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venerdì 24 maggio 2013

A chi non piace la Democrazia.
Di Simone Rossi 


Nel linguaggio pubblico italiano ed occidentale, in particolare in quello attinente alla sfera politico-istituzionale, la parola democrazia è utilizzata frequentemente, per lo più come forma di marketing con cui zittire chi esprime opinioni o concezioni della società differente da quella dominate. Per decenni la parola è servita da marchio commerciale per il sistema capitalista occidentale in contrapposizione al modello sovietico, quasi ad indicare che lo spazio delle forze popolari nella dialettica politica ed lo Stato Sociale fossero insiti nel modello occidentale e non il risultato di rapporti di forza favorevoli alle classi subalterne; tant'è, una volta abbattuto il Muro di Berlino e venuto meno lo spauracchio comunista, chi detiene il potere economico si è ripreso quanto conquistato dai cittadini nel corso di un secolo almeno, ivi compresi gli spazi di agibilità democratica; l'unica forma di stato e di società che piace a chi detiene il controllo dell'economia è quello in cui il più forte, il più ricco, ha piena libertà di fare e disfare, libero dalla critica e dal dissenso, repressi dai cani da guardia a due zampe. Si tratta di un atteggiamento diffuso, latente, che trova riscontro nelle occasioni in cui figure pubbliche si sottraggono alle domande scomode dei giornalisti, quelli riescono ancora a volgere il proprio ruolo di informazione e di investigazione, che reagiscono in maniera stizzita di fronte al dissenso, alla critica argomentata, preferendo i monologhi ed i dibattiti ovattati in televisione. Un atteggiamento che ha trovato la propria massima espressione nella proposta lanciata da alcuni esponenti di destra in Parlamento di punire anche con la reclusione le manifestazioni di dissenso durante i comizi politici, in cui, va da sé, si può accettare solo folla plaudente ed in adorazione del Capo.

A questa concezione conservatrice, quando non reazionaria, della società non si sottraggono quelle forze politiche che si rifanno alla tradizione riformista o che propugnano nuove forme di partecipazione democratica. Nell'edizione di lunedì 20 maggio de l'Unità Emiliano Macaluso, storica figura del PCI e delle sue successive mutazioni genetiche, esprimeva il proprio disappunto per la manifestazione indetta dalla FIOM contro le politiche economiche italiane per il 18 maggio. La motivazione su cui Macaluso ha mosso la propria critica, per cui la FIOM in quanto organizzazione sindacale avrebbe sbagliato a mischiarsi con organizzazioni non sindacali, innanzitutto i partiti della Sinistra appare debole, sopratutto alla luce del fatto che tra i vertici della CGIL ed il partito di Macaluso è sempre esistito un rapporto organico e di convergenza politica, come dimostra il passaggio di molti dirigenti sindacali nelle fila del partito. Ciò che sembra realmente infastidire l'esponente democratico e molti altri suoi colleghi di partito è la possibilità che il dissenso, l'opposizione alle politiche moderate cui aderisce il PD possa organizzarsi e divenire sufficientemente visibile e forte da mettere in discussione la posizione dominante del partito nell'ambito del campo progressista. A confermare questa supposizione è l'accenno nell'articolo stesso alla questione del referendum bolognese sui contributi pubblici alle scuole materne private, bollato come manifestazione di estremismo di quella parte della Sinistra che non sa essere "responsabile".Paradossalmente quella che è una forma di partecipazione democratica dei cittadini alle decisioni sembra non piacere a coloro che si dichiarano democratici già nella propria denominazione (Partito Democratico) nel momento in cui l'esito della consultazione potrebbe non collimare, nel caso bolognese, o non collima, come per il referendum sulla pubblicità dei servizi idrici, con i loro desiderata.

Il referendum bolognese avrà carattere locale ma ha assunto carattere nazionale durata campagna elettorale, con il pesante intervento di esponenti di spicco dei principali partiti di governo, quello delle cooperative, delle organizzazioni di matrice cattolica e della CEI. Più che i finanziamenti in sé, nell'ordine di circa un milione anni, o la "pura indipendenza" del sindacato, per ritornare al Macaluso di cui sopra, ciò che infastidisce e finanche intimorisce i Democratici è la democrazia stessa, intesa come partecipazione attiva dei cittadini della Cosa Pubblica, in autonomia dai partiti e dal controllo paternalistico di una classe dirigente autoreferenziale ed autoritaria. Esperienze come il referendum sulla scuola materna pubblica a Bologna, l’opposizione al progetto TAV in Valle di Susa, i movimenti per la tutela del territorio dalla costruzione di grandi opere invasive ed inquinanti e contro la proliferazione di basi ed installazioni militari (Vicenza, Sicilia) rappresentano piccole crepe nel monolite del pensiero unico che accomuna di oltre vent’anni post comunisti, ex democristiani, liberali e conservatori. Sono il sale della democrazia, non possiamo che auspicare si moltiplichino e siano il preludio per un cambio di direzione del pendolo della Storia.


giovedì 20 settembre 2012

La rassegna stampa di R.I.
Uomini e no
La Fiat sa fare soldi, non più automobili

Di Marco Revelli
da "Il manifesto" del 19/9/2012

(articolo segnalato da Simone Rossi)

Non è un problema tecnico. Non c'era bisogno di particolari competenze ingegneristiche o finanziarie per capire, fin dal 21 aprile di due anni fa, quando al Lingotto fu presentato in pompa magna, che il piano «Fabbrica Italia» stava sulle nuvole. Anche un bambino si sarebbe reso conto che quella produzione da aumentare dalle 650.000 auto del 2009 al milione e 400mila del 2014, quel milione di veicoli destinati all'esportazione di cui «300.000 per gli Stati Uniti» (sic!), quel raddoppio o poco meno delle unità commerciali leggere (dalle 150 alle 250mila) in meno di quattro anni, erano numeri sparati a caso. Così come quei 20 miliardi di euro d'investimenti in Italia (i due terzi dell'intero volume mondiale del Gruppo Fiat!), senza uno straccio d'indicazione sulla loro provenienza, senza un piano finanziario serio e trasparente, erano un gigantesco buio gettato sul tavolo verde.
Non è nemmeno un problema politico. O meglio, non è solo un problema politico. I pochi - pochissimi! - che annusarono il bluff e lo dissero o lo scrissero, non lo fecero perché «ideologicamente » ostili alla Fiat, o all'« impresa», o al «capitale». Se gli uomini della Fiom, unica organizzazione nell'intero panorama sindacale, capirono al volo che quel patto leonino proposto da Sergio Marchionne - sacrifici operai subito in cambio di una chimera lontana - era una trappola mortale, non lo fecero perché politicamente schierati contro. Lo fecero perché, appunto, erano «uomini», non marionette. Ben radicati nella realtà di fabbrica, spalla a spalla con altri uomini e donne con cui condividevano difficoltà, sentimenti e interessi.
Forse sta tutta qui la soluzione dell'arcano del «caso Marchionne». In una questione di «antropologia»: nella materialità di una condizione umana e di un sistema di relazioni su cui è passata come un rullo compressore una drammatica «apocalisse culturale ». È sicuramente il prodotto di un'apocalisse culturale l'anti-eroe eponimo della vicenda, l'AD Sergio Marchionne, svizzero fiscalmente, americano aziendalmente, apolide moralmente. Così come lo sono i variopinti eredi della famiglia Agnelli - i «furbetti cosmopoliti» di cui parla Della Valle - figure ormai abissalmente distanti dal tipo umano dell'imprenditore del primo e anche del secondo capitalismo. Feroce, certo, spregiudicato e «creativamente distruttore », calcolatore e cinico, ma non incorporeo, sradicato e irresponsabile. Non avulso da ogni terra e da ogni luogo come sono i nuovi manager globali e la nuova proprietà finanziarizzata, la cui parola vale l'éspace d'un matin, e la cui appartenenza è sconosciuta («Siamo qui. Anzi io sono a Detroit, ma sto proprio partendo per l'Italia», ha detto l'a.d. Fiat a Ezio Mauro nell'intervista pubblicata proprio ieri da Repubblica, erettasi per l'occasione a informale tramite tra Impresa e Governo).
Marchionne non è un imprenditore in senso stretto. Non sa «fare macchine» - macchine le fanno ancora i tedeschi, come la Volkswagen che ne produce 8 milioni all'anno e veleggia verso i 10 milioni, e che investe in ricerca e sviluppo quasi 7 miliardi di euro, mentre lui va poco sopra i 2 per lo più finanziati dalle banche italiane e impegnati per trasferire oltre oceano la tecnologia Fiat.
Marchionne sa fare soldi: nel solo 2010, l'anno di Fabbrica Italia, ha provocato la più severa caduta sul mercato europeo mai registrata (la Fiat è scesa ad appena il 6,7%) ma in compenso ha portato il proprio gruppo a guidare la classifica della redditività per gli azionisti, «con un ritorno sul capitale del 33%»!
Vale per lui quanto scritto da Richard Sennett sui manager globalizzati di ultima generazione nel suo ultimo volume su "La cultura del nuovo capitalismo"¬: gente che vive strutturalmente - in forza della distanza abissale, di reddito e di stile di vita, che li separa dai luoghi e dalle figure del lavoro - la divaricazione tra guida e responsabilità. Ambivalenti per ruolo e natura. Specializzati nel pensare per «tempi brevi», sul raggio della prossima trimestrale, e a muoversi per improvvisazioni più che per programmazione e pianificazione. Gente, diciamolo, di cui non fidarsi!
Ma prodotto di un'apocalisse culturale sono anche gli altri.Quelli che dovrebbero stare di fronte a Marchionne, e che invece gli stanno dietro (o sotto): i Bonanni, gli Angeletti, buona parte della politica, quasi tutta l'amministrazione. Che cosa ha portato il capo della Cisl Raffaele Bonanni, nell'aprile del 2010 a «brindare alla salute di Fabbrica Italia», definendola «una minirivoluzione che potrebbe riportare l'Italia ai vertici produttivi di un tempo»? E ancora l'anno successivo a dichiarare: «Sarà brusco, sarà crudo, ma Marchionne è stato una fortuna per gli azionisti e i lavoratori della Fiat.Grazie a Dio c'è un abruzzese come Marchionne». Che cosa ha spinto il segretario della Cisl torinese Nanni Tosco - che pure dovrebbe essere un po' più vicino ai luoghi della produzione - a sbilanciarsi definendo il piano di Marchionne «un'opportunità irripetibile per il sindacato e assolutamente da cogliere, evitando di infilarsi tra le ombre del 'piano B'»? E il futuro sindaco Fassino, alla vigilia del famigerato referendum sull'accordo a Mirafiori, a dichiarare senza esitazione che se fosse stato un operaio Fiat (sic) avrebbe votato sì? Ma è pressoché tutto il mondo politico ad aver assistito ai preparativi della fuga di Marchionne - come ha scritto Loris Campetti - «con il cappello in mano, spellandosi lemani ad applaudire le prodezze di un avventuriero». Perché?
Non erano così gli uomini di «prima». Non dico i Pugno (il leggendario segretario della Camera del lavoro di Torino venuto dagli anni duri),ma nemmeno i Cesare Delpiano, gli Adriano Serafino, i Pierre Carniti, i responsabili della Cisl piemontese e nazionale che guidarono la riscossa operaia. Gente che sapeva conoscere e valutare gli uomini che aveva di fronte, perché conosceva e rispettava gli uomini di cui aveva la responsabilità. E non erano così i Berlinguer, i Novelli, i Damico, ma nemmeno il democristiano Donat Cattin e persino il vecchio sindaco Giuseppe GrossoŠ In mezzo, tra questi due diversi «tipi umani» - tra queste opposte antropologie - è passata, come un vomere, la lama di una sconfitta storica del mondo del lavoro. Di un arretramento epocale nelle condizioni materiali del lavoro, nel livello delle remunerazioni e dei salari dei lavoratori, e insieme nel ruolo stesso che il lavoro gioca nello spazio sociale, nella sua capacità di parola e di presenza.
Luciano Gallino, nel suo splendido "La lotta di classe dopo la lotta di classe" calcola che nel corso del ventennio a cavallo tra il Novecento e il nuovo secolo lo spostamento di ricchezza dal monte salari al monte profitti sfiori i 250 miliardi di euro all'anno: l'equivalente di numerose manovre finanziarie lacrime e sangue. E' la misura della perdita di potere del lavoro, che è stata anche sua «privatizzazione». Espulsione del lavoro dalla sfera pubblica (quella in cui l'aveva riconosciuto anche formalmente l'art. 1 della nostra Costituzione), e suo confinamento nella dimensione privata, senza voce e senza forza, regolata da rapporti di comando-obbedienza individuali e irrimediabilmente asimmetrici. Di questa dimensione pubblica del lavoro sono orfani, di questa sua privatizzazione (a cui hanno assistito passivamente e collusivamente) sono figli, gli attuali politici maggioritari e i sindacalisti in ginocchio davanti al Marchionne di turno. L'insostenibile leggerezza del loro essere è il riflesso di una strutturale perdita di terreno. L'evaporare della politica e della rappresentanza in generale (istituzionale o sindacale) nella nuvola eterea dei sistematici luoghi comuni che avvolgono ormai la comunicazione pubblica come un involucro asfissiante (la «cattura cognitiva» di cui parla Gallino), riflette questa liquefazione.
Ora, se questa massa liquida cui si è ridotta la politica nazionale e buona parte dello schieramento sindacale viene chiamata a misurarsi, nelle forme ultimative che la crisi impone, con la dimensione gassosa della nuova imprenditoria globale - con il Marchionne di turno - il risultato è scontato: essa è destinata ad esserne dissolta e fagocitata irrimediabilmente, con la comune rovina di se stessa e di noi tutti. Dovrebbe farci pensare il fatto che gli unici a confrontarsi, con durezza, con Marchionne sono i «forti», altri «padroni» come lui, mentre ministri, politici e sindacalisti di regime emettono flebili vagiti e si rimettono, come dice Giorgio Airaudo, «alla clemenza della corte». Se una speranza è data vedere, se una possibilità di rinascita si può immaginare, essa consiste nei punti di resistenza di ciò che ha saputo restare «solido» nel generale processo di dissolvimento. Mantenere un rapporto col proprio suolo, culturale, sociale, produttivo. Per questo tanta ammirazione - anche al di fuori del campo ristretto delle tradizionali sinistre - avevano saputo suscitare quel 40% di «inattuali » che a Pomigliano avevano avuto il coraggio di dire NO, e quel quasi 50% di Mirafiori. Per senso di dignità, prima che per calcolo di utilità. Sapendo di giocare una partita disperata (perché il ricatto di Marchionne lasciava solo l'alternativa tra «arrendersi o perire»). Oggi sappiamo che vedevano più lontano degli altrettanto disperati operai che votarono Sì.
Come vedeva lontano la Fiom, a cui andrebbe fatto un monumento per aver saputo mantenere aperto un varco, attraverso cui tentare di passare oltre. Di esistere ancora, nel mondo che verrà.Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete

