Di @MonicaRBedana
A Vicenza è primavera stentata, Don Gallo, e questa volta il magone, e grande, ce l’abbiamo noi.
Perchè senza la tua voce sarà infinitamente più duro far capire che l’Italia è una portaerei che va dalla Dal Molin a Sigonella, passando per Aviano. Farlo capire soprattutto a questo Governo a binario unico su cui si lancia inesorabilmente anche il TAV; a questo centrosinistra che continua a darsi delle gran pacche sui coglioni e, come ai tempi di Prodi, perde occasioni irripetibili per ascoltare la gente, i cittadini.
La piazza di Vicenza sarà più che mai presidio permanente di scambio, di incontro, di dialogo anche grazie a te; la città dove ci si ostina a voler piantare alberi su quel cemento che ci porta inondazioni un giorno sì e l’altro pure, ad opporsi ai Colli trasformati in campi di tiro, ad essere snodo delle operazioni militari di mezzo mondo. Lo dicevi anche tu che qui non c’è crisi di appartenenza perchè apparteniamo a questo territorio da difendere come l’utopia di Galeano, venti passi alla volta che si spostano venti passi in là. E noi dietro, a passo sicuro.
Era una sera di febbraio. Ma sarà sempre primavera a Vicenza, Don Gallo.
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mercoledì 22 maggio 2013
venerdì 17 maggio 2013
TAV in odor di mafia ancora una volta
Di @MonicaRBedana
Parlare di TAV in questi giorni è come stringere tra le mani il filo spinato che delimita i cantieri. L'attenzione dell'opinione pubblica viene massicciamente spostata sulla violenza delle molotov, dei facinorosi che aggrediscono i "traditori" che lavorano alla Maddalena, delle minacce di morte sul web. Funziona così la messa alle corde mediatica di una comunità che da vent'anni tenta di far sentire pacificamente la propria voce, spiegare le proprie ragioni e chiede di essere ascoltata. Ascoltare non è certo prerogativa di questa politica né di questo Governo, frutto di un tradimento della volontà di cambiamento in cui sperava il Paese.
Non ci deve sorprendere quindi il silenzio pressochè assoluto sulla notizia che la Pato Perforazioni di Occhiobello, in provincia di Rovigo, a cui nel marzo scorso non è stata rinnovata la certificazione antimafia, da qualche giorno abbia iniziato tranquillamente i lavori nel cantiere. Un nome che si aggiunge alla lista dei meriti delle aziende che già lavorano alla TAV esibendo un curriculum di tutto rispetto di condanne per tangenti e bancarotta.
E si accelera affinchè venga confermato il patto con la Francia tra due settimane, siglato sotto pesi e misure diverse del concetto di legalità; una pratica a cui abbiamo fatto il callo, grazie alla quale gli interessi dei mafiosi sono protetti ed i diritti dei cittadini annullati.
Parlare di TAV in questi giorni è come stringere tra le mani il filo spinato che delimita i cantieri. L'attenzione dell'opinione pubblica viene massicciamente spostata sulla violenza delle molotov, dei facinorosi che aggrediscono i "traditori" che lavorano alla Maddalena, delle minacce di morte sul web. Funziona così la messa alle corde mediatica di una comunità che da vent'anni tenta di far sentire pacificamente la propria voce, spiegare le proprie ragioni e chiede di essere ascoltata. Ascoltare non è certo prerogativa di questa politica né di questo Governo, frutto di un tradimento della volontà di cambiamento in cui sperava il Paese.
Non ci deve sorprendere quindi il silenzio pressochè assoluto sulla notizia che la Pato Perforazioni di Occhiobello, in provincia di Rovigo, a cui nel marzo scorso non è stata rinnovata la certificazione antimafia, da qualche giorno abbia iniziato tranquillamente i lavori nel cantiere. Un nome che si aggiunge alla lista dei meriti delle aziende che già lavorano alla TAV esibendo un curriculum di tutto rispetto di condanne per tangenti e bancarotta.
E si accelera affinchè venga confermato il patto con la Francia tra due settimane, siglato sotto pesi e misure diverse del concetto di legalità; una pratica a cui abbiamo fatto il callo, grazie alla quale gli interessi dei mafiosi sono protetti ed i diritti dei cittadini annullati.
mercoledì 15 maggio 2013
Minimalismo PD
Di @MonicaRBedana
All'inizio fu la carta d'intenti, nella sua vastità imprecisa.
Conteneva il "pan" del centrosinistra, il “tutto”. Prefisso greco, un indizio ed un inizio di Pasok.
Poi vennero gli otto punti. Quelli cardinali erano andati smarriti in sede elettorale, ne servivano urgentemente quattro di ricambio mentre si resettava il gps. Apparecchio e apparato indicavano già la prima svolta a destra.
