrillo.it/2011/03/la_merkel_ha_di/index.html?s=n2011-03-24

domenica 20 marzo 2011

Guerra in Libia? Che ne pensiamo?







Ci accingiamo ad assistere alla seconda notte di operazioni aeree della coalizione internazionale sui cieli della Libia.
Guerra? Giusta? Ingiusta? Perché?
Spazio aperto al dibattito nei commenti a questo post.

La Fiat rischia il testacoda

La Fiat rischia il testacoda
Lieve ripresa in Europa ma il Lingotto vende il 16,7 per cento in meno Pesa la mancanza di nuovi modelli. Come dimostra il caso Alfa
Dal mercato europeo dell'automobile arrivano i primi timidi segnali di ripresa. Nel mese di febbraio le nuove immatricolazioni sono state un milione, 14.519, in aumento dell'1,4% rispetto allo stesso mese del 2010. Il bilancio dei primi due mesi dell'anno in corso è appena positivo con un più 0,1%. In questo contesto, le notizie per l'automobile italiana sono pessime e confermano la persistente caduta dei marchi del Lingotto (unica eccezzione l'Alfa Romeo, grazie al nuovo modello, la Giulietta): il crollo delle vendite è del 16,7%. Di conseguenza la Fiat «pesa» in Europa per il 7,6% contro il 9,2% del febbraio 2010, 1,6 punti in meno.
La colpa non è del destino cinico e baro. La ragione della debacle della multinazionale già torinese sta nel fatto che Marchionne non ha investito in nuovi modelli, come dimostra l'andamento discreto e in controtendenza dell'Alfa. Dire, come sostiene la Fiat, che i cattivi risultati dipendono dalla fine degli incentivi in diversi paesi europei è un tentativo di parlar d'altro: gli incentivi sono finiti per tutti i produttori. E' vero, controbattono da Torino, ma la Fiat aveva i suoi punti di forza nelle basse cilindrate a contenuti consumi energetici e dunque ne ha risentito di più, di conseguenza oggi fatica a tenere il passo di una concorrenza in ripresa. Ma è Marchionne e non altri il responsabile del piano industriale Fiat, è lui che ha rinviato i nuovi modelli, ed è lui ad aver deciso di puntare solo o soprattutto sulle piccole cilindrate, anche per raccogliere i frutti migliori degli aiuti pubblici al mercato in crisi. Opposta è stata la scelta dei concorrenti di Marchionne che hanno deciso di investire nella crisi sui nuovi modelli per trovarsi in poll position alla ripresa. Chi è causa del suo mal...
Evidentemente l'amministratore delegato del Lingotto è stato troppo impegnato nei mesi scorsi a tentare di «riformare» il sistema delle relazioni sindacali nel nostro paese, fino a promettere: «cambierò l'Italia». Ma sono proprio i dati delle vendite a fare definitivamente pulizia della cattiva fede di Marchionne: il costo del lavoro, il presunto assenteismo, il dirittito a scioperare e ad ammalarsi come quello ad eleggersi liberante i rappresentanti sindacali, niente hanno a che fare con i problemi della Fiat. I referendum imposti con la complicità della politica, del governo, di Cisl e Uil servivano a riportare tutto il potere nelle mani dell'azienda, riducendo i lavoratori a schiavi e i diritti a variabili dipendenti dal profitto d'impresa. Ridurre al silenzio lavoratori e sindacati non complici rende tutto più facile per i padroni. Tutto diventa possibile, anche chiudere fabbriche e trasferire il lavoro dove salari e orari sono decisi solo dall'impresa. O anche l'Italia diventerà conveniente come la Serbia, o il Messico, o la Polonia, oppure la partita è finita.
Ieri, mentre in borsa il titolo Fiat andava decisamente meglio delle automobili Fiat, il Lingotto annunciava nuovi tagli della produzione che si tradurranno in ulteriori aumenti della cassa integrazione. A Mirafiori come a Melfi, mentre a Pomigliano il lavoro da cui dovrà uscire la «Panda schiavi in mano» è tornato solo per capi e capetti che dovranno disegnare la nuova organizzazione del lavoro. E a Termini Imerese, dopo l'ennesima protesta in cui gli operai hanno bloccato il porto e l'autostrada, persino Cisl e Uil cominciano a storcere il naso rispetto alle promesse di reindustrializzazione del sito quando, tra 10 mesi, la Fiat avrà preso il largo. 
Loris campetti
da http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20110317/pagina/08/pezzo/299375/

venerdì 18 marzo 2011

Parliamo di nucleare?



La mitologia del nucleare e lo sfruttamento capitalista
Di Nicola Melloni, Londra, da "Liberazione"

I tragici fatti del Giappone cui abbiamo assistito in questi giorni hanno avuto una forte eco anche
in Italia. Non erano passate che poche ore dal terremoto che già l’establishment nuclearista era sul piede di guerra. I suoi esponenti più illustri, a partire dall’ineffabile Chicco Testa, si sono precipitati in tv, tentando di spiegare, senza paura del ridicolo, che la centrale di Fukushima era completamente sicura. Dopo questi primi folli interventi, immediatamente smentiti dai fatti, si sono susseguiti commenti di esperti, opinionisti e politici che invitavano alla calma e alla ragionevolezza rilanciando una serie impressionante di luoghi comuni che hanno l’unico obiettivo di nascondere la vera natura del problema legato al nucleare.

Il mantra più ricorrente di questi giorni è che non si può agire in base all’emotività e che bisogna
mantenere la razionalità anche davanti alle più grandi tragedie – cioè che l’apocalisse giapponese
non deve cambiare le nostre opinioni sul nucleare. Ma si tratta di una mistificazione: sostenere,
come si è fatto fino a Giovedì, il sì al nucleare contando su 25 anni senza incidenti non vuol
dire essere razionali, ma semplicemente cercar di far dimenticare i rischi che l’energia nucleare
comporta. Si tratta di due emozioni diverse – l’apatia contro lo sgomento – ma nessuna delle due può essere considerata più ragionevole dell’altra. Non solo: in realtà l’incidente di Fukushima, nella sua drammaticità, ci fornisce nuove informazioni, bene preziosissimo se si vuole che l’elettorato scelga “usando la testa” e non “la pancia”. E cosa ci dicono gli eventi di questi giorni? Che il pericolo di incidente esiste sempre, al contrario da quanto propagandato dal partito pronucleare tramite anche delle pubblicità fuorvianti.