lunedì 11 giugno 2012

Che succede a sinistra?

Di Nicola Melloni

Tanto, nulla, o forse qualche cosa. L'incontro promosso dalla FIOM ha cercato di portare un pò di chiarezza su cosa sta succedendo a sinistra, ma potrebbe aver portato più confusione. Bersani aveva avuto il coraggio di accettare l'invito, che non è cosa da poco, ma si è presentato fresco di dichiarazioni a favore di una apertura al centro. Ed è stata subito bagarre con Di Pietro, mentre Vendola continua a fare il democristiano, sempre in equilibrio senza mai sbilanciarsi.
L'incontro della FIOM doveva servire a coordinare una base programmatica per definire una coalizione che rimettesse il lavoro al centro della politica nazionale. Ma certo non ci si poteva aspettare più di tanto da chi cerca l'alleanza con Casini e magari Montezemolo. E d'altronde una consistente parte del PD ha dei problemi con la CGIL, figuriamoci se è disposta ad ascoltare la FIOM. 
Il PD è un partito sostanzialmente moderato che pensa ad alcuni correttivi (ma quali? ancora non lo si è capito) al sistema economico neo-liberista che ha provocato la crisi, ma di sicuro non ambisce ad una alternativa di sistema. Certo non il partito del lavoro, per stare al tema promosso dalla FIOM.
Come avevamo già detto ci sarebbero però diverse forze politiche italiane con delle idee (o, almeno, delle parole) diverse, più radicali, più critiche verso il neo-liberismo e l'economia di mercato. La Federazione della Sinistra chiede di unire questa sinistra ma la risposta di Vendola è prospettare addirittura un soggetto politico comune con il PD. Legittimo per l'amor del cielo, ma bisognerebbe anche spiegare per fare cosa: appoggiare un nuovo Monti? Allearsi con Casini?
Il grande assente di questo gioco politico è dunque proprio quello che la FIOM chiedeva, il programma. La futura alleanza di governo si basa sulla partecipazione alle primarie e non su una visione comune di come uscire dalla crisi. Prima c'era almeno il collante dell'anti-berlusconismo, mentre oggi ci si divide tra chi appoggia e chi si oppone al governo.
In questa confusione il fatto che la FIOM abbia lanciato una sua iniziativa è positivo ma insufficiente, ed i risultati di quella giornata lo dimostrano. Se si vuole costruire un vero soggetto politico che rappresenti il lavoro è indispensabile che sia il sindacato, con il suo prestigio e la sua forza organizzativa, a giocare un ruolo da protagonista. Aspettare oltre, mentre nei palazzi del potere già si disegnano i futuri assetti politici ed economici, sarebbe un suicidio.


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sabato 24 marzo 2012

Il Corriere ipocrita e la riforma del lavoro

Si continua con la guerra di propaganda dei giornali filo-governativi e padronali. Dopo le inquietanti parole di Scalfari contro l'opposizione, il regime mediatico mette in campo un altro pezzo da 90, il direttore del Corriere De Bortoli.
Che difende la riforma del mercato del lavoro, ed ha pieno diritto di farlo, sia chiaro. Ma che rifiuta di dare notizie, e non fa buon giornalismo, e questo, invece, è un peccato piuttosto grave. De Bortli catechizza tutta la sinistra, a cominciare dal PD, reo di vivere ancora in un clima novecentesco popolato dai fantasmi della lotta di classe, figuriamoci. Non è più questa la situazione, i padroni son diventati imprenditori, e siamo tutti sulla stessa barca, figuriamoci se ci può essere dialettica tra chi prende 800 euro al mese e chi fa guadagni milionari (qualcuno ci sarà pure, caro De Bortoli, se il 50% della ricchezza è detenuto dal 10% della popolazione, no?).
Ma soprattutto le parole del direttore del Corriere della Sera paiono drammaticamente fuori luogo nel giorno in cui escono le motivazioni del giudice che ha imposto (disatteso!) il reintegro dei 3 operai della Fiat di Melfi. Quelle motivazioni sono chiare, Giovanni, Marco ed Antonio sono stati licenziati perchè iscritti alla FIOM. Questo è il clima delle fabbriche, questo è quello che succederà nel momento in cui non ci sarà più l'art.18 a difendere non i privilegi degli operai, ma quella parola di cui Scalfari e De Bortoli sembrano aver dimenticato il significato, DEMOCRAZIA. Perchè democrazia è esser libero di aver opinioni diverse dal proprio padrone, senza poter esser licenziato. Magari attraverso il sotterfugio del licenziamento economico, due soldi per liberarsi di chi non ci piace. Come se le idee avessero un prezzo.  



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lunedì 12 dicembre 2011

Intervista a Giovanni Barozzino, l'operaio che non vuole cedere a Marchionne
Di Monica Bedana


La storia di Giovanni (e di Marco e di Antonio) è la storia di come nell'Italia del XXI secolo si possa essere licenziati per il solo fatto di aver esercitato un diritto garantito dalla Costituzione, il diritto allo sciopero. Ma è anche la storia di come dalla rottura di ogni regola da parte della fabbrica possano scaturire la solidarietà e la riscossa sociale.
Questo blog nacque dalla necessità di esprimere quella stessa solidarietà all'unico sindacato che ancora si oppone con valore all'annullamento della pace sociale nel nostro Paese, la Fiom.
Ripercorrere con Giovanni Barozzino - “semplice operaio” che con l'aiuto di Fiom ha sfidato l'onnipotenza di Fiat- la sua vicenda lavorativa e giudiziaria è purtroppo paradigmatico di quale potrebbe essere il futuro di tutto il mondo del lavoro se viene slegato da ogni protezione istituzionale. Ma questo percorso significa anche e soprattutto far conoscere una storia umana straordinaria.

***
Il “caso Melfi”

In luglio del 2010 Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, operai dello stabilimento Fiat (Sata) di Melfi vengono sospesi e poi licenziati con l'accusa di aver sabotato l'attività lavorativa dei compagni durante uno sciopero.
Iscritto alla Fiom dal 1997, Giovanni ha svolto il ruolo di Rsu di fabbrica fin dal 2001; nelle elezioni di giugno del 2010 è stato il primo eletto dello stabilimento. Un mese dopo il licenziamento, in seguito al ricorso dei tre operai sostenuti da Fiom, il giudice del lavoro obbliga Fiat a reintegrarli e accusa l'azienda di comportamento antisindacale: un sentenza storica che però non garantisce ai tre la ripresa dell'attività lavorativa.
Fiat ricorre il provvedimento di reintegro e nel frattempo, in attesa della discussione del ricorso, impedisce loro di accedere alla catena di montaggio; in pratica li paga per non farli lavorare. In qualità di rappresentanti sindacali, l'azienda li autorizza a svolgere solo tali attività, relegandoli in una stanzetta, lontano dai lavoratori, costringendoli ad una messinscena grottesca dell'esercizio dei diritti sindacali che suscita la commozione dei loro compagni, di buona parte dell'opinione pubblica e perfino la “calorosa vicinanza” del Capo dello Stato.
Tutto ciò non è sufficiente ad evitare che un anno dopo il verdetto sul ricorso di Fiat ribalti la situazione a favore della fabbrica ed i tre vengano di nuovo licenziati, con una sentenza carica di polemiche sia per le motivazioni che adduce sia per le prove ammesse e non ammesse in giudizio.

In settembre del 2010 Giovanni, Antonio e Marco iniziano a girare le fabbriche Fiat per parlare di diritti ai compagni; vanno “in marcia per il lavoro, in marcia per la dignità” ed il viaggio si conclude a Roma, sotto il Ministero di Giustizia, per chiedere che la loro sentenza venisse rispettata dalla Fiat, che la giustizia fosse uguale per tutti. La loro storia è raccontata nel documentario  "107 secondi".

In luglio di quest'anno è uscito il libro di Giovanni, “Ci volevano con la terza media”, presso Editori Internazionali Riuniti (www.editoririuniti.net), con l'introduzione di Maurizio Landini e la prefazione di Gabriele Polo. Le sue pagine racchiudono la verità di chi ha lavorato alla Fiat per oltre 15 anni, raccontandola con buonsenso, generosità ed ironia.