Ora tocca alle quattro proposte: a scuocerle ci vorrà meno che per i quattro salti in padella.
E’ una contra(ddi)zione programmatica selvaggia, che sfocia nel minimalismo perfetto; quello che credevo patrimonio esclusivo di grandi stilisti, di un Balenciaga magari, non certo di D’Alema.
L’applicazione rigorosa del menos es más, meno idee ma più confuse e ancor meglio disorganizzate. Che si raggrumano e si liquefano, gridando al miracolo ogni volta - a mo’ di sangue di San Gennaro, o di ennesima Epifania- nell’unica Idea in realtà mai partorita: il Partito.
All'inizio fu la carta d'intenti, nella sua vastità imprecisa.
Conteneva il "pan" del centrosinistra, il “tutto”. Prefisso greco, un indizio ed un inizio di Pasok.
Poi vennero gli otto punti. Quelli cardinali erano andati smarriti in sede elettorale, ne servivano urgentemente quattro di ricambio mentre si resettava il gps. Apparecchio e apparato indicavano già la prima svolta a destra.
Ora tocca alle quattro proposte: a scuocerle ci vorrà meno che per i quattro salti in padella.
E’ una contra(ddi)zione programmatica selvaggia, che sfocia nel minimalismo perfetto; quello che credevo patrimonio esclusivo di grandi stilisti, di un Balenciaga magari, non certo di D’Alema.
L’applicazione rigorosa del menos es más, meno idee ma più confuse e ancor meglio disorganizzate. Che si raggrumano e si liquefano, gridando al miracolo ogni volta - a mo’ di sangue di San Gennaro, o di ennesima Epifania- nell’unica Idea in realtà mai partorita: il Partito.
Libellés :
autore: Monica Bedana,
PD
giovedì 9 maggio 2013
Spagna, la dittatura inviolabile
di @MonicaRBedana
Ci sono ferite su cui una certa politica sparge continuamente sale per convenienza. Soprattutto quando la disoccupazione sale, le disuguaglianze si allargano e l'evidenza dell'inutilità e l'inefficacia delle misure adottate per fronteggiare la crisi non si può più occultare.
Se l'opinione pubblica torna per un po' a scannarsi sulle sponde di quelle fosse comuni in cui le vittime del franchismo ancora non trovano pace né giustizia né pietas, distoglie lo sguardo dai sepolti vivi del macello economico.
In Argentina è in corso un processo che in Spagna si attendeva da 37 anni; è sotto accusa per la prima volta nella Storia la dittatura di Franco, per genocidio e/o crimini contro l'umanità. Tre anni di istruttoria, che prometteva di continuare l'impegno che in patria il giudice Baltasar Garzón fu costretto ad abbondonare, vittima anche lui di quella morsa della politica sulla giustizia che in Italia ben conosciamo. Ieri le vittime avrebbero dovuto finalmente prestare dichiarazione al giudice per videoconferenza, dall'ambasciata argentina a Madrid, ma è arrivato lo stop del governo spagnolo: il processo viola un accordo bilaterale di estradizione e assistenza giudiziaria in materia penale. Il comunicato emesso dalla Spagna parla, come è di rito in questi casi, di "malessere" verso il modo di procedere del giudice argentino, che decide di sospendere l'interrogatorio. Per le vittime è ulteriore maltrattamento ed è bufera sul ministro di giustizia spagnolo, del cui suocero si è chiesta l'imputazione nel processo e con lui di una decina di vecchie cariche dello Stato considerate complici dei crimini della dittatura.
Con questa vicenda assistiamo con sbigottimento ad un tipo di emigrazione forzata dolorosa almeno quanto quella patita per la mancanza di lavoro: emigrare per trovare giustizia è l'ultimo tappo che salta nel sistema democratico europeo sotto la spinta delle esclusioni. E sul veto posto dal governo spagnolo aleggia non il fantasma di Franco ma il suo spirito vivo.
Garzón chiese ed ottenne da Kirchner ciò che per un decennio Menem e De la Rúa negarono alla Spagna: l'estradizione dei criminali della dittatura argentina e la riattivazione di quel processo nel loro Paese.
Ora che è il governo spagnolo a dover garantire il corso della giustizia sui crimini della dittatura di casa propria, questa viene blindata una volta di più come se fosse inviolabile, inespugnabile. E il Valle del los Caídos torna tragicamente ad essere il simbolo supremo di quella cinica pacificazione che va di moda invocare: un posto in cui si crede sia giustizia che vittime e carnefici riposino insieme.
Ci sono ferite su cui una certa politica sparge continuamente sale per convenienza. Soprattutto quando la disoccupazione sale, le disuguaglianze si allargano e l'evidenza dell'inutilità e l'inefficacia delle misure adottate per fronteggiare la crisi non si può più occultare.