Il secondo tema su cui gli amici del nucleare insistono è che l’Italia non è il Giappone e quindi non
corriamo rischi di sorta. Ma chi lo dice? Anche i Giapponesi, ben abituati ai terremoti, erano sicuri, fino a giovedì scorso che un evento così cataclismatico fosse impossibile. Ma l’unica cosa veramente impossibile è prevedere la natura. Vogliamo rischiare giocando sulle probabilità, come fossimo al casinò? Questo sì pare davvero insensato. Ed allora ci dicono che i rischi sono comunque minimi e che il nucleare è più sicuro delle altre fonti energetiche, anzi per Panebianco, sul Corriere della Sera, è la modernità stessa a portare sicurezza. Ma sicurezza per chi? Le scorie continuano ad essere radioattive per secoli, a volte per millenni, e quindi in effetti stiamo ponendo le basi per la riduzione della sicurezza del mondo non solo nel presente ma anche nel futuro – una maniera bizzarra di sfruttare i benefici della modernità.

I rischi, dunque, ci sono ma questo non ferma i nostri convinti nuclearisti. Le centrali nucleari,
dicono, esistono in vicinanza dei nostri confini (in Francia, Svizzera, Slovenia) e dunque, in caso di incidenti in quei paesi, saremmo a rischio anche noi. Tanto vale, allora, costruire le centrali anche al di quà dei nostri confini, il rischio rimarrebbe immutato ma almeno potremmo godere dei benefici della produzione di energia atomica. Un argomento inquietante soprattutto quando sostenuto da chi pretende di essere razionale e riflessivo: se gli altri sbagliano, dovremmo farlo anche noi giusto per unirci al gregge? Senza neanche tenere in conto il dato oggettivo che smentisce la base, irrazionale, di tale ragionamento: il rischio per la popolazione dipende dalla prossimità all’incidente, come dimostra il fatto che a Fukushima è stata evacuata un area del raggio di 30 km dall’esplosione, non di 100 o 200 km (la distanza che ci separa dalle centrali d’oltralpe).

Ma il vero cuore del problema è un altro, il fabbisogno energetico. Si dice che siamo dipendenti
dagli sceicchi e da Putin per l’approvvigionamento di petrolio e che il ricorso al nucleare ci darebbe indipendenza energetica; ma anche in questo caso si tratta di mistificazione. L’Italia non produce uranio o plutonio e quindi sempre dall’estero sarebbe dipendente! Inoltre il petrolio continuerebbe a rimanere fondamentale nella nostra vita quotidiana, come dimostra il caso fracese dove il consumo di petrolio procapite è superiore al nostro. Si dice anche che il nucleare costa meno, ma non è vero neppure questo, anzi secondo le ultime stime il nucleare è l’energia più cara. Certo, esiste una questione energetica, questo non possiamo nascondercelo. Ma proprio l’incidente di Fukushima potrebbe essere un’ottima occasione per ripensare in toto non solo la nostra politica energetica ma il nostro intero modello di sviluppo. Il nucleare in ogni caso non è una soluzione di lungo periodo, si tratta di una energia non rinnovabile, destinata a finire, nè più nè meno che il petrolio. E le rinnovabili, al momento, non garantiscono i livelli di consumo energetico che abbiamo avuto finora, soprattutto se estesi alle nuove economie del sud del mondo che avanzano impetuosamente. Il problema energetico è dunque il problema del capitalismo, un sistema economico basato sullo sfruttamento. Sfruttamento del lavoro, come già insegnava Marx, e sfruttamento delle risorse produttive, con la differenza fondamentale che non tutte queste risorse sono infinite, anzi. Rivedere i consumi, e quindi il processo fondamentale di accumulazione capitalista, lo scambio, non vuol dire affidarsi ad una retorica pauperista, di certo i comunisti sono sempre stati dalla parte del progresso e per migliorare le condizioni di vita degli sfruttati. Significa però, già a partire dal brevissimo periodo, rivedere le nostre priorità, ridurre gli sprechi energetici, ridiscutere il sistema dei trasporti, abbandonando le quattro ruote e rilanciando i trasporti pubblici, dimenticare la logica degli status symbol derivanti dal consumismo dilagante. Rendersi conto che modernità non vuol dire comodità ma responsabilità. Si tratta essenzialmente di pianificare il nostro sviluppo in base non solo alle
esigenze di profitto ma di sostenibilità. Non è certo con il palliativo nucleare che si risolveranno
problemi che sono, invece, di natura sistemica.
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C'è un'italiana all'estero, Serena Bertozzi, di 21 anni , a 250 chilometri da Fukushima. Puoi leggere la sua testimonianza cliccando QUI .

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Brevi appunti sul nucleare in Spagna
Di Monica Bedana, Salamanca


In Spagna ci sono sei centrali nucleari attive, che contribuiscono in un 20% a soddisfare il fabbisogno nazionale di elettricità. Sono centrali sorte principalmente negli anni ottanta; la più vecchia ha 41 anni ed è situata a circa 250 chilometri da dove io vivo, in provincia di Burgos, più a nord di Salamanca. La vita utile stabilita per le centrali spagnole è di 40 anni; nel caso della centrale di Burgos il Governo di Zapatero ha concesso una proroga per il suo sfruttamento fino al 2013, giacché il Consiglio di Sicurezza Nucleare (CSN) ha considerato che la centrale continua a possedere tutti i requisiti di sicurezza che esige la normativa internazionale. La protesta degli ecologisti e degli anti-nucleari si è fatta sentire subito e si è ravvivata in questi giorni, perché pareva possibile un’ulteriore proroga fino al 2019, questo almeno fino al giorno del terremoto in Giappone. Ora per Zapatero anche la posizione sull’energia nucleare è una questione delicata in vista delle prossime elezioni e della caduta a picco, nei sondaggi, della popolarità del Governo e del suo Presidente in questi due anni di profonda crisi economica.