Giovanni (a destra), con Marco e Antonio nei giorni della protesta
Immagine dalla web "L'isola dei cassintegrati"
***

Il mio lungo dialogo scritto con Giovanni Barozzino inizia l'estate scorsa, proprio quando l'articolo 8 della manovra di agosto varata dal Governo Berlusconi spalanca le porte ai licenziamenti facili e sferra un attacco frontale all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. In quei giorni venivano liquidate la libertà e l'autonomia del sindacato insieme al Contratto Nazionale di Lavoro. Gli chiesi come si sentisse in quei momenti, sia come sindacalista che per la sua situazione lavorativa di operaio licenziato da pochi giorni da Fiat.
Tre mesi dopo siamo alle prese con i tagli della manovra Monti, che ancora una volta colpiscono duramente solo lavoro e pensioni. Mi è d'obbligo ricordare in primo luogo le sue parole di allora, soprattutto oggi, con lo sciopero generale dei metalmeccanici in atto.

Come mi sento? Umiliato, derubato, offeso, come uomo e come cittadino. Alcuni mesi fa in un dibattito politico un cittadino mi disse che Marchionne e Berlusconi sono praticamente la stessa cosa, infatti tutti e due vogliono cancellare le leggi, uno attraverso la Costituzione, l'altro attraverso lo Statuto dei Lavoratori. Devo dire che non solo sono perfettamente d'accordo ma aggiungo addirittura che chi pensa che questi siano dei politici si sbaglia di grosso secondo me; io penso che questi ormai non sono altro che dei portaborse dei poteri forti che attraverso l'aiuto di gran parte dei giornali e tv pensano di far passare queste nefandezze per riformismo e progresso. Difficile, nonostante le leggi che erano in vigore (vedi articolo 18 o Statuto dei Lavoratori) difendersi dalla prepotenza di chi ha un potere immenso, a volte sembra di sbattere contro un muro di gomma per quanto è grande il loro potere mediatico e economico. Nel momento in cui passeranno queste “riforme” la tragedia paradossalmente sarà per quello che non sarà scritto nei contratti: chi oserà dire che non è d'accordo?
Ho sentito tanta gente dire che questa crisi devastante sia molto simile a quella del 1929. Io non ero ancora nato ma ho letto tanto e attentamente di quella crisi e purtroppo ho notato tante analogie con questa. Anche allora, come adesso, i poteri forti hanno deciso di non ascoltare il popolo e quindi non rispettare la democrazia e la dignità. Queste scelte, se non erro, hanno partorito il nazifascismo in Europa e, di conseguenza, portato alla guerra. Morale della favola (si fa per dire) la storia ha insegnato a tutti noi che togliere la democrazia e, di conseguenza, i diritti e la dignità, non ha mai portato a niente di buono. A ognuno di noi non spetta che riflettere attentamente.

***

Lo sciopero che causerà il licenziamento di Barozzino, Lamorte e Pignatelli avviene la notte tra il 6 ed il 7 luglio 2010. Le radici di questo sciopero affondano però nel profondo malessere creatosi in fabbrica fin dall'anno precedente, quando la Sata di Melfi decise di rompere il contratto nazionale e di sottoscriverne uno separato, approvato solo da alcune firme sindacali. E' l'ormai noto “modello Marchionne”, lo stesso applicato a Pomigliano e Mirafiori, che mira a fomentare lo scontro diretto tra sigle sindacali per sbriciolarle. E' soprattutto il modello dell'imposizione scellerata della scelta tra posto di lavoro e diritti, scelta che il lavoratore si trova ad affrontare completamente solo, privato della tutela di una rappresentanza sindacale da lui votata. Questa, a sua volta svuotata di ogni potere di negoziato dall'annullamento del contratto nazionale, non può che farsi corporativa e cedere ad ogni ricatto; non c'è margine per la trattativa se la minaccia costante è che la fabbrica chiuda i battenti.

Il primo effetto dell'applicazione del nuovo contratto alla Sata di Melfi fu l'eliminazione dell'integrativo aziendale pagato annualmente agli operai in base alla produzione effettuata. La progressività dell'integrativo era già stata congelata fino al 2012 con un accordo di tutte le sigle sindacali ma Fiat non ritenne tale misura sufficiente e decise di cancellare tutto il premio.
Il secondo effetto del contratto separato fu l'applicazione della cassa integrazione a quasi 2000 persone; al tempo stesso l'azienda decise un aumento della produttività di circa il 13%.
E' in queste condizioni lavorative che in fabbrica matura l'idea dello sciopero, che Fiom avrebbe voluto fosse generale ma che non viene condiviso nelle modalità da tutte le sigle sindacali.

Giovanni, un intero capitolo del tuo libro è dedicato al racconto della fatidica notte tra il 6 ed il 7 luglio 2010. Cassa integrazione e, al contempo, aumento della produttività in fabbrica del 12%-13%. Sembrerebbe un controsenso, invece è un detonatore dello sciopero che darà il via a quella caccia alle streghe che vi porterà tutti e tre al rogo. Uno sciopero limitato ad una piccola area del montaggio -mentre per Fiom sarebbe stato necessario che tutto lo stabilimento scioperasse- e con la defezione di alcune sigle sindacali. Dal tuo racconto sembra che tutto, quella notte, sia stato orchestrato in maniera impeccabile per sfociare in una punizione esemplare. Gli operai rappresentati da Fiom stanno pagando con una vera persecuzione premeditata la solitaria opposizione del sindacato agli accordi di Pomigliano?

Non puoi immaginare quante volte ho pensato a quella notte e ci penso ancora, tanto da farmi venire una malattia. Posso assicurare che quella notte non è successo nulla di quello che la Fiat ha voluto far credere. Le loro tesi sono state smontate totalmente dal primo giudice e, paradossalmente, in parte anche dal secondo giudice (*). Oggi infatti non siamo più sabotatori ma siamo comunque licenziati (la sentenza dice che non c’è stata "nessuna premeditata intenzionale volontà di sabotaggio", n.d.r.). Io tutte le mie perplessità o le “cose” strane di quella notte le ho riportate nel mio libro chiaramente. Forse chi dovrebbe aggiungere qualcosa sono quei sindacalisti della FIM, UILM, FISMIC, UGL che la notte dello sciopero hanno firmato un documento dove oltre a certificare il rispetto delle regole dello sciopero condannava il preposto della Fiat per atteggiamenti provocatori. Queste persone poi davanti al giudice si sono rimangiate ogni parola e hanno dichiarato di aver firmato “perché non stavano bene quella notte e quindi non capivano quello che firmavano” oppure che l'avevano firmato “per prassi”, una frase molto cara a Fiat. In realtà le registrazioni fatte a loro insaputa agli stessi delegati firmatari del documento dimostrano che quella notte era tutto organizzato. Provocatoriamente mi viene da chiedermi se queste “prassi” o questi “sentirsi poco bene” potrebbero permettere a qualsiasi cittadino italiano di ritirare una firma davanti alla legge.
Hai descritto le motivazioni dello sciopero. Penso che se la politica fosse stata “attenta”, per la Fiat sarebbe difficile dare spiegazioni credibili al Paese delle azioni che compie. Come si può giustificare infatti che da un lato metti in CIGO tantissimi lavoratori (pagati dai cittadini!) dall'altro aumenti la produzione...l'unica cosa che posso aggiungere in merito, sarcasticamente, è che questa forse è una nuova forma di incentivo...incentivo umano...tanto gli umani costano poco con la globalizzazione, meno degli incentivi per la rottamazione delle vecchie auto.
(*) QUI alcuni passaggi essenziali delle motivazioni depositate dal giudice del lavoro di Melfi, Amerigo Palma, che ha accolto il ricorso della Fiat sul reintegro dei tre operai

“Quella notte non è successo nulla di quello che la Fiat ha voluto far credere”.
In effetti i tabulati telefonici e numerose testimonianze dimostrano e certificano che all'ora in cui ti si accusa di sabotare la produzione non eri nemmeno ai carrelli. Prove che non sono state prese in considerazione dal giudice che ha accolto il ricorso di Fiat e che vi ha licenziati definitivamente. Cosí come non ha tenuto in considerazione due registrazioni da te effettuate in cui alcuni tuoi colleghi sindacalisti, appartenenti a sigle vicine a Fiat, parlano apertamente della volontà dell'azienda di fare “pulizia etnica” nei riguardi di Fiom e sostengono che un funzionario aziendale avrebbe incassato una specie di taglia di 5000 euro per il vostro licenziamento. Quaranta giorni prima di essere licenziato hai addirittura ricevuto un sms in cui ti si diceva di “stare attento”. Raccontaci come si sono svolti i fatti quella notte, ché ci servirà a capire il clima ed i toni in cui si svolgono le relazioni in fabbrica.


Il cellulare di Giovanni, con il messaggio che contiene il consiglio di "stare attento" 

QUI l'audio in cui un delegato sindacale di Uilm parla della pulizia etnica necessaria in fabbrica.
QUI invece l'audio che allude al compenso di 5000 euro pagato ad un dirigente per i licenziamenti dei tre di Melfi

In un sms del 26 maggio 2010, quindi ben prima del mio licenziamento, di fatto venivo avvisato di stare attento al signor ... perchè “è pericoloso” e di non rimanere mai da solo. Il ''signor''........è il preposto che di fatto ci ha licenziato ed è anche quello a cui alludi, quello che nella registrazione secondo il delegato Uilm avrebbe ricevuto i 5000 euro per il nostro licenziamento.
A mandarmi questo sms è stata la moglie di un altro dirigente Fiat -e già questa non mi sembra una cosa normale-. Questa signora, moglie di un altro dirigente Fiat, 40 giorni prima sapeva forse già cosa doveva succedere quella notte? Che strana coincidenza?!
In realtà prima di questi fatti lei era una mia amica, nonchè compagna di sindacato (lei lavorava in un'altra fabbrica, quindi non in Fiat ); dico “era”, perchè nel momento in cui abbiamo reso pubblico l'sms mi ha tolto il saluto.
Lei non solo mi aveva mandato l'sms, ma addirittura mi aveva telefonato per “avvisarmi'' di stare molto ma molto attento. Se si pensa che suo marito occupa lo stesso ruolo di chi mi ha licenziato, non credo che ci voglia molto a capire da chi l'ha saputo, cosa sarebbe successo.

Io voglio sempre precisare una cosa: la contestazione fattami dalla Fiat recita, fra le tante bugie che dalle 2.20 fino alle 2.30 precise quella notte, io insieme agli altri due eravamo davanti ai carrelli; poi alle 2.30 esatte ci siamo spostati. In realtà io arrivo li fra le 2.27...2.28 - fatto più che dimostrato dai tabulati e dalle tante testimonianze (“Alle due, ventiquattro minuti e diciassette secondi”, come precisa Antonio nel suo libro, riceve una telefonata sul cellulare da Antonio Lamorte, che lo prega di rientrare in fabbrica, luogo da cui si era momentaneamente allontanato, n.d.r.). Se lo sciopero finisce alle 2.30 (lo scrive Fiat, non io) io parlo con questo ''signore '' che, appena arrivo mi contesta e poi mi licenzia, per non più di 2 min, a carrelli fermi. Il primo giudice aveva domandato al solito ''signore'' se era sicuro degli orari della contestazione, lui ha risposto di sí.