Se l'opinione pubblica torna per un po' a scannarsi sulle sponde di quelle fosse comuni in cui le vittime del franchismo ancora non trovano pace né giustizia né pietas, distoglie lo sguardo dai sepolti vivi del macello economico.
In Argentina è in corso un processo che in Spagna si attendeva da 37 anni; è sotto accusa per la prima volta nella Storia la dittatura di Franco, per genocidio e/o crimini contro l'umanità. Tre anni di istruttoria, che prometteva di continuare l'impegno che in patria il giudice Baltasar Garzón fu costretto ad abbondonare, vittima anche lui di quella morsa della politica sulla giustizia che in Italia ben conosciamo. Ieri le vittime avrebbero dovuto finalmente prestare dichiarazione al giudice per videoconferenza, dall'ambasciata argentina a Madrid, ma è arrivato lo stop del governo spagnolo: il processo viola un accordo bilaterale di estradizione e assistenza giudiziaria in materia penale. Il comunicato emesso dalla Spagna parla, come è di rito in questi casi, di "malessere" verso il modo di procedere del giudice argentino, che decide di sospendere l'interrogatorio. Per le vittime è ulteriore maltrattamento ed è bufera sul ministro di giustizia spagnolo, del cui suocero si è chiesta l'imputazione nel processo e con lui di una decina di vecchie cariche dello Stato considerate complici dei crimini della dittatura.
Con questa vicenda assistiamo con sbigottimento ad un tipo di emigrazione forzata dolorosa almeno quanto quella patita per la mancanza di lavoro: emigrare per trovare giustizia è l'ultimo tappo che salta nel sistema democratico europeo sotto la spinta delle esclusioni. E sul veto posto dal governo spagnolo aleggia non il fantasma di Franco ma il suo spirito vivo.
Garzón chiese ed ottenne da Kirchner ciò che per un decennio Menem e De la Rúa negarono alla Spagna: l'estradizione dei criminali della dittatura argentina e la riattivazione di quel processo nel loro Paese.
Ora che è il governo spagnolo a dover garantire il corso della giustizia sui crimini della dittatura di casa propria, questa viene blindata una volta di più come se fosse inviolabile, inespugnabile. E il Valle del los Caídos torna tragicamente ad essere il simbolo supremo di quella cinica pacificazione che va di moda invocare: un posto in cui si crede sia giustizia che vittime e carnefici riposino insieme.
venerdì 19 aprile 2013
SEL: un ruolo nel futuro
Di @MonicaRBedana
La minuscola SEL, che le profezie volevano fagocitata dalla coalizione col PD; dileggiata perchè si dava per scontato che avrebbe rinunciato al proprio programma pur di sedere sui banchi del Parlamento; accusata dalla sinistra di aver spaccato l’unità a sinistra per buttarsi al centro (leggenda urbana pari solo a quella che vuole Bertinotti colpevole di aver fatto cadere Prodi).
Questa piccola grande SEL è l’unico barlume di sinistra che rimane in piedi.
E mi auguro sia destinata a raccogliere e rimettere insieme pazientemente i cocci di un’identità frantumata. Un’eredità pesantissima, dolorosa e appassionante perchè, comunque vada, non c’è idea di sinistra che esca dalle macerie del PD (al massimo una manciata di giovani turchi volenterosi). Non è sinistra quella che con buona parte della Prima Repubblica si afferra al potere al prezzo di perpetuare, anzi, perpetrare Berlusconi. Non lo è l’alternativa di Renzi, per il quale l’articolo 18 è tabù almeno quanto per Confidustria. Mentre la proposta di Barca poteva essere tutto, non fosse stato per quel tempismo da legge di Murphy.
SEL un programma di sinistra ce l’ha, intatto.
Una dignità di sinistra l’ha conservata e dimostrata, votando compatta Rodotà, sfilandosi con coraggio da una coalizione che non rappresenta più da un pezzo i propri votanti (e nemmeno sé stessa, in buona parte).
Ha saputo comporre col M5S l’unico dialogo minimamente fecondo di questi 54 giorni sterili di democrazia.
Ci ha regalato una donna presidente della Camera solida (come non conoscevamo dai tempi della Iotti) e capace di emozionarci pronunciando la parola “uguaglianza”.
Se il futuro appartiene ancora a chi, nonostante tutto, non si è disilluso, SEL dovrebbe pensare subito al proprio ruolo in quel futuro.
lunedì 15 aprile 2013
Il tweet che aspetto da Grillo
Di @MonicaRBedana
Non è uscita la
graduatoria dei dieci nomi votati dal M5S alle quirinarie.
Secondo Crimi,
Prodi non deve aver preso un gran numero di voti.