Il ministro dell’ambiente, Rosa Aguilar ha dichiarato che prima di affrontare un dibattito sulla convenienza o meno dello smantellamento delle centrali nucleari è necessario attendere le conclusioni del Consiglio di Sicurezza Nucleare, che sta sviluppando un piano per rafforzarne la sicurezza. Uno dei maggiori sindacati spagnoli, “Comisiones Obreras” (CCOO), ha denunciato da tempo che il CSN realizza un controllo insufficiente della sicurezza negli impianti nucleari spagnoli, dovuto ai tagli attuati sui fondi concessi a questo ente negli ultimi due anni.
Anche il partito dell’opposizione è a favore dell’aumento della sicurezza nelle centrali, condizione indispensabile per mantenerle in funzione. Infine, secondo la Confindustria spagnola (CEOE) un abbandono del nucleare in questo momento di grande incertezza internazionale per ciò che concerne l’approvvigionamento di energia dall’estero (la rivolta in Libia ha provocato che il Governo emanasse un decreto lo scorso 7 marzo che ha abbassato il limite di velocità in autostrade ed autovie da 120 a 110 km/h) provocherebbe un aumento insostenibile del costo dell’elettricità , un “tsunami nelle imprese ed un ulteriore aumento della disoccupazione”. La posizione di Confindustria in fatto di energia è favorevole ad un mix di energie rinnovabili, la cui produzione integri la sostenibilità per l’ambiente, la garanzia dell’erogazione e la sostenibilità economica. Detto cosí, verrebbe da crederci...in realtà temo che come negli anni ottanta la popolazione delle zone che ospitano le centrali si rassegnò al nucleare in buona parte per fronteggiare la tremenda disoccupazione di quegli anni, di nuovo sarà lo spettro della possibile perdita di altri posti di lavoro a spazzare via i dubbi sulla sicurezza e la sostenibilità.
E mentre questa settimana il Governo ha incrementato fino a 1200 milioni di euro la responsabilità dei gestori di centrali nucleari in caso di incidente, “Izquierda Unida”, l’unico vero partito di sinistra rimane la sola voce nel deserto a chiedere, ad aver chiesto da sempre, un calendario per lo smantellamento definitivo del nucleare in Spagna.

Il cittadino spagnolo da qualche giorno può trovare sul sito del Governo le “FAQ” del nucleare, in cui viene spiegato ai cittadini che le centrali spagnole non corrono -in teoria- rischio di tsunami in quanto sono situate tutte (eccetto una, sulla costa del Mediterraneo ma elevata rispetto al livello del mare) all’interno del Paese, che non è zona di forte attività sismica. Si spiega anche che in caso di allarme nucleare sono previsti Piani di Emergenza pubblicati nel “B.O.E.”, la Gazzetta Ufficiale dello Stato, quindi a disposizione di chi li voglia consultare. Dalle “FAQ” apprendiamo anche che il Ministero della Sanità ed il CSN hanno elaborato un protocollo per tenere sotto osservazione le persone che stanno rientrando dal Giappone; si spiegano le diverse forma a cui ci si espone alle radiazioni ed i livelli in cui possono essere mortali. Apprendo perfino che la Spagna ha una scorta di oltre 850.000 tavolette di ioduro di potassio, che frena l’assorbimento dello iodio radiottivo che potrebbe emanarsi da un incidente nucleare e che buona parte di queste tavolette sono custodite nei pressi delle centrali.
Nel frattempo è scattato il piano del Governo per rimpatriare gli spagnoli che vogliono lasciare il Giappone. Non ho trovato nessuna indicazione simile alle “FAQ” spagnole sul sito del Governo italiano.

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Ci è piaciuto questo video di Beppe Grillo sul nucleare in Italia.
Carla Gagliardini da Londra ci ha segnalato questa lettera di Adriano Celentano al "Corriere" sul pericolo nucleare e le sue conseguenze. E sempre Carla, ha scritto questa lettera per un'amica giapponese e per tutta la popolazionedi quel paese.
Ciao Norie,

chissa' dove sei, chissa' se appartieni al numero delle vittime dello tsunami che si e' abbattuto sulle coste del tuo paese o se sei al salvo con la tua famiglia da qualche parte, magari cercando di capire cosa fare per scampare al possibile disastro nucleare che non si esclude affatto.

Ho provato a mandarti delle e-mails per sapere ma ancora non mi hai risposto. Questo silenzio mi preoccupa ma capisco che nella concitazione magari avrai delle altre priorita' che non quella di scrivere a un'allegra compagna di corso conosciuta in Inghilterra.

Il mio pensiero va a tuo figlio, cosi' educato, cosi' a modo. A quella giovane vita che non avrebbe dovuto conoscere la tensione e le paure che i mostri creati dagli uomini sviluppano e alimentano. Se lo tsunami non lo puoi fermare quelle maledette centrali, invece, si potevano non costruire.

Mi sono sempre domandata come mai il tuo paese investisse sulle centrali nucleari sapendo di farlo su un terreno altamente sismico. Certo ho le mie risposte e tanta rabbia in corpo. Ma oggi questi vengono in secondo piano perche' ora e' piu' forte il dolore difronte a un popolo traumatizzato. Oggi le lacrime scendono non sapendo dove sei, se sei viva, se la tua famiglia e' viva.

Non riesco a togliermi dalla mente il tuo sorriso e quella allegria che ha certamento dato sollievo ai grigiori delle giornate inglesi. La tua partenza, il tuo ritorno in Giappone con tuo marito e tuo figlio dopo cinque anni in Inghilterra, a me davano tristezza perche' tu non eri felice di quella scelta imposta da una compagnia che decide dove vivrai e per quanto, e perche' io perdevo una persona con la quale ragionare.

Mi trasmette terrore l'idea che quei reattori 3 e 4 possano saltare in aria, mi distrugge emotivamente dover affrontare le conseguenze di quello che sarebbe. Ci si sente cosi' impotenti verso la natura ma ci si sente totalmente schifati quando i "nostri politici" a fronte di un tale pericolo e disastro si ostinano a fare il loro percorso fregandosene delle conseguenze sulla popolazione che loro stessi sono chiamati a rappresentera e tutelare. Come e' avvenuto in Giappone e come qui, a casa nostra, vorrebbe che avvenisse l'attuale governo, che infischiandosene degli allarmi lanciati sulle conseguenze che avrebbe un esplosione nucleare ha sfoggiato il consueto cattivo gusto e l'arroganza alla quale, tuttavia, mi sforzo di non abituarmi.

Spero avremo occasione di parlare di queste cose e cosi' immaginero' che sorriderai come facevi quando ti raccontavo le mie idee politiche, la mia passione per le rivoluzioni popolari, il mio grande desiderio che fossero davvero le masse un giorno a governarsi e a decidere cosa fare, cosa volere per se stesse.

Il tuo sorriso mi e' rimasto stampato nel cuore e ora provo un dolore profondo.