A questo punto mi chiedo se dalle 2.20 alle 2.30 questo “signore” ha parlato con il mio fantasma. E, in questo caso, non sarebbe falsa testimonianza? Tengo inoltre a precisare fortemente che io arrivo in quel luogo perchè i preposti aziendali erano li! E intervengo solo per difendere Marco Pignatelli, solo per chiedere per cortesia al preposto in questione di abbassare i toni perché stava aggredendo a parole Pignatelli. Non sapevo nemmeno di cosa stessero discutendo...la reazione istantanea di questo signore è stata: “Allora sei contestato anche tu!” Posso assicurare, - ma lo testimoniano più di 40 lavoratori e, paradossalmente, anche tutta la Rsu, firmando il documento- che il preposto gridava cosi tanto e ripeteva, portandosi la mano all'orecchio: “Forse non ti è chiaro, sei contestato”, tanto che mi è venuto spontaneo dirgli: “Ma che, ti si è incagliato il disco?”. Penso che chiunque avrebbe risposto cosi, come minimo! Io invito tutti i lettori a cercare di capire come si fa a parlare con uno che ti grida addosso senza motivo e ti gesticola contro con la mano. Quando gli abbiamo poi chiesto “Dicci tu dove dobbiamo andare!” di nuovo c'è una enorme bugia nella sentenza, perchè quella frase è stata detta nel momento in cui tutti ci siamo spostati. Il capo Ute era arrossito dalla vergogna perchè non riusciva a far ripartire il carrello perchè sempre questo ''signore'' continuava a gridare anche contro il suo sottoposto. Nel frattempo per poco una tradotta, che stava fornendo il materiale sulle linee, nello stesso corridoio, quindi stava funzionanado, non investiva dei lavoratori, allora io ho detto ai lavoratori , a voce alta quella frase, “Dicci tu dove dobbiamo andare” che non ricordo neppure se proprio con quelle esatte parole, ma era semplicemente una frase detta nel momento in cui tutti andavamo via e soprattutto dopo che tutti avevano capito la figuraccia che aveva fatto questo signore, in quanto ormai a tutti era chiaro che i carrelli erano fermi e non certo per colpa nostra. Il senso della frase era “Adesso ci diranno che blocchiamo le tradotte?”. Tanti lavoratori addirittura ridevano nel vedere come questo signore trattava il suo sottoposto e sopratutto per come si erano sgonfiate le loro accuse ridicole.

Raccontare tutto è impossibile, ma a me pare di capire che oggi noi saremmo licenziati per qualcosa di diverso dall'oggetto della contestazione, cioè l'aver sabotato la produzione (la sentenza del giudice Palma dice che “non c’è stata nessuna premeditata intenzionale volontà di sabotaggio” da parte dei tre operai e che il blocco del carrello “potrebbe essere avvenuto verosimilmente per colpa, ossia per contatto inconsapevole di qualcuno, data la concitazione degli eventi”, n.d.r.).
Non è dimostrabile che io abbia dei poteri soprannaturali e quindi non potevo fermare i carrelli con la mente da una distanza di 200 mt, visto che non ero presente sul luogo. Leggendo le testimonianze Fiat per esempio ci si accorge che Marco per alcuni testimoni Fiat è subito presente nella contestazione, per altri invece è venuto dopo ...quindi appare e scompare dalle testimonianze di Fiat . E infine sarebbe addirittura riapparso per difendere me ed Antonio Lamorte. Il primo giudice ha chiesto a Fiat: “Se c'erano tutti i lavoratori nel corridoio, perché la contestazione è stata fatta solo ai delegati Fiom?”. La risposta: “Perché sono i più rappresentativi e conosciuti”. Anche qui due grosse bugie... la prima, io non c'ero, la seconda... Antonio Lamorte era al primo mandato, mentre lí erano presenti delegati di altre organizzazioni al quinto mandato.
Se non vivessimo una tragedia, sembrerebbe di stare su “Scherzi a parte”, infatti ogni capo ha fornito un'orario a piacere. Credo che tutto quanto avvenuto sia stata una azione prettamente politica per alzare la tensione nello stabilimento. Per esempio non si capisce perché hanno scelto proprio Marco e Antonio che erano quelli meno esperti rispetto agli Rsu di altre organizzazione sindacali che erano presenti quella sera ed erano peraltro molto più conosciuti dall’azienda.

Mi colpisce l'assoluta mancanza di rispetto e la presenza in fabbrica di un clima che ci riporta ai tempi della rivoluzione industriale, nei rapporti tra capi e operai.

Io la fabbrica o un luogo di lavoro lo intendo come un luogo di rispetto reciproco e di serenità. Sono convinto che in un ambiente sereno il primo a trarne beneficio sarebbe addirittura il proprietario. Ti assicuro che se tu potessi vedere il mio curriculum lavorativo ti accorgeresti che non sono uno che sputa nel piatto dove mangia e questo solo per dirti che il valore del lavoro io lo conosco, non permetto a nessuno di insegnarmelo, ma ho la pretesa di meritare -come tutti!- un lavoro che mi dia DIGNITA'... è pretendere troppo ? Ti faccio un esempio: in 9 anni ho 5 giorni di malattia fatti per un piccolo intervento...altro che fannullone!
Ma ci rendiamo conto invece di dove ci stanno portando ? I nostri licenziamenti non sono forse un esempio ? Mi trattano da SABOTATORE.... sono uno che in due minuti è colpevole di non aver letto la mente altrui e quindi colpevole per non aver capito che mentre costui gridava come un pazzo contro un lavoratore, in realtà stava attento a non farci travolgere da dei carrelli fermi ! Perdonatemi... ma per i miracoli mi sto attrezzando, mi vien da rispondere! Scusa l'ironia, ma a volte se non faccio cosi, impazzisco.
Infine, Fiat ha presentato come prova una fotografia del luogo nel quale si sarebbero svolti i fatti contestati. Notavo che in quella foto c’era qualcosa che non andava, era un altro corridoio; abbiamo portato le prove che il luogo non era quello.

Tra contraddizioni, prove dubbiose ed improperi, spicca anche l'atteggiamento ipocrita assunto dalle altre sigle sindacali durante la gestazione e svolgimento dello sciopero e di tutte le sue conseguenze.
Un esempio di come, detto con parole di Maurizio Landini, “il sindacato diventa corporativo e perde la sua natura confederale”.

Quella notte i delegati Fim, Uilm, Fismic,Ugl, non solo hanno firmato il documento, dove si condannava il preposto e di conseguenza si certificava che lo sciopero si era svolto nel pieno rispetto delle regole; successivamente hanno voluto consegnare personalmente a Marco il documento, dopo pochissimi minuti, per rassicurarlo. Riporto le testuali parole dette a Marco: “Stai tranquillo, con questo documento che abbiamo scritto vedrai che quel signore la finirà con questi atteggiamenti”. Testimoni di tale episodio anche i lavoratori che non avevano scioperato.
Poi queste sigle sindacali addirittura hanno scioperato contro la nostra sospensione per altri 3 giorni; si sono defilati solamente al quarto giorno e l'hanno anche detto pubblicamente in assemblea davanti ai cancelli. Mentre i lavoratori, avevano deciso per lo sciopero ad oltranza, loro erano d'accordo per 2 ore giornaliere.... cosa è cambiato dopo io proprio non lo so, o anzi forse lo so benissimo! Se si mettessero insieme i pezzi non sarebbe poi cosi difficile capire cosa c’è dietro. L’ho già detto e lo ripeto, il nostro è stato un licenziamento politico. Come ultima cosa vorrei aggiungere che quando dopo le testimonianze dei delegati firmatari del documento si è capito che di fatto si rimangiavano il documento stesso, tanti lavoratori non aderenti allo sciopero, che però avevano assistito alla discussione dove a maggioranza (quindi Fim, Uilm, Fismic, Ugl ) avevano deciso in alternativa allo sciopero il documento, erano pronti a dire al giudice che tale documento era stato voluto dai delegati. Ma per il giudice nemmeno questo ha avuto importanza.

Il documento firmato da tutti i sindacati la notte dello sciopero. “La Rsu rigetta tali atteggiamenti e precisa che tutto si è svolto nel pieno delle regole”, vi si legge

Sciopero, contestazione nei vostri confronti da parte dell'azienda, divieto per voi tre di entrare in fabbrica. Nove giorni dopo vi arriva il licenziamento. La Fiom fa ricorso e per il Giudice del Lavoro Emilio Minio quel provvedimento è “antisindacale, sproporzionato ed illegittimo” e vi rimette in servizio con decreto d'urgenza. Un anno dopo, un altro Giudice, Amerigo Palma, accoglie il ricorso di Fiat e vi licenzia nuovamente. Cos'è cambiato in un anno che abbia permesso il ribaltamento cosí clamoroso della prima sentenza?

Io chiedo solo una cosa, che emerga la verità e quindi la giustizia Noi non cerchiamo il tifo... con tutte le prove che i lettori hanno avuto modo di conoscere finora ci sarebbe da fare arrossire la nazione dei potenti dalla vergogna. Prove che però al giudice Palma non sono bastate. Ma dopo aver preso visione di queste prove, secondo me nessuna persona a cui sta a cuore la verità dovrebbe avere dei dubbi sul significato del nostro licenziamento. Che si tratti di una misura politica credo che soprattutto ne fossero convinti i lavoratori della Fiat di Melfi che immediatamente e liberamente hanno scioperato ininterrottamente per sette giorni. Se si pensa a quanti soldi hanno perso e all'isolamento (voluto dalla fabbrica!) che vive il lavoratore italiano, credo che si possano definire questi... gesti di altri tempi. Mi chiedi cosa è cambiato nell'ultimo anno tanto da ribaltare la sentenza? Io sono un operaio, non posso permettermi di giudicare un giudice, io la legge la devo rispettare, anche se io sono sicurissimo che noi non abbiamo fatto assolutamente nulla e quindi il giudice secondo me ha sbagliato.
Posso dirti però due cose a tale proposito: la prima è che io non mi arrenderò mai a questo sbaglio. La seconda è che se noi oggi siamo siamo licenziati per qualcosa di diverso da quello che ci veniva contestato dalla Fiat un anno fa, questo a me, semplice operaio, non sembra normale, mi sembra una contraddizione.

Allora a questo punto provo ad esporti le mie sensazioni sul ribaltamento della sentenza, dettate dalla lettura delle motivazioni, che anche a me, da “semplice cittadina” -come dici spesso tu-, appaiono a tratti incoerenti. Personalmente ci vedo un Giudice forse troppo giovane per una causa molto emblematica. Ci vedo l'umano timore di rischiare di bruciarsi di fronte allo strapotere di Fiat. Ti sei sempre messo in gioco molto, hai parlato sempre chiaro e quindi a bruciapelo ti chiedo: tu questo giudice, come lo vedi?

Come ti ho detto dal primo momento, sono solo un operaio e cittadino e come tale devo rispettare la legge e quindi la magistratura, ma rispettare non significa che noi rinunceremo a combattere con tutte le nostre forze in tutte le sedi opportune, perchè siamo certissimi di aver subito un'ingiustizia colossale e lo dimostreremo, ne sono sicuro, nonostante lo strapotere economico e mediatico dei potenti. Non so davvero perché il Giudice non abbia accettato le nostre prove, è quello che stiamo cercando di capire. Grazie al cielo la verità è una sola, che a me pare addirittura fin troppo lampante. Ma vado oltre, e dico anche sempre che nessuno ha la verità in tasca e di conseguenza tantomeno io. Se si vuole capire realmente cosa succede nel mondo del lavoro basta fare una semplice e ''banale'' inchiesta... non capisco (o forse capisco troppo!) perchè non si fa, dico... se tutto fila liscio nel mondo del lavoro e quindi nelle fabbriche, non dovrebbero esserne felici tutti a far emergere la verità e a mettere a tacere questi sindacalisti del '900 come me? Allora perchè non lo fanno ? Mi sorge un dubbio: è meglio per chi gestisce ''quasi tutto” far rimanere le condizioni di questo mondo nel silenzio e quindi nell'ignoranza?

A proposito delle “condizioni di questo mondo”, veniamo alle condizioni di salute degli operai. Un mio amico  che lavorò per Fiat a Torino mi ha raccontato che "in fabbrica si sopravvive o con medicinali, o con droghe, o con tiramisù di vario tipo". Dice che per dormire doveva prendere il Tavor. Che per ottenere un lieve miglioramento del “sistema nazista per i turni” bisognava "essere dei loro, dentro il sistema" e "non frequentare cattive compagnie". Questo accadeva alla fine degli anni '70. La Fiom oggi denuncia che oltre la metà dei lavoratori di Melfi ha “ridotte capacità lavorative”, un vero bollettino di guerra. Tu dici che in 9 anni hai fatto solo 5 giorni di malattia. Si strumentalizza la malattia in fabbrica?