Fa sospettare del
contrario il fatto che ieri, 24 ore dopo il magnifico esercizio di democrazia
digitale (non sapremo mai in quanti hanno votato, né la percentuale di voti
presa dai dieci selezionati, per esempio), Grillo si sia preso la briga
domenicale di chiedere con insistenza su Twitter un retweet a chi non fosse d’accordo
con l’avere Prodi o la Bonino al Quirinale. Che equivale a dire che pure il
vertice del M5S aveva una rosa di candidati da imporre, allo stesso identico modo
dei partiti tradizionali.
Una rosa tra i cui petali c’è Grillo stesso.
O,
probabilmente, mi è sfuggita la richiesta “RT se non vuoi Beppe Grillo al
Quirinale”.
PS: Aggiornamento, Beppe decide di scendere dal treno per il Colle a poche ore dal secondo turno delle quirinarie. Quando gli dei ci vogliono punire, esaudiscono i nostri desideri.
PS: Aggiornamento, Beppe decide di scendere dal treno per il Colle a poche ore dal secondo turno delle quirinarie. Quando gli dei ci vogliono punire, esaudiscono i nostri desideri.
sabato 13 aprile 2013
Ci aspettavamo Celentano...
Di @MonicaRBedana
...e Alex del Piero nella lista delle Quirinarie del MoVimento.
E invece è spuntato fuori perfino Prodi e quella Bonino-prezzemolo rinnegata da Beppe leader fino a poche ore prima.
Una voglia di normalità sconcertante, insomma. Che dà la sensazione di uno scollamento grillino dal vertice, di crepe che si allargano e che forse non sarà più possibile tenere insieme nemmeno pigiandole dentro un autobus e portandole in gita (lontano dai famigerati lagher austriaci).
Immaginiamo che lo sconcerto di Grillo per il risultato si materializzerà nel solito travaso di bile. E magari partirà il cazziatone perchè non hanno capito nulla, perchè si sono sbagliati a votare (nonostante la forte lusinga del vedere il proprio nome nella lista dei quirinabili, casualmente e spontaneamente).
A me la lista grillina produce un certo sollievo. E' come se le istituzioni iniziassero finalmente la manovra di atterraggio dopo un giro stralunato nel cyberspazio.
...e Alex del Piero nella lista delle Quirinarie del MoVimento.
E invece è spuntato fuori perfino Prodi e quella Bonino-prezzemolo rinnegata da Beppe leader fino a poche ore prima.
Una voglia di normalità sconcertante, insomma. Che dà la sensazione di uno scollamento grillino dal vertice, di crepe che si allargano e che forse non sarà più possibile tenere insieme nemmeno pigiandole dentro un autobus e portandole in gita (lontano dai famigerati lagher austriaci).
Immaginiamo che lo sconcerto di Grillo per il risultato si materializzerà nel solito travaso di bile. E magari partirà il cazziatone perchè non hanno capito nulla, perchè si sono sbagliati a votare (nonostante la forte lusinga del vedere il proprio nome nella lista dei quirinabili, casualmente e spontaneamente).
A me la lista grillina produce un certo sollievo. E' come se le istituzioni iniziassero finalmente la manovra di atterraggio dopo un giro stralunato nel cyberspazio.
giovedì 4 aprile 2013
Congelarsi fa bene
Di MonicaRBedana
Forse in questi giorni dovremmo volgere lo sguardo con più attenzione verso il sudamerica.
Lí, lontano, dove l’avanzata della sinistra sembra essere ormai una tendenza chiara, in grado di produrre governi più stabili, più duraturi e dai quali emerge sempre un leader la cui figura esce rafforzata alla fine del mandato. Dove la politica la fanno in buona parte anche le donne, non sotto forma di caritatevole concessione, come siamo abituati a vedere dalle nostre parti, ma per larghissimo consenso popolare.
Quindi a fianco della sinistra bolivariana di Chávez (che Maduro erediterà quasi certamente) e di Correa (recentemente riconfermato) o di Morales (che con ogni probabilità si ripresenterà alle prossime elezioni), si dispiega la sinistra al femminile declinata, nelle loro diversità e peculiarità, dalla Fernández de Kirchner, la Rousseff e nell’atteso ritorno di Michelle Bachelet in Cile.
Il caso della Bachelet è paradigmatico per l’Italia, col suo centrosinistra incarnato da un PD che ha perso vertiginosamente consensi sia all’esterno che all’interno dopo le primarie, che si è alleato con SEL ma non ha saputo fare scelte più coraggiose ed agglutinare anche le proposte di Rivoluzione Civile. E con un Matteo Renzi che dal silenzio e la fedeltà è passato in 24 ore alla logorrea e la scissione quasi aperta.
Michelle Bachelet ha guidato con serietà ed efficacia per 30 mesi l’area dell’ONU dedicata alle donne. Lontano dal Cile, osservando in assoluto silenzio l’evolversi della situazione nel proprio Paese; la punta dell’iceberg che conosciamo, quelle proteste studentesche a favore dell’istruzione gratuita per tutti, duramente represse; quel sistema sanitario pubblico messo in discussione; il futuro incertissimo della classe media che porta tutto il peso delle misure fiscali.