Buona fortuna Norie, a te e alla tua famiglia e, se puoi, dimmi che state tutti bene.
Besos
Carla

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Il rovello dello scienziato
Di Francesca Congiu, Leeds

Di fronte a quello che Veronesi non definisce un "dietrofront", nel suo articolo odierno per Repubblica (leggi la lettera QUI), ma solo “l’esito di una riflessione”, chiamandosi fuori dalla polemica con esili puntigli linguistici, non possiamo non sottolineare l’irresponsabilità di chi, fino a ieri strenuo difensore del ricorso al nucleare, oggi ci informa così candidamente dei suoi dubbi. Cosa ha fatto in questo periodo il Professor Veronesi? Si è chiuso in un bunker e ha ignorato il dibattito in corso in Italia? Il suo nuovo trend ha infatti la lacca di un lusso che non possiamo permetterci. Sia perché dal suo scrupolo di coscienza dipende una linea politica che trae forza dalla sua autorità scientifica (ma, ribadiamolo, non sul nucleare) e fa discendere da questa stessa credibilità il consenso di tutto l’elettorato schierato ideologicamente con il centro-destra. Sia perché suona tremendamente cinico e insopportabile: dobbiamo forse attendere che si scateni un’apocalisse (errore umano, errore tecnico, qui la distinzione che fa Veronesi poco conta) perché il responsabile dell’agenzia per la sicurezza sul nucleare non incappi in un errore questa volta sì “umano”?

Nella sua lettera-articolo Veronesi inaugura la nuova linea della sua battaglia per il nucleare, come un “pensare più a fondo”, perché questo è il compito dello scienziato quale lui è, come si picca di ricordarci, senza ombra di dubbio. Forse, credo, farebbe meglio a ricordarlo a se stesso: invece che metterci al corrente del suo pendolarismo scientifico (pro, contro, ancora non so), dei suoi tardivi rovelli amletici, dei suoi esami di coscienza post eventum, rispolveri l’abbecedario del metodo scientifico il cui primo tassello è quella “raccolta delle informazioni” che, nel nostro caso, sono le voci del dibattito in corso da mesi in Italia, voci che devono essere tutte, obiettivamente e non pregiudizialmente, censite.

Il problema del nucleare, come le battaglie per i diritti civili, non dovrebbe essere ostaggio di ideologie di sorta, ma raccogliere obiezioni o consensi trasversalmente all’interno dello spettro politico nazionale. Agli “scienziati” in odore di mea culpa mi sento di dire che spesso la storia ci ha insegnato che la scienza usata come totem manifesta la stessa ottusità di un’ortodossia religiosa. I dati sull’ insufficienza delle fonti rinnovabili di energia come alternativa al nucleare,
spesso offerti come “incontrovertibili”, rivelano lo scarso coraggio della politica nell’affrontare decisioni scabrose e inattuali, nel rompere con il giogo di interessi economici consolidati, nel programmare seriamente in funzione dello sviluppo responsabile e della sostenibilità.

La posizione di Veronesi somiglia pericolosamente a quella dei consiglieri fraudolenti, categoria che, a guardare con attenzione la cosmologia dantesca, non si riscatta facilmente: il rischio della malafede in questo caso si profila non solo contro “chi non si fida” (che di fronte a ciò che sta accadendo continuerà a sorvegliare su facili entusiasmi nucleari), ma anche contro “chi si fida”. Per chi ragiona laicamente e si affida alle leggi e alla democrazia, la condanna ultraterrena
dantesca si traduce nella destituzione di responsabilità, nella critica all’autorità quando questa si dimostra incapace di gestire la cosa pubblica. E ancora, nella possibilità di esprimere la propria voce (forte, libera e responsabile) a difesa del futuro della nazione e contro coloro che, usando irresponsabilmente le etichette della scienza rischiano, questa volta senza aggiustamenti allegorici, la marca che definisce i fraudolenti danteschi: quella, fra gli altri, di traditori della patria.

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giovedì 17 marzo 2011

Italia sempre più ingiusta / I maiali nel porcile

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/italia-sempre-piu-ingiusta%3Cbr-%3E/2146892

di Emiliano Fittipaldi
La forbice tra ricchi e poveri aumenta. I super manager guadagnano cifre assurde e l'1 per cento della popolazione ha il 13 per cento della ricchezza. Mentre sparisce la classe media. Rapporto dal Paese delle nuove disuguglianze)

La Ferrari FF è stata presentata alla stampa qualche giorno fa. Costa 250 mila euro, quanto un appartamento, ed è la prima supercar di Maranello pensata per le famiglie: nel bolide ci sono quattro posti confortevoli e un bagagliaio enorme. Luca Cordero di Montezemolo ha detto che entro il 2011 si ipotizzava di venderne 800. Ce la faranno con la crisi? "Sono state vendute tutte a gennaio, prima ancora che la macchina finisse sotto i flash dei fotografi al salone di Ginevra".

Sul mercato italiano la Ferrari è una delle pochissime case che nel 2010 ha piazzato più macchine rispetto all'anno precedente. Insieme alla Dacia, la casa low-cost sottomarca della Renault che vende modelli base a 7.500 euro. Negli ultimi due anni le loro auto sono andate a ruba: più 150 per cento, da quando è iniziata la recessione. Le macchine che non si vendono più sono invece quelle "medie", come la Fiat Bravo, quelle dei cosiddetti segmenti C e D. Secondo i dati dell'Anfia, l'associazione dei costruttori di automobili, il mercato si è polarizzato. Così chi nel 2001 aveva una berlinetta e ha fatto i soldi è passato a un fuoristrada o a un Suv, chi si è impoverito ha fatto un salto (all'indietro) di status e scorrazza con un'utilitaria.

Il ceto medio, prendendo come metafora il parco macchine del Paese, negli ultimi dieci anni si è assottigliato. Ma anche allo stadio le classi sociali sembrano solo due: i poveri affollano le curve, i ricchi e i potenti siedono in tribuna vip. Da Verona a Napoli i distinti, nell'immaginario collettivo rifugio domenicale di colletti bianchi e famiglie di operai, sono quasi semideserti. Il presidente della Triestina, ora in serie B, vista la penuria di spettatori sulle gradinate centrali del "Nereo Rocco" ha deciso addirittura di sostituirli con le sagome di tifosi dipinti. I piccolo borghesi in carne e ossa che le abitavano si sono sparpagliati tra i settori popolari e le poltroncine riservate, ma la massa - come ha commentato sulla "Stampa" Massimo Gramellini - è finita davanti alla comoda, ed economica, tv. 

CHI SALE E CHI SCENDE
Che cosa sta succedendo in Italia? "La crisi economica sta aggravando uno schiacciamento delle classi medie, quelle composte soprattutto da impiegati, artigiani, piccoli commercianti e tute blu. A vantaggio della base e del vertice della piramide sociale", ragiona Giacomo Vaciago, economista e professore all'Università Cattolica di Milano, "negli ultimi anni in molti hanno perso posizioni, ma molti altri ne hanno guadagnate". In sintesi: ricchi sempre più ricchi, poveri (o impoveriti) sempre più poveri. Un fenomeno che gli studiosi più attenti avevano già individuato all'inizio degli anni Duemila, certificato poi dall'Ocse in uno studio di due anni fa, che puntava il dito sugli effetti devastanti della crisi economica dei primi anni Novanta. Il gap, scrivevano gli esperti, "è stato colmato attraverso l'aumento delle tasse sulle famiglie e il boom della spesa per prestazioni sociali", in primis scuola e sanità.