Io quando parlo della mia situazione sulla malattia -quindi solo 5 giorni- ti invito a prendere in considerazione prima di tutto che sono stato fortunato. La salute in quegli anni in fabbrica non mi ha abbandonato nonostante anch'io, come tutti gli esseri umani abbia qualche problema di salute. Poi si deve tener presente che io, proprio per il ruolo sindacale che svolgevo, avevo la possibilità di staccare la spina da quei ritmi infernali circa 2 ore al giorno mediamente (nessuno può immaginare l'importanza di questo stacco). Infine aggiungo che per il rispetto che io penso di aver portato ai lavoratori e di conseguenza all'azienda (ho cercato il più possibile di ricambiare questa fortuna) a volte, anche se non proprio fisicamente a posto e proprio perchè di problemi in fabbrica ce ne sono tanti , andavo comunque al lavoro. La passione e l'orgoglio di poter fare (anche) il sindacalista e la fiducia che da sempre i miei compagni di lavoro mi hanno dimostrato ha permesso tale miracolo. Sembrerà strano in questo mondo, ma io mi sentivo veramente onorato dal poter rappresentare i miei compagni di lavoro. Questa precisazione era dovuta, non vorrei si pensasse che chi magari suo malgrado è stato costretto a fare qualche giorno in più di malattia, sia considerato lavativo, sarebbe una bestemmia tale considerazione.

Mi chiedi come si strumentalizza una malattia ? Nella maggior parte dei casi succede che tanti lavoratori RCL (cioè con “ridotte capacità lavorative”) vengono posizionati proprio in postazioni dove accusano problemi nello svolgere quel ciclo di lavoro. Tali spostamenti di mansione, tante volte per giunta non trovano neppure un'apparente giustificazione e nonostante i lavoratori lo facciano presente a tutti e in ogni occasione, consegnando anche certificazioni Asl, nella stragrande maggioranza non ricevono nessuna risposta in merito e continuano a lavorare con dolori, assumendo farmaci, antinfiammatori, etc...
Tante volte ho visto persone in carne e ossa piangere perchè i dolori che accusavano non permettevano loro di lavorare con dignità; tante volte finivano anche in ospedale, ma quando si ritornava nello stabilimento, la tua postazione rimaneva la stessa, anzi , doveva rimanere la stessa.
Ci tengo a ricordare che per tanti capi chi è ''limitato'', cioè RCL, può essere un potenziale lavativo, quindi un potenziale bugiardo, che di conseguenza vuol lavorare meno e che proprio per questo costringe il lavoratore''integro'', senza malanni fisici, a lavorare di più. Si chiama guerra dei poveri, ti lascio immaginare le allusioni che fanno i capi nelle loro Ute, quando devono discriminare e strumentalizzare queste malattie, non ti dico se addirittura qualcuno sta male a ridosso di una festività...li è scontato che voglia fare il ponte.
Alla fine quasi passa l'idea capettiana che stare male in realtà è un'arte dell'operaio per stare a casa in malattia e quindi non lavorare . E' allucinante.

Sul non riuscire a dormire.... si, ti assicuro che tantissimi lavoratori e soprattutto lavoratrici hanno il problema che non riescono a prendere sonno e per farlo assumono dei farmaci. Per me fortunatamente non è cosí ma temo che il tuo amico abbia ragione perchè un altro compagno ha seguito un convegno sul tema droga e alcol e conferma quanto dice il tuo amico.

Dalla malattia alla produttività; vi potrebbe essere relazione.
“Fabbrica Italia” secondo Marchionne doveva essere “il più straordinario piano industriale che il Paese abbia mai avuto”; doveva servire a superare la crisi e a riorganizzare la produzione per aumentarla. Il progetto è rimasto una vuota dichiarazione di intenzioni.
Perché, secondo te, la produttività della fabbrica italiana è cosí bassa? Sei al corrente, come sindacalista, di quali sono le strategie di Fiat sul mercato globale? Il sindacato interviene in qualche modo in questo ambito?

Anche sulla produttività non si dice -volutamente- la verità. Infatti a Melfi per esempio la produttività è simile, se non addirittura superiore a quella degli stabilimenti polacchi e brasiliani (75 vetture pro càpite). Ma sembra quasi che tale notizia debba rimanere nascosta, non vogliono che i cittadini debbano saperlo e non penso di dovere spiegare io il perchè. Il problema è semmai che non ci sono modelli nuovi. A Melfi per esempio, per non parlare di altri stabilimenti Italiani, si produce praticamente la stessa vettura da 7 anni! La strategia Fiat ? Io penso che solo chi ha deciso di far finta di non capire... appunto fa finta di non capire, perchè anche i bambini capiscono che la Fiat vuole andarsene dall'Italia. Infatti solo ad Obama è stato presentato da parte di Fiat un piano industriale (vedi auto elettrica) e l'azienda l'ha fatto solamente perchè il presidente lo ha preteso, visto i finanziamenti che ha dato. E' incredibile pensare che negli Stati Uniti produrrano auto a zero emissioni e nuovi modelli, invece noi in Italia dovremo produrre suv! Dovremo cioè produrre auto che negli Stati Uniti non vogliono più e sopratutto auto inquinanti con costi e consumi allucinanti e non più sostenibili, aggravati ancora di più da questa crisi ! Ma sono io che non capisco nulla ? Oppure qualcuno mente, sapendo di mentire?

Come può intervenire il sindacato in questo? Secondo me si può competere in due modi, o sulla ricerca e innovazione, (come hanno fatto tantissime case anche molto vicino a noi) oppure sulla manodopera, ma su questo terreno (anche se dico una cosa banale ) nel mondo ci sarà sempre qualcun'altro disperato disposto a lavorare per molto meno e nonostante a qualcuno possa sembrare più facile, se si sceglie questa strada è una strada perdente. E non lo dico io, ma i risultati di quelle fabbriche che hanno investito nella ricerca, infatti mentre loro chiedono straordinario a loro dipendenti, la FIAT chiede la cassa integrazione per i suoi.
Se non sbaglio, fino a poco tempo fa in tanti anche tra gli alti dirigenti Fiat, pensavano che bisognasse investire nella ricerca, anche perchè loro dicevano che il costo del lavoro incideva solo del 6-7%, quindi non in modo eccessivo. Cosa sia cambiato ora è sotto gli occhi di chiunque ha voglia di vedere.

A questo punto è d'obbligo dare uno sguardo alla politica, che finora non abbiamo tirato in ballo apertamente ma che sappiamo dovrebbe avere un ruolo fondamentale nella concezione di un piano industriale che finalmente riporti il Paese alla crescita. Come si giudica in fabbrica la situazione politica? Il Pd, diviso sulla questione Fiat, ha però sostanzialmente appoggiato Marchionne (l'hanno fatto Chiamparino, Fassino, Veltroni; in maniera piu' pacata e distaccata Bersani. L'unica voce fuori dal coro, il responsabile di Economia e Lavoro del Pd, Stefano Fassina); la sinistra si e' schierata con la Fiom ma non esiste al momento una copertura parlamentare e nemmeno in generale politica del mondo del lavoro.
Che la sinistra sia cosí divisa significa che il lavoro ne pagherà sempre lo scotto?Potrebbe iniziare a diventare forte la necessita' di un partito del lavoro, per "proteggerlo"? Se sí, dovrebbe il sindacato ed in particolare la Fiom giocare questa partita? Perché Fiom ha, innegabilmente, un programma molto “politico”, sensibile per esempio alla questione femminile nel mondo, al razzismo, alla guerra, alla globalizzazione...tutto ciò va ben oltre i puri accordi sindacali. Eppure Fiom esita a prestare la sua immagine, il suo carisma, la sua forza ad un progetto piu' ampio. E persone come te potrebbero dare molto anche a un progetto politico.

Come vive la fabbrica la situazione politica ? Tantissimi sono convinti che questo governo ha esaurito il niente che aveva da dare (Giovanni si riferisce al Governo Berlusconi, ancora in carica quando affrontammo questo argomento, n.d.r.). Mi spiego meglio: all'inizio, purtroppo per noi, riuscivano con tutto il potere mediatico in loro possesso a far credere anche ad alcuni lavoratori che queste riforme erano necessarie per il bene di tutti, soprattutto di chi lavora; ma oggi, questa assenza di una vera politica industriale i lavoratori la vivono drammaticamente e da anni sulla propria pelle, con riduzione consistente di salario dovuta alla cig sempre in aumento, da riduzioni di personale e dai continui peggioramenti delle condizioni di lavoro e non solo. Ci sono dei lavoratori e purtroppo delle lavoratrici che mi raccontano delle storie allucinanti, storie brutte che riportano alla mente cose di 70 anni fa e io girando per l'Italia mi accorgo sempre di più che ormai siamo un paese povero e non solo economicamente.

Mi chiedi di un PD diviso e che addirittura massimi esponenti dello stesso si siano schierati con Marchionne? Qui per me è fin troppo facile risponderti, anche se te lo dico sul serio, purtroppo lo faccio a malincuore, perchè nonostante io non sia del PD penso che se avessimo avuto una opposizione forte, decisa, adesso non ci troveremmo nel baratro in cui siamo e questa debolezza dell'opposizione non è un bene per il mondo del lavoro. La maggior parte dei lavoratori attenti condannano proprio questo, infatti dicono che sulle questioni importanti non vedono una grande differenza fra PD e PDL, anzi aggiungono che se cade questo governo, il PD sicuramente non cancellerà le '''riforme''' fatte dal PDL, proprio perche non sono mai chiari netti sulle vicende che toccano il popolo. Come vuoi che un lavoratore si fidi di Fassino, Chiamparino et company, se questi non riescono a dire nemmeno che sono... contro Marchionne ! Sarebbe troppo per loro, visto che sono amici, ma almeno potrebbero sforzarsi di dire che sono contro, o magari semplicemente non favorevoli a chi non rispetta le leggi e la Costituzione Italiana e la tanto decantata DEMOCRAZIA, visto che permettono al padrone – sí, al Padrone! Con la maiuscola!- che nelle fabbriche possa succedere di tutto, che possa addirittura succedere di non poter nemmeno votare da chi farsi rappresentare. Io lo considero allucinante e considero i politici come questi sicuramente non di sinistra. Come me ti assicuro la pensano in tantissimi e questo comunque non è un bene, essendo il PD il maggior partito di ''opposizione''.
Voglio solo ricordare che la Fiom ha detto che non firma ciò che va contro i diritti dei lavoratori previsti dalle leggi e dalla Costituzione, ma sul resto era pronta a discutere, a me non sembra da estremisti dire questo, semmai il contrario.

La vera sinistra -purtroppo non parlamentare- è con la Fiom, ma anche loro secondo me devono dare ancora di più e sopratutto non commettere mai più gli sbagli che ancora e soprattutto oggi noi paghiamo. Chi dice di voler rappresentare il mondo del lavoro, deve essere consapevole di assumersi una enorme responsabilità, a volte rinunciando anche a pezzi della propria vita, come ci rinuncia chi vota la sinistra vera. Noi operai che votiamo quella sinistra sappiamo già che qualsiasi privilegio ci sarà tolto, anzi, subiremo anche tante piccole e grandi angherie (io, ma tanti altri siamo degli esempi) e quindi vorremmo rispetto da parte della politica di sinistra, pretendiamo che mettano il massimo impegno per battersi per quello che devono rappresentare.
Questa crisi secondo me ha dato alla sinistra un'altra enorme occasione; devono fare tesoro degli sbagli passati, stando nei territori, davanti le fabbriche, ascoltando la base, decidendo con la base e per la base.