Il programmma Bachelet per un nuovo corso politico, economico e sociale parte da un unico punto: combattere le disuguaglianze in modo profondo, con decisione e a tutti i livelli. Perché “se è vero che la crescita produce lavoro, migliora le entrate ed il dinamismo dell’economia, tale crescita non è reale se non è inclusiva, se la ricchezza che produce non arriva a tutti gli abitanti di un Paese”. Sono le parole di chi per 30 mesi ha saputo interpretare correttamente gli effetti di “una globalizzazione che non è stata beneficiosa per tutti ed ha reso più profondo il divario della disuguaglianza”.
La candidata lavorerà con un gruppo ristretto di assessori, cercando il confronto diretto coi cittadini, prendendo le distanze dall’apparato del calderone di partiti di centrosinistra che la sostiene -chiamato La Concertación - e che, secondo i sondaggi, allo stato attuale gode soltanto del 22% dei consensi . Bachelet aprirà al Partito Comunista, ammettendo senza tabù che nel suo mandato precedente alcune cose non furono fatte bene, altre non si fecero affatto e non è più tempo di riforme all’acqua di rose. Secondo l’ultimo sondaggio il 54% dei cileni è disposto a votare per lei nelle elezioni di novembre. E i candidati de La Concertación faranno delle primarie senza paletti.
Vien da pensare che se Bersani si fosse fatto un giro per il polo sud ora magari non sarebbe congelato.
lunedì 11 marzo 2013
11 marzo 2004
Di Monica Bedana
Ho vissuto un altro momento di grave emergenza sociale e democratica, in un altro Paese, a ridosso delle elezioni politiche. Era l'11 marzo del 2004 e in Spagna si votava domenica 14.
E faceva ancora freddo da cappotto pesante quella mattina di caos e angoscia di nove anni fa, quando le bombe sui treni di Madrid uccisero 191 persone e ne ferirono quasi 1900.
E dopo due giorni andammo a votare anche per coloro che non poterono farlo. A votare contro la manipolazione e le bugie. In una situazione estrema, in un Paese spaccato in due dal lutto (e che poi non si è mai più riconciliato), riflesso nell’antagonismo feroce di quasi otto anni di bipolarismo parlamentare. Un sistema che ha retto fino allo scoppio dell’attuale crisi economica.
A distanza di anni provo ancora imbarazzo nel ricordare il patetico tentativo di allora del governo Aznar di addossare l’attentato all’ ETA per far bottino alle urne con l’argomento populista per eccellenza, la lotta al terrorismo.
E’ lo stesso imbarazzo che provo ora nel vedere Bersani arrabattarsi su un programma post-elettorale che probabilmente si spinge più a sinistra solo perché gettare la palla al centro è stato deleterio per la sopravvivenza del partito, non perché si senta fino in fondo la necessità di certe riforme per il bene del Paese.
Politici sganciati dalla realtà, che non riescono a prendere coscienza di essa nemmeno quando esplode loro in faccia.
Ho vissuto un altro momento di grave emergenza sociale e democratica, in un altro Paese, a ridosso delle elezioni politiche. Era l'11 marzo del 2004 e in Spagna si votava domenica 14.
E faceva ancora freddo da cappotto pesante quella mattina di caos e angoscia di nove anni fa, quando le bombe sui treni di Madrid uccisero 191 persone e ne ferirono quasi 1900.
E dopo due giorni andammo a votare anche per coloro che non poterono farlo. A votare contro la manipolazione e le bugie. In una situazione estrema, in un Paese spaccato in due dal lutto (e che poi non si è mai più riconciliato), riflesso nell’antagonismo feroce di quasi otto anni di bipolarismo parlamentare. Un sistema che ha retto fino allo scoppio dell’attuale crisi economica.
A distanza di anni provo ancora imbarazzo nel ricordare il patetico tentativo di allora del governo Aznar di addossare l’attentato all’ ETA per far bottino alle urne con l’argomento populista per eccellenza, la lotta al terrorismo.
E’ lo stesso imbarazzo che provo ora nel vedere Bersani arrabattarsi su un programma post-elettorale che probabilmente si spinge più a sinistra solo perché gettare la palla al centro è stato deleterio per la sopravvivenza del partito, non perché si senta fino in fondo la necessità di certe riforme per il bene del Paese.