Ora la nuova stagnazione rischia di far precipitare la situazione: l'Italia della crescita zero e dei governi Berlusconi non si comporta come una livella, ma mostra i difetti di una modernizzazione zoppa che può farci avvitare in una dinamica tipica da Terzo mondo, dove la distanza tra chi ha di più e chi ha di meno diventa siderale. Dei trenta Paesi che aderiscono all'Ocse l'Italia è gia oggi il sesto nella classifica dei più diseguali dell'Occidente, e le ultime elaborazioni del Conference Board del Canada ci mettono addirittura (vedi il grafico qui sotto) alla pari degli Stati Uniti. Anche i consumi si sono radicalizzati, e le tabelle dell'Istat insieme a qualche giorno passato a fare shopping tra Roma, Napoli e Torino aiutano a fotografare la situazione. L'istituto di statistica segnala che nel 2010 gli italiani hanno speso sempre meno per mangiare. Ma se supermarket e salumieri di quartiere fanno fatica, gli hard-discount sono affollatissimi. Ci va chi deve fare attenzione a chiudere in pari il budget mensile, e i registratori di cassa (soprattutto il sabato e la domenica) sono in piena attività. Ma c'è sempre la fila anche davanti ai delicatessen più esclusivi che propongono un chilo di pane a cinque euro nelle strade più chic. Qui va a far la spesa quel 10 per cento degli italiani che possiede quasi la metà della ricchezza totale della nazi

Video / no al nucleare in Italia

No al Nucleare in Italia / Crozza

sabato 12 marzo 2011

Pensieri sulla nostra Costituzione


Il testo completo della Costituzione italiana lo trovi cliccando QUI .
In questo post, scorrendo verso il basso, troverai i dodici principi fondamentali e tutti gli altri articoli citati dalle persone che hanno voluto esprimere un pensiero sulla nostra Costituzione.
Se vuoi aggiungere il tuo pensiero, scrivici a:
resistenza-internazionale(chiocciola)googlegroups(punto)com

Art. 1

L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.



Francesco, Losanna



La Costituzione si apre su democrazia e lavoro. Lascio ad altri, non per disinteresse ma per non dire sciocchezze, il tema del lavoro. Sulla democrazia, l'articolo 1 ha la concisione e l'esattezza dei classici del costituzionalismo moderno. L'Italia è democratica, perché la sovranità appartiene al popolo. Ma questa sovranità non si riduce alla sola dominazione della maggioranza, né tantomeno alla dominazione del' "unto" dalla maggioranza elettorale (figura peraltro sconosciuta al nostro sistema costituzionale, parlamentare). No: la democrazia – maggioritaria – si esercita "nelle forme e nei limiti della Costituzione". E dunque, per prima cosa, nel rispetto dei diritti fondamentali e della separazione dei poteri. Qui l'eco è forte del'art. 16 della Dichiarazione del 1789, altro classico indiscusso: "Toute société dans laquelle la garantie des droits n'est pas assurée ni la séparation des pouvoirs déterminée, n'a point de Constitution". La sovranità si esercita, anche ed in particolare, nel rispetto dello Stato di diritto. Il popolo sovrano si esprime per leggi approvate dal Parlamento, ed i giudici sono "soggetti soltanto alla legge" (art. 101), non agli umori dell'opinione pubblica. Così come, in nome dello stesso principio, il legislatore è soggetto al sindacato di costituzionalità (art. 134). Persino il potere costituente trova il limite dell'art. 139. Di una brevità tacitiana, l'articolo 1 riassume insomma l'essenza del costituzionalismo ed il rifiuto secco di ogni deriva populista ed autoritaria. Un articolo da mandare a memoria…




Art. 2

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Simone , Parigi


Di grande attualità questo articolo. Il decentramento é alla base di una democrazia solida, fondata sulla partecipazione e il rispetto di valori importanti, come la solidarietà, il vivere in collettività, ma anche il lavoro e la cultura (soprattutto per un Paese come l’Italia dove il locale ha un’importanza tutta particolare). Nuove e importantissime “missioni” sono oramai affidate all’azione dei comuni e degli enti locali che si trovano a doverli affrontare sempre più soli: immigrazione, povertà, disoccupazione, istruzione. Ma anche « il più ampio » decentramento serve a poco se lo stato non mette a disposizione le risorse necessarie. Il governo della destra ha condotto fino ad oggi una politica cieca e devastatrice, che ha tagliato fondi ai comuni (tagli per 1,8 miliardi di euro ai trasferimenti statali 2011 per province,300 milioni, e comuni con più di 5.000 abitanti, 1.500 milioni. Un taglio pari all'11,7%. E questo è solo un assaggio: nel 2012 i tagli erariali saranno ancora più tremendi e alle Province italiane sarà tolto ancora 1,5 miliardi di euro). Le conseguenze di queste politiche si faranno sentire, violentemente sui servizi e questo avrà un impatto enorme sulla società. La privatizzazione dei servizi non sembra tanto lontana. Ma le conseguenze già le consociamo (modello anglosassone esportato un po’ ovunque nel mondo…)…A questa belle manovrine si aggiunge la fantomatica legge per un federalismo fiscale “all’italiana” che sembra aggiungere altri problemi invece di risolverli…


Art. 3

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Lorenzo, 10 anni, Venezia:
L'articolo della Costituzione che mi ha colpito di più è stato l'art.3, dove si dice che tutti siamo uguali davanti alla legge, perchè io lo so già che siamo tutti uguali, anche se abbiamo nazionalità diverse e colori della pelle diversa, ma non pensavo che anche la legge lo sapesse. Adesso sono sicuro che anche se il mio amico Monan (Bangladesh) quando sarà grande sbaglierà, verrà giudicato come se fossi io!

Jacopo, Roma:
Analizzando entrambi i corpi dell’articolo, per quanto riguarda la prima parte mi pare che in Italia, ultimamente, siamo messi proprio maluccio, soprattutto perché l’articolo cita “condizioni personali e sociali”, ma il testo andrebbe aggiornato specificando il termine “economiche”. Se addirittura un capo di governo si può permettere di remunerare profumatamente prostitute, spesso minorenni, per i suoi “giochi porchici” viene violata palesemente (anche se a titolo “personale” ma, pur sempre tra una delle più alte cariche dello Stato stesso) moralmente la loro dignità sociale (ammesso che il premier stesso ritenga di averne, tra l’altro, una propria). E, davanti alla legge, sarà ancora più evidente, proprio per la loro diversa condizione personale e sociale, la loro disparità).

