La crisi greca diventa ingestibile, né può
servire la "ricetta Mirafiori" delle istituzioni internazionali.
L'uscita di scena di DSK cambia poco: è vero che l'ex direttore del Fmi ha
aperto sui controlli ai movimenti di capitale, ma le ricette macro non sono
cambiate
Il peggiorare della crisi greca sembra porre una
seria minaccia non solo per la penisola ellenica ma per l’Europa tutta. Sono
sempre più gli economisti e i commentatori che discutono apertamente la
possibilità che Atene ristrutturi il debito o addirittura abbandoni l’Unione
monetaria.La situazione economica greca sembra ormai deteriorata. Il piano di
rilancio varato lo scorso anno da Unione europea e Fmi non ha avuto gli effetti
sperati e i mercati richiedono un premium sempre più consistente per acquistare
titoli di stato, con interessi che sono ormai al 16%, il che rende ancora più
catastrofica la dinamica debito/Pil con un rapporto che sfiora il 160%. Non ci
sono dubbi che l’economia greca soffra di carenze strutturali che la crisi
finanziaria internazionale ha fatto emergere ma la linea adottata da Bruxelles
e Washington è stata completamente deficitaria, in linea con l’approccio che il
Fondo ha utilizzato per fronteggiare le innumerevoli crisi degli anni ‘90. Su molta
stampa cosiddetta progressista, soprattutto negli ultimi giorni, si è spiegato
che invece, sotto la presidenza appena terminata di Strauss Kahn, il Fondo
monetario abbia recepito gli errori del passato e il sistema di prestiti e
salvataggi sponsorizzati dall’Fmi sia drasticamente differente da quello del
passato. In particolare si sottolinea come il “socialista” Dominique Strauss
Kahn abbia puntato sul controllo ai movimenti di capitale per diminuire l’impatto
degli attacchi speculativi. Questo è sostanzialmente vero, anche se una
riflessione sull’archittetura finanziaria globale, incluso il ruolo della
liberalizzazione dei movimenti di capitali, si era già aperta una decina di
anni fa sotto la presidenza di Horst Kohler e anche economisti radicalmente neo-liberali
come Anne Kreuger avevano suggerito di rivedere alcuni dei paradigmi della
globalizzazione come era stata concepita negli anni ‘90.
Certo il tentativo di ridurre l’eccessiva
mobilità del capitale speculativo è un passo nella giusta direzione, ma il
problema nell’approccio di Fmi e Ue risiede nel tipo di politiche economiche
proposte per far uscire la Grecia dalla crisi che non è sostanzialmente
cambiato sotto la presidenza di Strauss Kahn. Politiche economiche restrittive,
tutt’altro che socialiste, l’opposto di quello che Usa e Regno Unito hanno
fatto nel 2007-2010 e che ripropongono il solito paradigma monetarista:
rimettere a posto i conti il prima possibile per rassicurare i mercati. E
dunque tagli consistenti alla spesa, licenzimenti di massa, riduzione dei
salari, sperando di convincere in tale maniera gli imprenditori privati a
investire di più, risollevando l’economia. Si tratta in realtà di semplice
wishful thinking, non esiste nessun collegamento diretto tra riduzione del
ruolo del settore pubblico e stimoli al settore privato, come dimostra la assai
incerta ripresa economica dell’economia inglese sotto il governo conservatore
del duo Cameron-Osborne.
La situazione all’intero dell'euro-zona è però
ancora più complessa a causa della struttura istituzionale europea. L’adesione
all’euro impedisce qualsiasi flessibilità nelle risposte da dare alla crisi. La
Grecia, ma anche il Portogallo, la Spagna e l’Italia soffrono di seri problemi
di competitività ed è intevenendo su questo problema che si può tentare di
rilanciare l’economia. Dal momento dell’entrata in vigore della moneta unica
sono state proprio le economie dei "PIGS" e dell’Italia a perdere
competitività, con un costo del lavoro unitario salito in media tra il 12 e il
22% nell’ultimo decennio, a fronte di una riduzione dello stesso in Germania.
Il problema è che in un sistema di cambi fissi,
come effettivamente è l’euro, queste economie non possono giocare la carta più
semplice, quella della svalutazione, mentre, ad esempio, la Gran Bretagna, che
ancora mantiene una sua valuta e una politica monetaria indipendente ha
lasciato che la sterlina si svalutasse di circa il 25% contro l’euro dall’inizio
della crisi, rilanciando in questa maniera la competitività dell’industria
inglese. Di conseguenza Grecia e Portogallo (e Spagna, in parte) sono
condannate a “rilanciare” le proprie economie mediante l’auto-induzione di
politiche recessive che, aumentando la disoccupazione, riducano il livello dei
salari, la soluzione classica del Gold Standard di due secoli orsono.
Quello che però Ue, Fmi (e governo tedesco) non
sembrano tenere in conto è che il XXI secolo non è il XIX e che in Grecia,
Portogallo e Spagna gli elettori godono ancora, per fortuna del diritto di
voto. E in democrazia non è possibile richiedere ai cittadini di firmare per il
loro licenziamento o per la riduzione dei loro salari, come invece ha appena
fatto il governo di Lisbona, siglando un accordo con l’Fmi che prevede altri 2
anni di recessione. Si tratta di un piano politicamente insostenibile ma anche
economicamente suicida, cui infatti i mercati internazionali non sembrano
prestare fede, scommettendo in maniera sempre più evidente su un default greco.
