Brutte notizie dai
mercati finanziari: Standar&Poor’s ha confermato il rating di A+ del debito
italiano ma ha modificato l’outlook da stabile a negativo, segnalando l’inquietudine
che circola sui mercati riguardo la salute dell’economia italiana.
Usciamo subito dall’equivoco
che riguarda il sistema di rating. Certo il giudizio di S&P’s, così come delle
altre agenzie, è un giudizio non solo economico ma anche politico – non è un
caso che il giudizio negativo sul debito USA sia arrivato in concomitanza con
lo stallo parlamentare sul piano di rientro dal debito e la previsione negativa
sull’Italia venga data dopo le elezioni amminsitrative ed in un periodo di
affanno del governo, mentre nubi sempre più scure si addensano sull’intera area
dell’Euro. D’altronde l’economia, lo sappiamo, non è una entità separata dalla
politica. Sicuramente le agenzie di rating non sono un oracolo, una voce
obiettiva al di sopra delle parti ma sono anzi parte integrante di un sistema
finanziario inefficiente, incontrollabile ed, in questo caso, con un gigantesco
problema di conflitto d’interessi. D’altro canto, però, non si può festeggiare
il giudizio delle agenzie quando è positivo e rigettarlo quando invece è
negativo. E, soprattutto, tale giudizio ha un impatto sull’andamento dei
mercati finanziari, a torto o ragione che sia.
In questo caso specifico
poi, S&P’segnala, con ritardo, un problema evidente. L’Italia non cresce,
il PIL resta al palo ed è questo che le agenzie di rating considerano
preoccupante. In questi anni Tremonti si era vantato di aver salvato l’Italia
dalla crisi internazionale, con una recessione ridotta rispetto ad altri paesi
europei e con conti economici meno disastrosi che altrove. La verità, però, è
assai più complessa e meno rosea di quella descritta dal Ministro dell’Economia.
L’Italia ha sofferto (relativamente!) meno di paesi come Grecia, Portogallo,
Spagna o anche Gran Bretagna perchè la nostra economia era molto meno
dipendente dai settori maggiormente colpiti dalla crisi, quello finanziario e
quello edilizio che avevano contribuito in larga parte al boom di Londra e
Madrid, o Washington. Dunque, la tenuta dell’economia è stata in larga parte
dovuta a motivi strutturali che poco hanno a che fare con le politiche del
governo.
Quanto alla tenuta dei
conti pubblici, i tagli lineari di Tremonti hanno diminuito la spesa corrente
del governo, in tal maniera evitando un ulteriore aumento dello stock di debito
– il rapporto debito/Pil è inizialmente cresciuto per poi diminuire negli ultimi
due anni. Il problema è che queste politiche economiche hanno un effetto
positivo (e solamente a livello di conti pubblici!) nel brevissimo periodo, ma
sono foriere di problemi ben più grandi di quelli che cercano di nascondere.
Colpendo indiscriminatamente tutti i settori, quelli produttivi e quelli
improduttivi, i tagli lineari mettono in salvo i conti in un dato momento, ma
non effettuano scelte di politica economica, non danno una prospettiva di
sviluppo al paese ed anzi minano le possibilità di crescita future. Inoltre
colpiscono in maniera disproporzionata i ceti più deboli – come ovvio i tagli
ai servizi dello stato riguardano maggiormente la fascia di popolazione più
povera – riducendone così ulteriomente la capacità di consumo e, di
conseguenza, diminuendo la domanda aggregata (i poveri consumano una parte di
reddito disponibile assai maggiore di quella dei ricchi). Detto in breve, le
politiche tremontiane rimandano solo l’ora di fare i conti con la crisi.
Intendiamoci, non è solo
Tremonti ad essere responsabile di questa situazione. L’Italia viene da due
decenni di stagnazione in cui i governi si sono occupati solo dei conti
macroeconomici rinunciando a qualsiasi politica industriale, sperando che fosse
il mercato a sopperire a tale mancanza. Speranza poi risultata vana. A
cominciare dai gabinetti presieduti da Amato e Ciampi si è dato la precedenza
alla riduzione del debito – si era nel periodo della crisi dello SME – cosa poi
ripetuta dal primo governo Prodi per cercare di entrare nell’Euro. L’effetto
netto, però, è stato l’affossamento dell’economia reale. L’Unione monetaria
europea è nata seguendo sostanzialmente la stessa filosofia monetarista, concentrandosi
su inflazione e debito e non occupandosi della crescita. Ed anche altrove in
Europa, la risposta all’attuale crisi è stata all’insegna dei tagli che
avrebbero dovuto rassicurare gli investitori sulla solvibilità del governo. L’avvitarsi
della crisi greca, il secondo bail-out in pochi mesi dell’Irlanda, il dramma
portoghese e, da ultimo, il giudizio negativo sull’economia italiana ci parlano
però di una situazione assai diversa, in cui i tagli non solo non bastano ma
anzi acuiscono i problemi. Di fronte a tale fallimento è arrivata dunque l’ora
di aprire una seria riflessione sull’intero sistema economico, italiano ed
europeo, lanciando una nuova proposta politica ed economica per il superamento
della crisi.
Nicola Melloni (Liberazione)
segnalo una interessante intervista a ciocca sul manifesto che ben si integra col pezzo scritto da me: http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20110522/manip2pg/06/manip2pz/303614/
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