Non so se serve un partito dei lavoratori, magari sí, basta che ciò non provochi un'altra scissione e quindi un altro piccolo partito ininfluente, che questo proprio non ci serve. Io penso che a noi servano veri compagni, o solamente veri politici, che sul serio vogliano rappresentare il mondo del lavoro; io non pretendo come diceva
Sabattini che chi ci deve rappresentare ci ami (sarebbe troppo bello!) mi accontento che ci rispettino.

La Fiom deve continuare ad essere un sindacato, secondo me, perchè è l'unica àncora di salvezza dentro le fabbriche. Ciò non toglie che debba dire la sua con forza sui temi importanti di cui parlavi e collaborare sempre di più con i giovani, la scuola, i movimenti, i partiti politici etc. Un giorno tutti queste persone saranno lavoratori! Se vedi me in politica, qui mi metti un po' in imbarazzo...pero voglio risponderti cosí: persone come me ce ne sono tante, anzi anche meglio, perchè più preparate in quanto hanno anche studiato. Penso che siano i partiti di sinistra ad avere bisogno di persone cosi, ma per far sí che questo possa succedere devono finire gli egoismi; un vero progetto politico di sinistra deve essere il più semplice possibile, comprensibile, deve avere un linguaggio chiaro e comune, come lo sono tutti coloro che la vita la vivono quotidianamente, drammaticamente e realmente. Ecco, queste oneste persone possono dare tanto alla politica.

La politica senz'altro avrebbe potuto fare molto per evitare che la situazione del mondo del lavoro, con la sua vertiginosa perdita di diritti, sfociasse anche in una rottura sindacale in fabbrica. Come hanno vissuto i lavoratori questa rottura? Esistono margini per ricucirla?

I lavoratori vivono la rottura sindacale in modo traumatico, cioè sulla loro pelle, perchè è chiaro a tutti, e a noi per primi, che questa rottura non è un bene per tutto il mondo del lavoro; ma mi permetto anche di ricordare che chi ha deciso di cancellare il contratto nazionale di lavoro,votato da tutti i metalmeccanici tramite referendum nazionale, per sostituirlo con 'altro' e senza nessun voto, non è stata la Fiom. Chi permette al padrone di fatto che si possa cancellare il sindacato più grande in Italia, perchè non d'accordo con loro, che non può certo definirsi “democratico”... La colpa è sempre degli altri...ma dico...è normale che un cittadino, un lavoratore non possa votare da chi farsi rappresentare? A me hanno insegnato che la democrazia è una cosa semplice ma tremendamente seria e ognuno di noi deve metterci l'anima per difenderla. Democrazia è difendere soprattutto chi la pensa in modo diverso, democrazia è poter difendere chi è più debole, democrazia è dare voce a chi non ne ha, democrazia è libertà... Ma penso che queste cose le abbiano già dette persone molto ma molto più autorevoli di me! Aggiungo anche che sono certo che gran parte dei lavoratori stanno con le idee della Fiom, anche e nonostante la crisi, che di certo non aiuta ma da' coraggio. E queste persone sarebbero disposte ancora di più a lottare contro queste ''riforme'' se non fossero lasciate sole a lottare.

Se c'è margine di ricucitura ? Per quanto mi riguarda mi auguro di sí, perchè sarebbe un bene per la democrazia e quindi per i lavoratori, ma questa è una domanda che bisogna rivolgere agli altri e se guardo a quello che stanno facendo, penso proprio che a non volerlo siano loro purtroppo, gli altri. Quando i sindacati non trovano un accordo si va a referendum; ma un referendum vero, non sotto ricatto. E, soprattutto, devono votare tutti i lavoratori, non poche migliaia sotto il solito ricatto e permettere che queste poche migliaia decidano per quasi 2 milioni di operai. Perchè non lo fanno? Di fatto nel lavoro è passato il “super porcellum''.
Questa rottura sindacale l'hanno voluta disperatamente i padroni e il motivo per quanto mi riguarda è molto più semplice di quanto si voglia far credere: c'è un sindacato che ha accettato di essere corporativo e un'altro che invece vuole mantenere la sua autonomia e indipendenza. Faccio un esempio: quelli corporativi dicono che la rappresentanza deve essere decisa da altri, quindi delegata da dirigenti - che i lavoratori manco conoscono- ; io invece penso e ne sono certo che la rappresentanza deve essere una volontà esplicita e senza nessun compromesso per il lavoratore e cittadino. Solo cosi, anche la democrazia e quindi la libertà di ognuno viene rispettata veramente e seriamente.
Questo governo tecnico, siamo sicuri che sia tecnico? Io per mia abitudine non giudico mai prima di vedere, anche se devo dire che ascoltando i primi movimenti che si apprestano a fare non credo che andrà incontro alle esigenze dei cittadini bisognosi. Ma voglio attendere un'altro poco prima di giudicare. Una cosa però mi sento di poterla già dire da subito: i parlamentari e senatori che di volta in volta dovranno dare la fiducia a questo governo, saranno gli stessi che hanno hanno creduto che Ruby fosse realmente la nipote di Mubarak e votarono allora la fiducia?

Temo di sí, che siano gli stessi. Ma accada quel che accada, cercheremo di non perdere mai l'ironia, no? E visto che con la nipote di Mubarak tocchiamo le relazioni internazionali ti chiedo, per concludere questo dialogo, un pensiero su noi italiani all'estero. Tu hai fatto l'esperienza di emigrare, sei stato in fabbrica in Canada costretto dalle precarie condizioni economiche provocate dal terremoto in Irpinia, ma sei tornato. In parecchi nel nostro gruppo stiamo all'estero da molto e col tempo e le circostanze dell'economia globale attuale si affievoliscono per noi le possibilità concrete di tornare...

Penso che se un Paese importante come il nostro,  ''costringe'' i suoi cittadini a lasciare la propria terra, i propri cari, i suoi ricordi più belli, di fatto la colpa è di una classe politica che ha fallito. Lo dico perchè una cosa è lasciare il proprio paese per scelta, un'altra cosa lo è per necessità. Quando lo lasci per necessità, come è succeso a me, ti assicuro che è come se si spezzasse qualcosa dentro. Io quasi non mi rassegnavo a dover rinunciare alle mie piccole ma bellissime cose; a volte mi mancava  perfino il respirare la mia aria e i suoi profumi. Perchè dico questo? Perchè sono sicuro che investire nelle nostre università e quindi nei nostri cervelli - la Storia lo dimostra, siamo un popolo davvero straordinario- creerebbe tanti, ma tanti posti di lavoro. Forse non risolverebbe tutto, ma sono più che convinto che aiuterebbe veramente tanto a non far lasciare il nostro Paese a chi non vuole.
Penso che chi è costretto  lasciare il proprio paese e come se subisse una violenza.
L'unico messaggio che mi sento di dare è questo: chi ha voglia di ritornare nel suo paese non deve mai rassegnarsi all'ipocrisia di una falsa politica,anzi, deve mettere in campo tutte le sue forze per combattere e ricordarsi sempre -e lo dico senza retorica- che noi siamo veramente un bel popolo, anche se ultimamente fanno di tutto per metterci nelle condizioni di dover dimenticare di esserlo. Lottiamo tutti insieme contro chi permette che lasciare il proprio paese diventi un'obbligo quando dovrebbe invece essere una scelta propria e senza condizionamenti di altro genere.
Un saluto sincero a tutti i gli italiani all'estero.

Grazie, Giovanni.
Finito di scrivere tra la Basilicata e la Vecchia Castiglia il 4 dicembre 2011


(E un grazie speciale a Nicola Melloni, per l'Amicizia, le liti ed ogni condivisione; e poi a Zavorka, Simone Giovetti e Alessandro Volpi per essermi stati vicini. Ognuno nel suo specialissimo modo.)

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giovedì 24 febbraio 2011

ARIS ACCORNERO: UNIONIZED, NOT UNIONIZED

Nella vicenda Fiat il risultato più grave, e paradossale perché raggiunto grazie allo statuto dei lavoratori, è l’esclusione dalla fabbrica del sindacato più forte; il modello americano di cui tutti parlano anche a sproposito; l’asimmetria fra lavoratori e azienda che la Fiom non riesce ad accettare. Intervista a Aris Accornero.



Aris Accornero insegna Sociologia industriale presso l’Università di Roma "La sapienza”; insieme a Tiziano Treu e Cesare Damiano ha fondato Eli, EuropaLavoroImpresa. Ha pubblicato, tra l’altro, Era il secolo del lavoro, Il Mulino 1997; insieme a A. Orioli, L’ultimo tabù. Lavorare con meno vincoli e più responsabilità, Laterza 1999; San Precario lavora per noi, Rizzoli, 2006.


Mi sembra di capire che secondo lei il risultato di gran lunga più grave di tutta la vicenda Pomigliano-Mirafiori sia l’esclusione dalla fabbrica del sindacato più rappresentativo. E' così?


Sì è così, però prima vorrei fare una premessa su un fatto cui nessuno ha fatto più cenno ma che a me sembra utile ricordare. Esattamente tre anni fa, a gennaio del 2008, la Fiat a Pomigliano aveva fatto un grossissimo sforzo, anche economico (soprattutto legato al fatto che gli operai non lavoravano perché partecipavano a dei corsi di formazione) per introdurre il famoso World Class Manifacturing. L’azienda aveva molto reclamizzato l’operazione, se n’era parlato anche nel Sole 24 ore. Quando mi era stato chiesto un giudizio, avevo detto: "Beh, alla Toyota è un po’ diverso…”. Perché quello a cui loro puntavano era una riconquista di quegli operai a moduli di comportamento e lavorativi rivisitati, non tanto in senso professionale, ma quasi in senso morale.

Ora, quell’operazione, che consisteva in un ciclo di lezioni da cui passarono tutti, con il coinvolgimento di 266 capi, addirittura con la realizzazione di opere per l’adeguato svolgimento delle lezioni e l’introduzione di qualche piccola novità concomitante a questo grosso sforzo organizzativo-rieducativo, fu un buco terribile, cioè non ne venne fuori nulla.
Io penso che Marchionne avesse avuto qualche notizia su com’era Pomigliano, nel senso della sua anomalia industriale, però con questo suo approccio, chiamiamolo protestante, evidentemente si era convinto in qualche modo che, spiegando le cose, la gente avrebbe capito, che ci sarebbe stato un risultato.
Il fatto che non ci sia stato alcun risultato, secondo me è stato un notevole shock per Marchionne, che probabilmente già si arrovellava per capire come mai questo mondo fosse tanto diverso da quello che lui avrebbe voluto.
In realtà lui già sapeva che all’estero soluzioni tanto radicali non erano così facili da far passare: il 20% della Chrysler si era opposto al progetto di ristrutturazione nei primi mesi del 2009. Tre mesi dopo, il 25% del personale GM si era opposto alle novità da lui proposte, che però poi erano passate a maggioranza.
Insomma Marchionne si era formato quest’idea che fosse possibile curare questi casi di disordine, scarsa produttività e governabilità aziendale. Quindi io partirei dal fatto che dietro la vicenda Pomigliano-Mirafiori c’è una delusione, forse anche umana, da parte di Marchionne per il fallimento dell’opera di rieducazione avviata in quell’azienda un po’ disgraziata.
Intendiamoci, questa non è la spiegazione della svolta e tanto meno prelude a quel che poi è avvenuto. Però mi sembra importante ricordare che, con questa "cura”, era stato accordato un certo margine di affidabilità anche alle maestranze e alla situazione di Pomigliano d’Arco.

Ma come si arriva all’espulsione della Fiom?


Infatti, questa del ruolo della rappresentanza è diventata oggi la questione fondamentale, perché qui è andata a finire, in modo buffo e forse persino un po’ kafkiano, che lo Statuto dei lavoratori, rimaneggiato dopo il referendum dei radicali del ‘95, ha portato all’esclusione del sindacato più rappresentativo.

