venerdì 6 aprile 2012

Sarajevo: venti anni dall’assedio.
Dal 1992 al 2012, passando per il 2002.
Di Simone Rossi


6 aprile 2012 - Venti anni fa iniziava l'assedio alla capitale bosniaca, Sarajevo. Per quasi quattro anni i cittadini sarajevesi vissero in uno stato di guerra, sotto il tiro dei cecchini e dell'artiglieria delle truppe della neonata Repubblica Serba di Bosnia, nel contesto della guerra civile scoppiata conseguentemente alla secessione della repubblica bosniaca dalla federazione jugoslava. Durante oltre quaranta mesi pressoché ogni sera assistemmo ad immagini di corpi straziati, di persone cadute sotto i colpi dei franchi tiratori su quello che fu ribattezzato il Viale dei Cecchini, di stragi come quelle al mercato. Il conto dell'assedio fu di circa undicimila morti ed oltre cinquantamila tra invalidi e feriti. a cui andrebbero aggiunte le altre decine di migliaia di morti nel resto della Bosnia, vittime non solo dei disegni dei nazionalismi croato e serbo ma anche dell'indifferenza dei governi occidentali, ottimi a versare lacrime di coccodrillo.

In occasione del decimo anniversario, alcune organizzazioni non governative europee, in maggioranza italiane, allestirono un'iniziativa di alcuni giorni sulla cooperazione nei Balcani e sul processo di integrazione europeo di questa regione che culminò con una lunga catena umana nel quartiere del mercato. Tra i partecipanti c'ero anche io, interessato alle vicende di quelle terre ed alla cooperazione allo sviluppo. Nonostante fossero trascorsi sei anni dal ritorno alla pace, molti edifici portavano ancora i segni dei bombardamenti dell'artiglieria. Segni che si potevano osservare anche alcuni edifici importanti come il Teatro Nazionale, il Parlamento o l'hotel Holiday Inn, eredità delle Olimpiadi del 1984. Tuttavia la cicatrice più grossa ed inquietante fu quella che ebbi modo di vedere inoltrandomi verso le periferie. Là dove erano parchi pubblici si trovavano dei cimiteri improvvisati durante e dopo l'assedio, il cui bianco delle croci e dei cippi era visibile da una notevole distanza. Anche nei pressi delle strutture costruite per i Giochi Invernali, su un crinale, si poteva vedere una distesa di tombe. Inquietante, tanto da togliere la voglia di parlare a tutta la mia comitiva.
Passeggiando per le strade del centro si poteva pensare che le cicatrici erano un ricordo ed un monito in un Paese avviato verso la ricostruzione e la riconciliazione. Le vie pedonali erano frequentate da parecchi giovani per lo più vestiti come i loro coetanei del resto d'Europa, con poche donne a capo velato, unico segno identitario visibile delle differenze religiose ed etniche che erano servite a giustificate la violenza e l'odio. Una pacifica convivenza confermata dalla presenza dei luoghi di culto delle tre principali confessioni della Bosnia e sigillata dal premio Oscar assegnato pochi giorni prima al film No Man's Land di Danis Tanovic.
A questo quadro incoraggiante all'ottimismo si contrappose ciò che ebbi modo di apprendere in una serie di incontri con ONG ed esponenti politici locali. Gli accordi siglati a Dayton (USA) nel 1995 sotto l'egida del presidente Clinton, che prevedevano la creazione di una nuova entitá confederale, composta dalla Repubblica Serba e dalla Federazione Croato-Musulmana, a sua volta suddivisa in cantoni, avevano creato i presupposti per l’immobilismo istituzionale, con le istituzioni centrali prese in ostaggio dai particolarismi e dai potentati locali, il cui potere finisce per prevalere.Una polpetta avvelenata frutto della mala coscienza e della debolezza delle cancellerie occidentali, poco interessate a questa regione tutto sommato non strategica dal punto di vista delle risorse e della geopolitica. I nazionalismi contrapposti, unico strumento di consenso per partiti politici incapaci di proporre una via per la rinascita dell, ognuno con le proprie roccaforti elettorali, impedivano l’attuazione di riforme e di piani di ristrutturazione necessari alla ricostruzione della Bosnia ed al suo inserimento nel quadro economico e politico europeo di quegli anni. Molte aree dipendevano economicamente ancora dalla presenza delle truppe e delle organizzazioni internazionali, mentre il tessuto industriale e le infrastrutture rovinati dalla guerra faticavano ad essere recuperati. Allora il tasso di disoccupazione era tra i più elevati del continente e una larga parte della popolazione viveva con salari al di sotto della media europea.

Oggi si ricordano i venti anni dall’inizio dell’assedio, con immagini dell’epoca e diari di cronisti che raccontarono la guerra. Purtroppo, nell’esercizio della memoria, poca attenzione è dedicata agli effetti di quel lustro di guerra, delle proliferazione della criminalità ed all’abbandono progressivo in cui la Bosnia da parte della “comunità internazionale”. Auspichiamo che, nel ricordare il trennennale dell’assedio, i sarajevesi ed i bosniaci non abbiano a rammaricarsi per un altro decennio perduto.

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1 commento:

  1. Un articolo bellissimo, uno dei tanti drammi irrisolti di questa Europa "comune" e frammentatissima.

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