Politici sganciati dalla realtà, che non riescono a prendere coscienza di essa nemmeno quando esplode loro in faccia.
martedì 5 marzo 2013
L'asse Napoli-Venezia (che non va a fuoco)
Di Monica Bedana
Dicevo oggi ad un amico napoletano ferito a morte dall’incendio di Città della Scienza che per me è come se fosse andata a fuoco Punta della Dogana a Venezia. Con la differenza che a parlarne sarebbe il mondo intero e sarebbe già partita la gara di solidarietà internazionale per la ricostruzione. Non è questione di bellezza ed importanza del patrimonio; Venezia gode di quella rispettabilità di facciata che a Napoli si nega a priori. Lí, al sud, sono mafiosi, hanno la pattumiera in strada, rubano i Rolex ai turisti appena sbarcati dalla nave da crociera.
Al nord siamo virtuosi, invece.
Sappiamo che al nord la mafia non esiste, né la corruzione legata al potere politico che sempre più spesso dei soldi mafiosi si nutre anche al di qua del Po. Per questo forse non si parla, fuori dai confini della Serenissima (ma poco anche dentro di essi), dell'arresto del presidente della Mantovani, Piergiorgio Baita, un tipo cosí trascurabile che in Veneto ricopre 67 cariche in altrettante società che costruiscono e/o gestiscono praticamente tutti i punti nevralgici della regione, dal Mose al Consorzio Pedemontana, all’Arsenale, alla Nuova Romea, alla Veneta Sanitaria (quell’idea dilagante, cara non solo a Monti, di project financing grazie al quale anche la sanità pubblica si trasformerà in bene di lusso alla portata di pochi) ma anche l’appalto più importante dell’Expo 2015 di Milano, in collaborazione con la società siciliana Ventura, accusata di rapporti con potenti cosche messinesi.
Tangenti, milioni e milioni di euro, frode fiscale, mafia.
Ma la mafia è quella che incendia Città della Scienza, non quella che va a braccetto con la politica e gli impresari del nord, quelli che, come Baita, rischiano, investono, danno lavoro a 600 dipendenti (la Mantovani è la prima ditta del Veneto, l’11ª in Italia). Rispettabili e virtuosi, loro.
E a Venezia poi non appendiamo le mutande in strada, il filo teso tra un edificio e l’altro, come a Napoli. Anche se volessimo farlo, non abbiamo più edifici, ci siamo venduti la città intera, il patrimonio pubblico, pezzo per pezzo, ai migliori offerenti mondiali. E ancora non ci basta per finanziare il Mose e passare l’inverno coi piedi all’asciutto in piazza San Marco.
Da queste parti non abbiamo nemmeno pattumiera, perché è andata in prescrizione e l’abbiamo archiviata. Città della Scienza era un meraviglioso esempio di ciò che l’area del petrolchimico di Porto Marghera non è mai diventata. Marghera, la nostra Ilva, il nostro Casale Monferrato, la nostra Seveso , una sentenza quasi omologa alla Thyssen. Uno spettro inquietante quanto i resti carbonizzati del rogo di Napoli. L'oblio.
Stamattina un sondaggio regionale assicurava che la metà del Veneto è a favore del governissimo PD-PDL: azzeccato di sicuro, superfluo spiegare il perché. L’altro 50% tornerebbe subito alle urne, probabilmente per rafforzare il consenso massiccio espresso lo scorso 25 febbraio al M5S. Movimento che ha la possibilità di fare subito una buona legge anti-corruzione, per esempio.
Senza bisogno di incendiare ulteriormente una democrazia che sta già da tempo sui carboni ardenti.
Dicevo oggi ad un amico napoletano ferito a morte dall’incendio di Città della Scienza che per me è come se fosse andata a fuoco Punta della Dogana a Venezia. Con la differenza che a parlarne sarebbe il mondo intero e sarebbe già partita la gara di solidarietà internazionale per la ricostruzione. Non è questione di bellezza ed importanza del patrimonio; Venezia gode di quella rispettabilità di facciata che a Napoli si nega a priori. Lí, al sud, sono mafiosi, hanno la pattumiera in strada, rubano i Rolex ai turisti appena sbarcati dalla nave da crociera.
Al nord siamo virtuosi, invece.
Sappiamo che al nord la mafia non esiste, né la corruzione legata al potere politico che sempre più spesso dei soldi mafiosi si nutre anche al di qua del Po. Per questo forse non si parla, fuori dai confini della Serenissima (ma poco anche dentro di essi), dell'arresto del presidente della Mantovani, Piergiorgio Baita, un tipo cosí trascurabile che in Veneto ricopre 67 cariche in altrettante società che costruiscono e/o gestiscono praticamente tutti i punti nevralgici della regione, dal Mose al Consorzio Pedemontana, all’Arsenale, alla Nuova Romea, alla Veneta Sanitaria (quell’idea dilagante, cara non solo a Monti, di project financing grazie al quale anche la sanità pubblica si trasformerà in bene di lusso alla portata di pochi) ma anche l’appalto più importante dell’Expo 2015 di Milano, in collaborazione con la società siciliana Ventura, accusata di rapporti con potenti cosche messinesi.