L’articolo 19 dello statuto, infatti, che era nato ex novo con la necessità di identificare i titolati a rappresentare, giustamente si poneva la domana: chi è titolato a rappresentare? E la risposta era e rimane: chi ha fatto degli accordi con l’azienda, con la controparte. Che significa che chi non fa l’accordo è tagliato fuori.
Ora, questo principio di esclusione, non voluto dall’azienda, ma indotto dall’andamento della vicenda, soprattutto dal fatto che c’è una divisione sindacale forte, come ha ricordato Gian Primo Cella sul Mulino, scassa tutto il sistema di rappresentanza e in qualche maniera sancisce la fine del sistema di rappresentanza sindacale vigente fino ad oggi in Italia.
In Europa praticamente non è possibile escludere dalle trattative un sindacato che sia esistente su basi nazionali. In Italia si è arrivati a quella legge sul pubblico impiego che esclude dalla trattativa chi non abbia almeno il 5% di un mix fra voti ed iscritti. Cosa molto coraggiosa, molto necessaria, perché la pletora di sindacatini del pubblico impiego contava fino a 30-40 soggetti, alcuni discutibili con sedi in sperduti paeselli.
Ma anche con quella legge rimaneva il fatto che nessun sindacato, anche con una rappresentanza minima, purché non simbolica, poteva essere escluso.
Qui allora compare una grossa novità nel sistema di relazioni industriali europeo e questa novità è la più ferale, la più bieca, è quella su cui rischiamo di più. Anche se è inutile scomodare le parole democrazia, costituzione, questa è una cosa enorme, incredibile.

Si è parlato molto di modello americano. Negli Stati Uniti esistono modelli di rappresentanza molto diversi da quelli in vigore in Europa. Può spiegare?


Questo ci fa entrare nei gangli di quel sistema americano di relazioni industriali con cui adesso si sta pasticciando, perché molti dicono di conoscerlo e pochi invece lo conoscono davvero.

Il primo elemento di differenziazione è che negli Stati Uniti si contratta nell’azienda. E basta. Cioè, si contratta nell’azienda grande e poi si cerca di applicare quanto si è ottenuto in tutte le altre realtà ove il sindacato è presente.
Seconda precisazione: negli Stati Uniti, il sindacato è presente nelle aziende dove i lavoratori l’hanno voluto al 50% più uno. Se un sindacato raggiunge questa quota di suffragi tra i dipendenti, esso esiste e negozia. Ma esiste e negozia da solo: non c’è, per definizione, pluralismo sindacale.
Per dire, nella categoria degli elettrici, il sindacato grosso è uno dei più di destra e l’altro, di sinistra, è uno dei più di sinistra. Ecco, in azienda uno ne entra, uno è riconosciuto, uno tratta e tratterà. E come sappiamo, tratta e tratterà tantissime cose, tra cui il welfare aziendale, che in America è fondamentale visto che, come sappiamo, il welfare nazionale è molto debole. In Italia non è così.
Per tutte queste ragioni, quando un sindacato entra in azienda, diventa di per sé potente perché intanto si negoziano varie condizioni, che noi chiameremmo "extracontrattuali”, ma che là sono considerate parte sostanziale del rapporto di lavoro e delle condizioni di trattamento. Un discorso diverso andrebbe fatto per il pubblico impiego, perché ai dipendenti pubblici vengono comunque garantite sanità e pensioni. Ma nel privato tutto si gioca sulla presenza o meno del sindacato in azienda.
Quindi quando il sindacato entra, conta e molto, e ovviamente mette le mani in questioni come le turnazioni, gli orari, i salari individuali, i salari di categoria. Infatti con l’entrata del sindacato, il costo del lavoro aumenta dal 15% al 20%. Nei fatti questo è il divario principale della struttura retributiva americana. Tant’è che in America, nelle tavole, nelle tabelle dei libri che trattano questi argomenti, la catalogazione delle aziende si fonda innanzitutto sulla distinzione tra "Unionized” o "Not Unionized”. Cioè tra imprese sindacalizzate e non sindacalizzate. E sono proprio due mondi diversi!
Infine va detto che una volta che un sindacato entra, praticamente ci sta in eterno: è molto difficile far fuori un sindacato che è stato accettato.
Tutto questo spiega perché le aziende ostacolano in ogni modo l’entrata del sindacato e anche perché l’accettazione è molto complessa e la parte giuridico-amministrativa tremenda. Il principale modo di tenere il sindacato fuori dall’azienda è che il giudice "ritagli” la parte dell’azienda dove si vota. I sindacati vorrebbero rappresentare tutti, ma c’è sempre un giudice che dice: "No, gli impiegati no!”, "No, quella è una sede troppo lontana”. Infatti gran parte della partita si gioca sulla definizione della bargaining unit, cioè dell’unità ove si contratta. Capita che giudici conservatori manipolino le bargaining unit sottraendo al voto quelle parti dell’azienda dove le maestranze sono più disposte alla sindacalizzazione, oppure includendovi quelle parti dove le maestranze sono meno disposte.
Poi, va anche detto che una volta entrato, visto che il sindacato conta, a quel punto molte aziende lo usano come punto d’appoggio nelle politiche. Cercano di usarlo, anche giustamente, chiedendogli ad esempio di convincere i lavoratori a fare degli spostamenti o altro. Insomma, il sindacato è molto dentro alla gestione dell’azienda. Talvolta, addirittura, anche se raramente, quelli che noi chiamiamo i segretari generali dei sindacati di categoria diventano perfino membri dei consigli di amministrazione. La Chrysler è una delle poche aziende che hanno visto il segretario generale del sindacato entrare nel consiglio di amministrazione.
Già qui emerge l’enormità delle differenze tra il sistema europeo e quello americano.

Quindi non esiste un contratto di categoria, un contratto nazionale...


La cosa fondamentale comunque è che il sindacato americano è un rappresentante di rapporti di lavoro aziendali. Non c’è quello che da noi per brevità si chiama "contratto”. Ci sono esclusivamente rapporti di lavoro e contratti aziendali. Nessuno negli Stati Uniti si sognerebbe di chiedere: "Cos’hanno i metalmeccanici?”, perché i metalmeccanici in quanto tali non hanno un bel niente: hanno ciò che è stato conquistato nelle fabbriche metalmeccaniche dove c’è il sindacato.

A Detroit, ad esempio, dove ci sono le tre grandi aziende automobilistiche, i sindacati, da sempre, quando arriva il momento di rinnovare il rapporto di lavoro, scelgono su quale azienda puntare, dove fare la lotta e poi presenteranno agli altri le medesime richieste.
Va detto che neanche l’Inghilterra ha il contratto nazionale di categoria: c’è una tradizione mista di accordi di tipo aziendale e di intese di categoria. Ma ciò è dovuto al fatto che là le categorie sono estremamente numerose, con spizzichi anche molto professionali, di aristocrazia operaia, che però magari, numericamente, sono risibili.
Nel mondo europeo continentale, invece, la norma sono i contratti di categoria.
In quest’assetto, gli avvantaggiati sono i paesi con maggiore unità sindacale o con meno sindacati concorrenti. Quindi il modello resta la Germania, oltre alla Svezia, eccetera. Non certo la Francia, dove i sindacati litigano dalla mattina alla sera su tutto. L’Italia è uno dei pochi paesi dove l’unità sindacale ha coperto lunghi periodi. In tutti questi paesi c’è un contratto di categoria.

Una forma di contrattazione aziendale esiste anche in Italia...


In tutta Europa ci sono ovviamente numerose aziende, i cui lavoratori dispongono del contratto nazionale e di qualcosa negoziato aziendalmente, ma si tratta sempre di una contrattazione di secondo livello, cosiddetta integrativa. E cioè: oltre alle condizioni normative e ai trattamenti che valgono per tutti, c’è qualcosa che connota il rapporto di lavoro in quella specifica azienda, e quasi sempre è qualcosa in più.

È un modo per trattenere (o per attirare) la manodopera qualificata o semplicemente per evitare turn-over troppo elevati.
Ma ci sono anche finalità produttive, quelle che il protocollo del 1993 ha ufficializzato, facendo riconoscere alla Confindustria (per la prima volta in Italia) la contrattazione di secondo livello.
Apro una parentesi: anche prima del 1993 si contrattava. Io, quando ero in commissione interna, ho contribuito a contrattare con l’azienda delle cose che altri non avevano. Per esempio, il premio di produzione, cioè quello che poi nel 1993 è diventato il fulcro della contrattazione di secondo livello. Produttività, competitività, qualità, erano questi i vari parametri per ottenere di più rispetto al contratto nazionale.
Il fatto è che quel che facevano le commissioni interne, che nel dopoguerra si occupavano ancora del pane e dei combustibili delle famiglie dei lavoratori, non era ben visto né da Confindustria né dalla Cgil.
La Cgil non voleva la contrattazione aziendale per ragioni di solidarietà generale in riferimento al contratto nazionale. Nell’ambito della Cgil fu Sergio Garavini a inventare la contrattazione aziendale come contrattazione di tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. Era una posizione molto avanzata, perché quel tipo di negoziazione si faceva nel contratto nazionale. E invece lui voleva contrattare gli orari, le pause, persino le paghe, a livello aziendale.
Chiaro che, se vogliamo valutare la vicenda di Pomigliano alla luce di questo scenario non possiamo che riconoscere che è cambiato tutto. Innanzitutto, per come è sfociata la vicenda del contratto nazionale che, da una decina d’anni, Confindustria vorrebbe alleggerire, smagrire, snellire, per contrattare più cose in azienda e meno nel paese.
Andrebbe anche spiegato che questo spostamento di baricentro verso l’azienda è motivato dall’estrema articolazione che il post-fordismo richiede alle imprese. Il post-fordismo in fondo ha portato alle imprese non meno problemi che ai lavoratori. Oggi si è diffusa una struttura organizzativa completamente diversa, più orizzontale che verticale, che fa sì che ogni azienda sia diversa dalle altre, anche per via della competizione.
Questa diversificazione porta le aziende a spingere verso un maggior numero di norme negoziate in loco rispetto a quelle che prima si negoziavano a Roma.
Questo però non giustifica la politica un po’ insana del presidente di Confindustria D’Amato, il quale ha cominciato a dire: "Basta, basta, bisogna passare ai contratti aziendali”. Questa insistenza sui contratti aziendali ha dato luogo a infuocati dibattiti, anche coi sindacati, ma soprattutto fra imprenditori, i cui interessi sono molto diversi. Brutalmente si potrebbe dire che i piccoli vogliono il contratto nazionale e i grandi no. I piccoli vogliono il contratto nazionale perché è un regime che tutela tutti perché, ad esempio, impedisce che dei lavoratori vengano pagati meno per produrre di più. Quindi è uno strumento di raccordo sistemico del mondo padronale di dimensione minore. Oltretutto, gestire un contratto aziendale richiede costi che le piccole aziende non potrebbero sopportare.
Invece le grandi aziende, forti del loro potere, spingono per andare verso contratti aziendali più nutriti e per ridurre, semplificare, le numerosissime norme nazionali alle quali sottostanno le varie categorie.
D’altronde la richiesta di una semplificazione non è così peregrina. Oggi i contratti di categoria sono più di trecento. Cioè mentre i sindacati, in questi ultimi 20-25 anni, si sono accorpati in grosse confederazioni di categoria, nessuno ha invece tentato di accorpare i contratti.
Tra l’altro, quando ero in fabbrica io, ce n’era uno molto sottile, credo fossero 80 pagine, adesso i contratti sono da trecento a cinquecento pagine in su!
Provocatoriamente da tempo dico che bisognerebbe fare un "testo unico”. Altrimenti, noi avremo trecento contratti che restano lì, con uno spostamento verso l’azienda di normative che diventano diverse da luogo a luogo.
Su questa vicenda c’è stata una trattativa con Confindustria. Nel 2008 la Cgil, la Cisl e la Uil hanno prodotto uno smilzo testo di proposta di risoluzione con cui sono andati a trattativa con la Confidustria che chiedeva appunto lo spostamento del baricentro.
I sindacati hanno posto anche lì la questione della rappresentanza, proponendo per il lavoro privato la legge che c’è per il lavoro pubblico, appunto quella del minimo del 5% come titolarità a negoziare, a rappresentare, eccetera.
In quell’occasione c’è stata però una separazione tra Cisl e Uil, da una parte, e Cgil dall’altra, sulla questione delle deroghe. La Cgil, infatti, non ha accettato la richiesta, anche perché la Fiom aveva votato all’unanimità contro questa ipotesi giusto qualche giorno prima.
Il punto dolente è stato quello. In realtà Confindustria aveva preteso e ottenuto una cosa tutto sommato non gravissima e cioè la possibilità di deroga aziendale a norme del contratto nazionale.
è da allora che c’è questa divisione. È partito tutto da lì formalmente, l’anno scorso, con i due accordi del 2009.
La questione della deroga, in realtà, è speciosa, perché tutti e tre i sindacati hanno più volte accettato delle deroghe, generalmente dietro situazioni di forza, di emergenza, di crisi, di necessità, qualche volta di investimento. Non c’è solo Marchionne che investe, anche la Zoppas, l’Electrolux e altre aziende hanno fatto investimenti chiedendo qualcosa.
La stessa Melfi è nata come una mostruosa deroga contrattuale! Si derogava su tutto. Pro tempore certo, e però...
Comunque in quella sede è diventata una questione fatale, si è inceppata la trattativa e quindi è stato fatto l’accordo separato.