Default greco che avrebbe conseguenze disastrose su tutta l’Europa, scatenando
il panico tra gli investitori privati e trasmettendo il contagio ai paesi
detentori di buona parte dei titoli greci – in primis la Germania – e alle
altre economie con i problemi macroeconomici più evidenti, a cominciare
naturalmente dai PIGS che rischierebbero di fare la stessa fine di Atene.
In realtà anche il pacchetto di aiuti europei ha
poco senso economico, con i paesi in difficoltà costretti a indebitarsi con la
Ue pagando un tasso di interesse praticamente doppio di quello che pagano i
titoli pubblici tedeschi. Il punto naturalmente è che l’Europa non si comporta
da economia unica ma da insieme di paesi, altrimenti non si capirebbe l’imposizione
di tassi di interesse punitivi ai suoi membri, cosa che per altro segnala ai
mercati la poca fiducia che Bruxelles e Berlino ripongono in Atene.
Il problema greco va però oltre le contigenze
del momento e segnala in maniera chiara i problemi stutturali dell’archittetura
europea, che esistevano già dall’inizio dell’avventura della moneta unica ed
erano stati ampiamente preannunciati da diversi economisti ma che sono venuti
alla luce in tutta la loro interezza solo con l’inizio della crisi. Le economie
europee sono troppo diverse tra loro e nonostante una forte interdipendenza
commerciale non possono permettersi una politica monetaria unica, a maggior
ragione quando l’egoismo di breve respiro ha il sopravvento su una visione più
lungimirante. Prova ne sia che all’Euro Tower di Francoforte si continua a
discutere dei problemi dell’inflazione nell’area euro mentre le economie
periferiche sono in recessione e avrebbero bisogno di consistenti stimoli
monetari – nuovamente il paragone con la Gran Bretagna è istruttivo, i
quantitative easing hanno portato l’inflazione al 4.5% ad aprile ma hanno anche
evitato i problemi di liquidità che invece Grecia e Portogallo si trovano ad
affrontare. Soluzioni semplici non se ne vedono. Un’entità politica che sia
qualcosa di più di una Unione monetaria in questo momento starebbe trasferendo
in maniera massiccia risorse da una parte all’altra del paese (in questo caso
dalla Germania alla Grecia) per poter fronteggiare il periodo di crisi, ma
questo è categoricamente escluso dal governo tedesco e dalle istituzioni
europee che anzi, come abbiamo visto, fanno pagare alla Grecia più del dovuto
per i prestiti. In termini di economia politica classica, sembra che il
capitalismo europeo si stia avviando verso un equilibrio semi-autoritario, in
cui cittadini sono costretti a subire tagli di salari e diritti senza poter
decidere in maniera democratica del proprio futuro. In tale contesto, Mirafiori
e Atene non sembrano poi realtà così distanti: in entrambi i casi ai lavoratori
è semplicemente imposto di obbedire a piani decisi da altri e che peggioreranno
le loro condizioni di vita.
Tale imposizione rischia però di essere
controproducente anche per chi la propone. I sacrifici senza fine non possono
che creare una situazione sociale incandescente che il governo greco potrebbe
non essere in grado di tollerare. La ristutturazione del debito, lo abbiamo
visto, potrebbe essere un primo passo, a cui però si potrebbe accompagnare un’uscita
di Atene dall’Euro-zona. D’altronde la Grecia si trova in una situazione molto
simile a quella dell’Argentina nel 2001, quando il peso ancorato al dollaro
aveva di fatto cancellato la libertà di manovra della politica monetaria di
Buenos Aires. Nel momento dell’esplosione della crisi il governo argentino
rinunciò al dollar-peg e ristrutturò il debito. La maggior parte degli
economisti di estrazione neo-liberale predisse disastri, ma l’economia
argentina beneficiò della scelta dell’allora presidente Duhalde, crescendo di
oltre il 63% nei sei anni successivi. In tre anni il Pil argentino raggiunse i
livelli pre-crisi mentre nel caso della Grecia le previsioni più ottimiste, già
smentite dai fatti, parlano di otto anni. Certo, l’uscita dall’euro sarebbe un
danno di immagine fortissimo con conseguenze sociali molto pesanti nel breve
periodo, incluso un probabile bank-run e la possibile chiusura temporanea del
sistema bancario, come sostiene Paul Krugman. Ma i benefici di medio periodo
potrebbero essere tali da costringere il governo di Atene ad adottare una
soluzione così drastica, soprattutto di fronte all’esplodere della crisi
sociale.
Il rischio naturalmente, anche in questo caso,
sarebbe un effetto domino, con le altre economie periferiche dell’area euro
costrette a intraprendere un simile percorso – al contagio finanziario si
accompagnerebbe una rinnovata competitività greca che metterebbe sotto
pressione le economie più piccole e deboli. Insomma, uno scenario catastrofico,
con conseguenze che nessuno può prevedere con certezza anche sulle economie
europee più solide. Siamo forse di fronte all’ultima possibilità per la Ue di
salvare la Grecia e se stessa ma al momento non sembra che i governi europei
comprendano a pieno cosa c’è veramente in ballo dietro gli scioperi di Atene.
Invece di discutere sui possibili effetti che l’uscita di scena di Strauss Kahn
potrebbe avere sulla crisi greca – nessuno, a mio parere – si dovrebbe riflettere
su come rifondare l’economia europea su basi più solide, e possibilmente anche
più giuste.
Nicola Melloni
www.sbilanciamoci.info
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