Tangenti, milioni e milioni di euro, frode fiscale, mafia.
Ma la mafia è quella che incendia Città della Scienza, non quella che va a braccetto con la politica e gli impresari del nord, quelli che, come Baita, rischiano, investono, danno lavoro a 600 dipendenti (la Mantovani è la prima ditta del Veneto, l’11ª in Italia). Rispettabili e virtuosi, loro.
E a Venezia poi non appendiamo le mutande in strada, il filo teso tra un edificio e l’altro, come a Napoli. Anche se volessimo farlo, non abbiamo più edifici, ci siamo venduti la città intera, il patrimonio pubblico, pezzo per pezzo, ai migliori offerenti mondiali. E ancora non ci basta per finanziare il Mose e passare l’inverno coi piedi all’asciutto in piazza San Marco.
Da queste parti non abbiamo nemmeno pattumiera, perché è andata in prescrizione e l’abbiamo archiviata. Città della Scienza era un meraviglioso esempio di ciò che l’area del petrolchimico di Porto Marghera non è mai diventata. Marghera, la nostra Ilva, il nostro Casale Monferrato, la nostra Seveso , una sentenza quasi omologa alla Thyssen. Uno spettro inquietante quanto i resti carbonizzati del rogo di Napoli. L'oblio.
Stamattina un sondaggio regionale assicurava che la metà del Veneto è a favore del governissimo PD-PDL: azzeccato di sicuro, superfluo spiegare il perché. L’altro 50% tornerebbe subito alle urne, probabilmente per rafforzare il consenso massiccio espresso lo scorso 25 febbraio al M5S. Movimento che ha la possibilità di fare subito una buona legge anti-corruzione, per esempio.
Senza bisogno di incendiare ulteriormente una democrazia che sta già da tempo sui carboni ardenti.
@fnicodemo e @EnricoTomaselli e a tutti i napoletani. dal profondo nordest
giovedì 28 febbraio 2013
Grillo e gli Indignados, una opportunità storica
di Monica Bedana
Gli indignati, chi se ne ricorda più.
Su questo blog li abbiamo seguiti con costanza ed abbiamo assistito allo spettacolo di un
movimento ispirato e composto solo da cittadini -che dalla Spagna rimbalzò con forza nel
mondo intero- poi diluitosi nel nulla. A causa di quel desiderio di “purezza democratica” che
lo portava a non volersi infangare con la politica incapace, sorda e definitivamente “corrupta”
dei partiti. All’epoca del 15M Grillo teneva gli occhi puntati sulla Puerta del Sol e le altre piazze
spagnole.
La protesta e le proposte, un grande carico di energia rinnovatrice che avrebbe potuto, se
canalizzato in altro modo, cambiare il destino del Paese dopo Zapatero, si è evaporata senza
lasciare traccia attiva nella società che andasse oltre la vita di quartiere.
Ora il M5S, dopo la vittoria alle elezioni, ha nelle mani l’opportunità di incarnare di colpo tutto
lo spirito degli “indignados”, di catalizzarlo in quella serie di riforme urgentissime della politica
perfettamente condivisibili da tutta la sinistra di ogni dove. In nome del futuro dell’Italia, ma
anche della Spagna stessa, della Grecia derelitta e perfino degli States di “OccupyWallStreet”.
Non so se quella del rifiuto delle regole della democrazia da parte degli “indignados” fu
superbia o ingenuità; sicuramente il non “farsi partito” fu un tragico errore che consegnò il
Paese ad un PP che vinse le elezioni con uno scarto di 500mila voti sul PSOE che le aveva di
gran lunga perse. E nessuno dei due incarnava, incarna più le necessità impellenti della società
spagnola; esattamente come avviene in Italia.
Ingenuo, Grillo non è. Il Parlamento si può benissimo aprire come una scatoletta di tonno per
farcirlo poi di riforme che rilancino il Paese sulla strada dell’equità. Ma l’”iter” per farlo passa
inesorabilmente attraverso un atto di fiducia, quella che tutti i cittadini attendono, anche
quelli che non hanno votato per il M5S ma che godono degli stessi loro diritti democratici.
E il PD dell’ultima spiaggia tenga presente che minoranza di governo non deve essere sinonimo
di paralisi; il primo governo Zapatero, di minoranza, approvò una lunga serie di luminose
riforme sociali. Mentre SEL, con la sua forza dialogante, si rimetta in gioco facendo da “trait-
d’union” e moderatore di chi, al momento sa solo sbraitare. Probabilmente i n preda alla paura
di non essere all’altezza di assumere la responsabilità del cambiamento promesso.
Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete
Gli indignati, chi se ne ricorda più.