Lei sostiene che la Fiom è un universo molto particolare nel sistema italiano. In che senso?


Io ho scritto e continuo a pensare che quest’organizzazione dalle lunghe tradizioni sia un caso molto particolare. Intanto nella sua struttura, perché comprende settori produttivi completamente diversi: si va dalle valvole termoioniche alla cantieristica, dall’auto all’oreficeria. Non posso dire che sia una categoria "mostro”, ma certo è più di una categoria: è un mondo. Anche per questo ha molti iscritti. Il metalmeccanico poi è un comparto competitivo, che esporta, quindi è molto importante.

In questi decenni è stato più volte suggerito: "Ma non è meglio creare qualche sindacato di settore, scorporare qualche categoria che non c’entra niente con tutte le altre?”. Evidentemente si è ritenuto più comodo mantenere lo status quo. Però, ripeto, è una categoria che unisce settori fra loro davvero lontani.
Sul piano politico, poi, è una categoria che è sempre stata abbastanza di sinistra.
Io arrivo a dire che politicamente la Fiom sembra quel che resta del partito comunista. Dico sembra perché in realtà non è affatto vero. La prima volta che ho sentito Landini e ne ho parlato in casa, ho detto: "Beh, di una cosa si può esser sicuri: che questo non conosce Marx”. Tre giorni dopo è uscito sul giornale che lui non ha mai letto Marx…
Però, ecco, hanno un’idea del conflitto di classe e dei diritti dei lavoratori molto precisa e accettano il compromesso meno di quel che, nel mestiere del sindacato, di solito si fa. In qualche modo sono poco "sindacato” perché sono poco negoziali. Loro ovviamente rispondono che sono poco negoziali perché non possono trattare quelle robe lì, non possono cedere su quei punti lì.
Loro addirittura rifiutano l’asimmetria fra capitale e lavoro (approccio che ha qualche radice nella politica della Cgil) che è quella che giustifica tutto il diritto del lavoro e molti pezzi di tante costituzioni. Per loro è un’asimmetria inaccettabile.
La conseguenza è che la Fiom, con l’impresa, vuole negoziare tutto e in parità. Il che evidentemente non è possibile. Perché nel capitalismo un’asimmetria c’è e sta proprio nel fatto che non puoi negoziare tutto. Non puoi mettere il naso su tutto quel che fa e vuole fare l’azienda.
Finisco dicendo che dietro a questa particolare linea dove la logica dell’intransigenza si coniuga con l’intransigenza della logica, io ci vedo quel "sindacato dei diritti” che fu pensato da Trentin, che è stato inteso e frainteso in modi diversi, ma uno dei modi in cui esso è stato inteso era questo. E cioè il postulato di un azzeramento dell’asimmetria. L’asimmetria c’è, la si soffre, la si denuncia tutti i giorni, ma noi non l’accettiamo. Noi vogliamo negoziare tutto. Il padrone non può fare tutto quel che vuole, dovremo discutere con lui tutto quanto.
Ripeto: questo può anche essere ritenuto normalissimo per un sindacato, ma l’enfasi che pone la Fiom su questa piattaforma operativa è tale da averla indotta a non sottoscrivere tanti accordi.
I vecchi dicono che uno, quando viene sconfitto due, tre, quattro volte, dovrebbe chiedersi: "Beh, ma com’è che m’hanno sconfitto?”. E non si può rispondere: "Erano cattivi!”.
È un po’ la vicenda della sconfitta della Cgil alla Fiat nel ’55, che io ho vissuto personalmente. Il giorno prima -io ero membro della commissione interna- eravamo andati a diffondere un volantino, l’ultimo messaggio ai compagni della Fiat. E ricordo che ci dicevamo: "Speriamo che votino bene”. Invece non votarono bene. Noi a quel punto avevamo tutte le nostre cause esplicative: il regime di fabbrica, la compressione dei diritti, il licenziamento dei dissidenti. Però poi Di Vittorio disse: "Sì, vabbé, ho capito, però”.
Intendiamoci, anche Di Vittorio era molto confuso. La sua posizione contro la contrattazione aziendale certo non aiutava la comprensione del problema. All’epoca la Fiat era un impero. Il welfare della salute a Torino non era l’Inam, l’Istituto Nazionale Assicurazione Malattie, ma la Malf, la Mutua Aziendale Lavoratori Fiat.
La condizione dei lavoratori Fiat era molto diversa da quella degli altri.
Quindi si può dire che erano molto cattivi, però il loro paternalismo aziendale era cospicuo, c’erano parecchi benefit. Io, quand’ero ragazzino, andavo a prendere la befana Fiat, come figlio di dipendenti.
Che cosa si poteva negoziare con una siffatta azienda, invece di subire come un danno i suoi regali? Che cosa chiedere all’azienda? Ecco, come diceva Garavini, bisognava ottenere la contrattazione in tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, che il sindacato all’epoca non contrattava di sicuro.
Per finire con la Fiom, la mia impressione è che non si siano chiesti a sufficienza come mai varie battaglie siano finite male.
La prima volta che me ne sono accorto è stato nel 1980 quando avevo fatto una grande inchiesta sulle propensioni dei lavoratori verso il conflitto e la partecipazione, ed era uscito che la maggioranza relativa dei lavoratori era per la cooperazione fra lavoratori e padroni. Mi saltarono addosso come se fossi un matto!
Poi, nello stesso anno ci fu la lotta dei trentacinque giorni, che fu un’altra legnata…
Da allora in poi la Fiom avrebbe dovuto fare un paio di riflessioni che non ha fatto. Mi dispiace dirlo adesso perché la Fiom, poveretta, è sotto tiro e però…

Tornando a quella che lei definisce come la novità più grave e dirompente, quella dell’esclusione di un sindacato, cosa succede adesso? C’è chi dice che la Confindustria ne esce altrettanto male del sindacato…


Allora, quella è la cosa più inaccettabile perché non esiste in Europa. è una assoluta novità nel sistema della rappresentanza.

La Fiat che farà? Ha fatto questa finta azienda, questa newco, forse ne farà anche altre.
Anche la Confindustria, in effetti, ne esce malissimo, perché la sua rappresentatività viene intaccata. La Confindustria non viene esclusa, rimane come lobby di riferimento, però, se si allarga questa prospettiva, e vedo che alcuni autori la danno per probabile, il suo potere contrattuale calerà drasticamente.
Allora, l’esclusione del sindacato che dissente è la cosa più grossa e più grave anche per le conseguenze a venire, ma certamente anche l’idea che varie aziende si facciano il loro contratto aziendale appiccicandosi o meno ad un eventuale contratto nazionale, che altri hanno al posto del contratto aziendale, crea un discreto marasma.
Non a caso, la Confindustria ha riunito un organo particolare per decidere su questa questione, e la pronuncia è stata di grandissima cautela perché io penso che più di metà degli imprenditori non voglia questo. E non lo vuole perché pensa che ne verranno guai.
Un funzionamento efficiente del sistema produttivo prevede infatti un minimo di cooperazione fra le parti. Quando il sindacato firma il contratto di lavoro è una cosa anche liberatoria per le relazioni reciproche: "Meno male che c’è ‘sto contratto di lavoro, così per tre o quattro anni stiamo tranquilli”.
Se invece cominciano ad esserci dei buchi perché uno non ha il contratto nazionale, un altro ha un contratto aziendal-settoriale, un altro ancora ha fatto una società nuova, beh, insomma, si profila un bel pasticcio!
Davvero ci si deve augurare che quel che fa la Fiat non lo facciano anche gli altri.

Ma secondo lei l’esclusione della Fiom è stata premeditata o è stata la conseguenza di un concatenamento di eventi?


Quando uno fa un calcolo sulle prospettive formula una serie di ipotesi: "Se succede questo…”. Beh, io credo che l’opzione "se succede che la Fiom non firmi”, l’abbiano tenuta ben presente.

Ma il punto è che loro volevano la governabilità e Pomigliano non è un modello di governabilità, da tanto tempo. Non è neanche colpa della Fiat in senso stretto. Basterebbe citare i casi clamorosi: magari poi lavoravano anche se il giorno prima erano andati tutti alla partita, però certo fa impressione; così come fa impressione che siano andati tutti a far gli scrutatori. Sono cose che quando uno le viene a sapere, s’arrende e dice: "Vabbé”. Il concetto di governabilità dell’azienda comunque è tutt’altro che banale.
La governabilità dell’impresa è ciò che ha mandato in crisi il fordismo perché l’azienda rigida, mastodontica, goffa, anche lenta, del fordismo avanzato, di fronte ad un mercato molto più spicciolo, non era più governabile. è stata la rigidità a far cadere il fordismo. Il post-fordismo infatti si è affermato con la flessibilità. Quando Marchionne chiede la governabilità dell’impresa, quello che vuole è un’impresa ultra flessibile, sistemicamente flessibile -non flessibile all’occasione.
è questa macro flessibilità il problema. Dieci anni fa la flessibilità era quella dei tempi di lavoro, oggi un’intera fabbrica si deve poter fermare, ripartire, lavorare di più, lavorare di meno. Questa maxi flessibilità oggi è forse l’ultimo spunto perché non si può tirare il collo ai lavoratori e alle cose più di così, in nome della personalizzazione del prodotto, del produrre per ogni singolo consumatore.
Forse l’intera vicenda Fiat-Marchionne alla fine è la prova di una perdita di peso del lavoro immane, veramente immane. E noi non siamo abituati. In Europa una cosa così non si era mai vista. Altrove c’erano state situazioni analoghe, ma le cose erano state gestite meglio.
Nel nostro Paese, soprattutto per colpa del Governo, la situazione, invece, si è proprio svaccata, se posso dir così. In assenza di un intermediario politico, l’economia ha espulso da sé tutti i corpi estranei, con il risultato che il big management ha contato più del big government. è questa la grande novità. L’Italia, poi, è un caso penoso per via del suo big governant, però la tendenza è quella. E se vince il big management, il lavoro ci rimette. Punto. 

(Una Citta', Febbraio 2011)