Ma se veramente vogliamo metterci a cavillare ci accorgiamo che l’intera maggioranza, negli ultimi anni, spesso ha violato la Costituzione nella stragrande maggioranza dei suoi articoli.

Il problema dell’articolo 3, però, volendo fare un discorso più ampio, è che le istituzioni della Repubblica non sono, ormai da troppo tempo, in grado di garantire la parità sociale e morale dei cittadini e degli stranieri che oramai fanno parte della nostra società e della nostra economia a tutti gli effetti.

Più che riformare le leggi e gli articoli costituzionali, come la maggioranza di Governo vorrebbe da tempo fare (purtroppo per proprio tornaconto più che per interesse sociale), sarebbe più opportuno riformare le istituzioni preposte a garantire il rispetto di quanto stabilito dalla Costituzione stessa, scritta più di mezzo secolo fa ma quanto mai attuale.

Katy, francese in Italia, Aosta:
Vista da una francese che 40 anni fa ha scelto di vivere in Italia e ancora non ha cambiato idea, l'Italia è una fanciulla che la sua giovane età rende talvolta un po' confusa e spesso anche assai confusionaria. Ha però dalla sua una sana e robusta Costituzione che basterebbe applicare per farne un paese moderno, credibile e affidabile.
Sporcaccioni, giù le mani dalla Costituzione !!!

Art. 4

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Art. 5

La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.



Art. 6

La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.

Art.7

Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.

I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.[1]

Art. 8

Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.

Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano.

I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. [2]

Art. 9

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.


Francesca, Londra:
Una piccola grande vittoria a favore del patrimonio storico italiano e del suo paesaggio passa attraverso la Sardegna e conferma la validità del dettato costituzionale come espresso nel secondo comma dell’ articolo 9 della nostra Carta Fondamentale. Qualche settimana fa il Consiglio di Stato ha infatti emesso una sentenza che dovrebbe chiudere una delle vicende più tormentate nella storia recente della tutela dei beni paesaggistici in Italia. Le “mani sulla città” e, in questo caso, sulla necropoli punica del colle di Tuvixeddu a Cagliari (con migliaia di sepolture di epoca cartaginese scavate dal VI secolo a.C.) erano quelle del Comune e dell’impresa di Costruzione (Coimpresa), che avrebbero occupato 50 ettari di terreno con 260 mila metri cubi di edifici di lusso. La sentenza del Consiglio di Stato ha accolto il ricorso della Regione Sardegna e di Italia Nostra, ha confermato i vincoli che l'allora governatore Renato Soru impose su quell’area e ha bocciato una precedente decisione del Tar che aveva dato il via libera ai lavori. In che modo tale sentenza tiene a mente e applica il principio espresso dall’articolo 9 della Costituzione?

Secondo i giudici del Consiglio di Stato, non solo vanno sottoposti a tutela i beni archeologici, ma anche il contesto paesaggistico in cui questi sono inseriti: "Cura dell'interesse pubblico paesaggistico", si legge nella sentenza, "concerne la forma circostante, non le strette cose infisse o rinvenibili nel terreno con futuri scavi". Inoltre, altro punto di interesse, sostenere che il paesaggio è già gravemente manipolato, non è una buona ragione per danneggiarlo ulteriormente. Questo argomento, spesso sostenuto, come nel caso specifico, da chi propone di costruire in zone di pregio, ma occupate da altri edifici o da stabilimenti industriali, è stato fortemente contraddetto dai giudici, per i quali se un paesaggio ha perso la propria integrità ciò rappresenta un motivo in più per attivare forme maggiormente rigorose di tutela, non ulteriori spoliazioni.

Il caso di Tuvixeddu riporta al centro del dibattito le modalità con cui la promozione e con essa la tutela dei beni culturali devono essere espletate: se infatti si è passati col tempo da una concezione puramente statico-conservativa della tutela dei beni a una concezione dinamica, orientata al loro pubblico godimento (in quanto strumenti di crescita della società), i termini di tale promozione e tutela non consentono un intervento pubblico come “di parte” o “politico” (espressione solo della maggioranza), bensì come “imparziale” o “neutro”. Tanto meno tale promozione sarà tesa a soddisfare interessi economici privatistici che subordinano la “primarietà del valore estetico-culturale” ad un vantaggio particolaristico (ivi compreso quello economico), non ispirato al pluralismo culturale e quindi non indirizzato alla collettività (come sottolineava già una sentenza della Corte Costituzionale nel 1986).

L’annoso paradosso su cui si è avvitata storicamente l’amministrazione dei beni storico-artistici in Italia, fra l’ibernazione del paesaggio (il mito dell’intangibilità o “linea archeologica”) e la sua continua violazione (il “culto del mattone”, figlio di una cultura arcaica dove quel che conta è la rendita fondiaria o l’investimento in un beni immobili), cela l’esistenza di una terza (e più saggia) via, ancora poco praticata. Salvatore Settis nel suo Paesaggio Costituzione Cemento (2010) non si oppone alla possibilità di una trasformazione del paesaggio, ma a patto che questa interpreti la logica che il paesaggio contiene, una logica che è portatrice di valori civili e precipuamente nazionali. Allo stesso modo in un suo famoso discorso al Senato della Repubblica (14 aprile 1964) lo scrittore Carlo Levi aveva fotografato la “distruzione attuale” del patrimonio come una “perversione” che nasce dalla presenza di «forze negatrici della storia […] negatrici in generale di un qualunque rapporto di libertà». Si tratta di un «mondo totalitario privo di autonomia e quindi, di possibilità di forma, con la presenza di gruppi di potere mossi soltanto dal puro interesse economico, espressioni puramente economiche, in senso mercantile, di una civiltà di cosificazione dell’uomo».

I problemi del patrimonio artistico, problemi, se vogliamo estetici, non hanno un carattere puramente tecnico, ma si legano veramente a tutta la struttura di un Paese. Ecco perché il nostro patrimonio guadagna un’un’evidenza centrale tra i principi fondamentali della Costituzione: i beni artistici «organicamente e contemporaneamente connaturati alla dimensione civile della nazione», non sono «un ornamento a cui molti, i più, potrebbero essere indifferenti, di fronte a problemi più urgenti e più personali». Al contrario essi sollecitano quel principio di esistenza che riguarda, per ciascuno, «la sua individuazione storica, cioè la sua possibilità di essere, e di essere per il futuro, come portatore e creatore di storia» (Levi, 1964).


Gaetano, Seoul:
Ogni volta che mi soffermo a leggere la Nostra Costituzione, il tempo sembra soffermarsi e le parole scorrono lente e colme di significato; un significato che oggi sembra essere stato accantonato .
La Costituzione della Repubblica Italiana e' per me il breviario del prete, l'orsacchiotto dei piccoli dal quale non si staccano mai: e' la mia compagna, e' la mia fonte di ispirazione.
Se dovessi scegliere il più bello degli articoli della Nostra Costituzione sarei in forte imbarazzo ma ne cito due pieni della consapevolezza della centralita' della persona e della coscienza che l'Italia rappresentava ieri e dovrebbe farlo oggi la locomotiva europea e del mediterraneo, l'articolo 9, qui sopra, e l'articolo 37, che dice: La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.
Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.


Art. 10

L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.

La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.

Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge.

Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici. [3]

Art. 11

L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Art. 12

La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.

Monica, Salamanca
Questo è l'articolo di cui quasi tutti oggi si chiedono se davvero ce ne fosse bisogno, se servisse un articolo della Costituzione per descrivere la bandiera italiana. Forse perché nessuno più ricorda, o le maestre a scuola non spiegano più quella leggenda che da bambina mi lasciava sgomenta; che il verde è quello dei nostri prati, il bianco rappresenta la neve delle nostre montagne ed il rosso il sangue dei nostri caduti.
O forse perché qualcuno ha davvero seguito il consiglio del ministro Tremonti e si è fatto un panino con la Divina Commedia, si è mangiato quei tre versetti del Purgatorio in cui anche a me piace pensare che Beatrice appaia a Dante abbigliata con la prima bandiera italiana.
E mi piace questo video dei fratelli Fiorello in omaggio al tricolore

Art. 21

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.

Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili.

In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni effetto.

La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.

Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.



Remy, Aosta:
60 anni fa, all'uscita da una doppia guerra (anche quella civile di liberazione) i padri costituenti già pensavano a creare qualcosa che LI controllasse e controllasse ogni governo futuro. Ora dobbiamo difendere questa saggezza da continui attacchi populisti e, qualcosa comincia a muoversi.

Genny, Dublino:
La possibilità di manifestare liberamente il proprio pensiero, diritto garantito in Italia dall’articolo 21 della Costituzione, è viziato in partenza dal conflitto di interessi mediatico imputabile al primo ministro Berlusconi.
Tale conflitto di interessi presenta due grandi anomalie.
La prima anomalia riguarda il duopolio televisivo. Un imprenditore privato, Berlusconi, è
proprietario di un numero di reti pari o superiore a quelle dell’ente pubblico oltre che di testate
giornalistiche e varie case editrici. Questa anomalia era già presente in Italia prima dell’ascesa di
Berlusconi a primo ministro.
La seconda anomalia si concretizza quando Berlusconi diventa capo del governo e controlla così la maggioranza dei mezzi di comunicazione in Italia.
In nessun paese democratico si può essere monopolisti televisivi e stare al vertice del sistema
politico. Un capo di governo che possiede la maggioranza dei mezzi di comunicazione impedisce
di fatto la possibilità oggettiva che tutte le diverse opinioni vengano veicolate dai mezzi di
comunicazione.
Oltre che ad essere viziato alla base, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero è
sempre più messo in discussione dalle numerosissime aggressioni verbali del governo a chi non ne condivide la linea politica e dai tentativi di intimidazione a forza di nuove proposte di legge al fine di imbavagliare le opinioni critiche nei confronti dell’operato di Parlamento e Governo.
Ricordo le recenti aggressioni verbali da parti di diversi esponenti del governo e della maggioranza alla manifestazione delle donne dello scorso 13 febbraio piuttosto che a quella degli studenti dello scorso autunno, il blocco delle intercettazioni, la legge bavaglio sui giornali, la recente proposta PDL di alternare settimanalmente i conduttori che di fatto permetterebbe al Governo di controllare il palinsesto televisivo pubblico.
Queste numerose aggressioni dimostrano quanto la libertà di manifestare liberamente il proprio
pensiero sia di fatto messa in discussione. Il governo dovrebbe essere il governo di tutti i cittadini, e non solo di una parte e come tale dovrebbe essere aperto a recepire e valutare le voci di tutti i cittadini indipendentemente dalla loro appartenenza politica.

Art. 29:
La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.

Monica, Salamanca:
Mi piacerebbe che nel ventunesimo secolo anche le coppie di fatto o quelle formate da persone dello stesso sesso vedessero finalmente riconosciuti i loro diritti come unità familiare. La loro eguaglianza morale e giuridica non è affatto diversa o minore, a mio avviso, da quella considerata valida nei matrimoni tradizionali.



Art. 36:

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.

Alessandro, Londra
In questa fase di riflusso e conflitto drammatico tra capitale e lavoro, appare quanto mai appropriato richiamare l'attenzione sul titolo III della Costituzione, che regola i Rapporti Economici della Repubblica.
L'articolo 36, secondo nel Titolo corrispondente, stabilisce innanzitutto che la retribuzione percepita da un lavoratore sia funzione della qualità e della quantità della prestazione. A parte l'ovvio criterio della proporzionalità tra "quantità" della prestazione e compenso, credo che la "qualità" della stessa non andrebbe solo misurata come difficoltà tecnica, competenza specifica o generazione di profitto, ma anche in termini di progresso e utilità sociale. Penso ad esempio alla scuola, alla ricerca universitaria, all'assistenza sociale, tutte professioni ad alto valore aggiunto e socialmente fondamentali, il cui mancato riconoscimento anche a livello retributivo finisce per agire da deterrente verso potenziali talenti che dovrebbero invece poter trovare uno sbocco proficuo in queste aree.

L'articolo evidenzia anche il significato sociale della retribuzione, che non rappresenta solo la contropartita di un servizio ma serve a garantire al lavoratore una vita libera e decorosa. Non vi e' vera libertà se il salario percepito non consente una vita dignitosa per il lavoratore e per la sua famiglia, se le esigenze base come il diritto a una casa o la possibilità di un'educazione scolastica per i figli sono negate per mancanza di risorse.

Infine, l'articolo tocca un punto che trovo centrale in questa fase storica: la non disponibilità di alcuni diritti. La legge stabilisce la durata massima della giornata lavorativa, ovvero la costituzione protegge il lavoratore dagli eccessi di sfruttamento tipici, ad esempio, della Rivoluzione Industriale, e ancora drammaticamente attuali in svariati contesti produttivi internazionali con i quali dovremmo "competere" direttamente secondo il pensiero liberista dominante. Ma il principio ha attualità anche in un contesto nazionale, se si pensa al lavoro nei campi del meridione gestiti dal "caporalato", o alla condizione di molti immigrati, o al diffusissimo lavoro nero che nega ogni diritto al lavoratore rendendo invisibile. Allo stesso modo, i diritti alle ferie e al riposo sono intangibili, e non possono essere resi oggetto di un contratto privato in quanto attengono alla sfera dei diritti inalienabili dell'uomo-lavoratore. Viene da dire che la Costituzione difende esplicitamente la causa per cui il gruppo autore di questo blog si era originariamente costituito (supporto alla FIOM nella vertenza con Fiat).




Art. 41.

L'iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza,
alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e
privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

Nicola, Londra:
Si tratta di uno degli articoli sotto attacco, il Governo Berlusconi lo vorrebbe cambiare perchè lega
con lacci e lacciuoli l’iniziativa d’impresa. Sarebbe uno dei migliori esempi di Costituzione Sovietica,
quindi in un vero stato liberale un tale articolo non ha da esistere. E’ vero invece il contrario: la
Costituzione nasce nel 1946, con alle spalle non solo la Resistenza e la Seconda Guerra Mondiale,
ma anche la crisi del 1929, quando un capitalismo senza freni portò alla catastrofe economica ed
indirettamente proprio alla reazione autoritaria in Europa. La Costituzione riconosce la centralità
dell’iniziativa economica privata, cioè del mercato. Ma parla anche dei limiti del mercato, che non
è sempre efficiente. Si tratta di un retaggio Marxista? E’ il frutto di quegli anni passati e dunque
inattuale? Andiamo per gradi:


• Trent’anni di deregulation e liberalizzazioni hanno portato alla crisi del 2007 e dunque in
realtà una mediazione pubblica all’egemonia del mercato è necessaria ora più che mai.
D’altronde è proprio Tremonti a scrivere libri e tenere conferenze sul pericolo dell’ideologia
mercatista e l’articolo 41 sembra proprio fatto per porre limiti a tale ideologia.

• Soprattutto non si tratta di un articolo di matrice Marxista, ma qualsiasi buon liberale lo
dovrebbe sottoscrivere. La teoria neo-classica riconosce l’esistenza di “negative externality”:
una transazione economica privata può avere l’effetto di arricchire i contraenti ma
impoverire il resto della società (“l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con
l’utilità sociale”). L’esempio più ovvio è l’inquinamento. La stessa teoria economica prevede
che lo Stato intervenga (“la legge determina i programmi”) per evitare tale esternalità. Il
dettato Costituzionale segue dunque un liberalismo di buon senso e non un comunismo da
battaglia.

• Infine è davvero sorprendente che mentre industria e finanza scoprono, in ritardo sulla
nostra preveggente Costituzione, CSR (Corporate Social Responsability) e SRI (Socially
Responsible Investment
), l’attuale maggioranza di governo voglia tornare indietro di 30 anni.
I mercati finanziari riconoscono le responsabilità sociali dell’impresa ed i fondi che investono
in compagnie etiche e responsabili sono in costante crescita. In Italia questo mercato è
naturalmente marginale e sottosviluppato, quindi andrebbe incentivato e non certo punito
da iniziative politiche strumentali.

In conclusione l’art.41 non ha l’intenzione di uccidere il mercato, ma di salvare il capitalismo da
sè stesso, una cosa che i liberali da strapazzo dovrebbero forse tenere in considerazione prima di
lanciarsi in crociate ideologiche.

Simone, Londra
Ho letto la Costituzione della Repubblica Italiana più volte nella mia vita, dai tempi del liceo ad oggi. Inizialmente l'articolo 41 mi è sfuggito nella sua essenza ed importanza, ma a forza di rileggere il testo della Carta, esso è uno di quelli cui posso dirmi più affezionato. A maggior ragione in questi ultimi due decenni, in cui la logica liberista del "gli affari prima di tutto" imperversa. Il lavoro, l'individuo e la collettività ormai sono disprezzati e calpestati da un modello economico che è basato sulla menzogna secondo cui la libertà dell'imprenditore di arricchirsi ad ogni costo è foriera di un arricchimento generalizzato per un presunto effetto a cascata. Un modello de-umanizzato, non più al servizio della collettività, ma che sfrutta l'essere umano come si sfrutterebbe una macchina; un modello in cui non si lavora più per vivere, ma si sopravvive per lavorare, per produrre una ricchezza di cui solo una minoranza disumana e spietata godrà.
Credo, quindi, che leggere e far leggere l'articolo 41 sia importante per mantenere vive le coscienze ancora attive e risvegliare quelle dormienti. Per dire loro che un altro mondo è possibile e dobbiamo lottare per conquistarlo.


Art. 42.

La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a
privati.

La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di
acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla
accessibile a tutti.

La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata
per motivi d'interesse generale.

La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti
dello Stato sulle eredità.

Nicola, Londra:
Anche in questo caso si tratta di un articolo che democratizza il mercato. La Costituzione
nuovamente riconosce il carattere “capitalista” dello Stato italiano, la proprietà infatti è pubblica
ma anche e soprattutto privata. Nuovamente però individua anche un limite alla proprietà privata, l’interesse generale. I fondamentalisti neo-liberali hanno a lungo insistito che l’inviolabilità dei diritti di proprietà è la conditio sine qua non per un adeguato ciclo di accumulazione capitalista: l’imprenditore che non è sicuro di poter godere dei frutti del proprio lavoro non avrà incentivi ad impegnarsi in attività di investimento. Il ragionamento non fa una piega, ma portato alle sue estreme conseguenze (la protezione del mercato viene prima delle esigenze della collettività) implica una dittatura del mercato su società e politica e rappresenta dunque un vulnus alla democrazia.
L’articolo 42 non mette in discussioni le basi del capitalismo, ma ne delimita i confini. Si tratta
della base politica dell’ embedded liberalism di Karl Polanyi, cioè il mercato esiste solo all’interno
della società e non al di sopra di essa. L’attività economica è parte della vita umana e ha su questa ricadute importanti, decisive; proprio per questo il cittadino-lavoratore, nei limiti garantiti dalla Costituzione e dalla legge, interviene per la regolamentazione di tale attività economica. In fondo l’idea è che il mercato, e dunque la proprietà privata in esso, non è un fenomeno trascendente ma un costrutto umano e come tale dagli uomini, democraticamente, può essere modificato.