Su questo blog li abbiamo seguiti con costanza ed abbiamo assistito allo spettacolo di un
movimento ispirato e composto solo da cittadini -che dalla Spagna rimbalzò con forza nel
mondo intero- poi diluitosi nel nulla. A causa di quel desiderio di “purezza democratica” che
lo portava a non volersi infangare con la politica incapace, sorda e definitivamente “corrupta”
dei partiti. All’epoca del 15M Grillo teneva gli occhi puntati sulla Puerta del Sol e le altre piazze
spagnole.
La protesta e le proposte, un grande carico di energia rinnovatrice che avrebbe potuto, se
canalizzato in altro modo, cambiare il destino del Paese dopo Zapatero, si è evaporata senza
lasciare traccia attiva nella società che andasse oltre la vita di quartiere.
Ora il M5S, dopo la vittoria alle elezioni, ha nelle mani l’opportunità di incarnare di colpo tutto
lo spirito degli “indignados”, di catalizzarlo in quella serie di riforme urgentissime della politica
perfettamente condivisibili da tutta la sinistra di ogni dove. In nome del futuro dell’Italia, ma
anche della Spagna stessa, della Grecia derelitta e perfino degli States di “OccupyWallStreet”.
Non so se quella del rifiuto delle regole della democrazia da parte degli “indignados” fu
superbia o ingenuità; sicuramente il non “farsi partito” fu un tragico errore che consegnò il
Paese ad un PP che vinse le elezioni con uno scarto di 500mila voti sul PSOE che le aveva di
gran lunga perse. E nessuno dei due incarnava, incarna più le necessità impellenti della società
spagnola; esattamente come avviene in Italia.
Ingenuo, Grillo non è. Il Parlamento si può benissimo aprire come una scatoletta di tonno per
farcirlo poi di riforme che rilancino il Paese sulla strada dell’equità. Ma l’”iter” per farlo passa
inesorabilmente attraverso un atto di fiducia, quella che tutti i cittadini attendono, anche
quelli che non hanno votato per il M5S ma che godono degli stessi loro diritti democratici.
E il PD dell’ultima spiaggia tenga presente che minoranza di governo non deve essere sinonimo
di paralisi; il primo governo Zapatero, di minoranza, approvò una lunga serie di luminose
riforme sociali. Mentre SEL, con la sua forza dialogante, si rimetta in gioco facendo da “trait-
d’union” e moderatore di chi, al momento sa solo sbraitare. Probabilmente i n preda alla paura
di non essere all’altezza di assumere la responsabilità del cambiamento promesso.
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domenica 25 novembre 2012
Quasi nulla
25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne
Di Monica Bedana
Versión española aquí
Voi che senza noi siete quasi nulla
E noi che, di questa cosa, non ce ne ricordiamo mai abbastanza.
Che vi abbiamo portati in grembo, cresciuti, sostenuti, compresi, difesi, serviti e riveriti. E amati e perdonati. E non vi sembra mai abbastanza.
Dicono che sia fondamentalmente una questione culturale, ma non è sempre vero e comunque in Italia non esitono nemmeno statistiche affidabili che possano provarlo. Succede perfino nelle apparentemente migliori famiglie, io lo so. Quella mano che sferra il colpo l’abbiamo stretta e accarezzata ma non siamo in grado di fermarla. E troppo spesso tutto diventa troppo tardi.
Dovrebbe aiutarci la legge. Ma a cosa serve denunciare se poi non possiamo godere di mobilità geografica, andare altrove, lontano. E ci vengono negate le agevolazioni sul lavoro (se abbiamo la fortuna di averlo) , la sicurezza del poterlo conservare quando l’incubo sarà passato, o che le assenze dovute ad aggressione diano almeno diritto ad un sussidio per incapacità.
E quando il lavoro non ce l’abbiamo e dipendiamo economicamente da un aggressore, lo Stato ci dia una formazione per spezzare questa catena, ci agevoli l’accesso a una casa, ma sostenga anche le aziende che si impegnano a contrattarci per contribuire alla nostra indipendenza.
Magari le forze dell’ordine lavorassero insieme, coordinate, organizzate in unità specificamente preparate a combattere la violenza sulle donne. E la Giustizia fosse anche che le vittime godessero di difesa gratuita nei tribunali.
E si indurisse il codice penale (in altri Paesi per minacce lievi da 6 mesi ad un anno di reclusione, 5 anni se chi maltratta minaccia con armi od oggetti pericolosi, altri 5 di inabilitazione all’esercizio della patria potestà, per esempio. E la sospensione cautelare del porto d’armi).
Ma condannare duramente non basta, anzi, spesso aumenta il desiderio di violenza. Non spariranno mai i lividi sul corpo se non si curano quelli dell’anima. Riabilitare, impiegarsi a fondo per riabilitare, con programmi specifici ai condannati.
Ed educare, fin da piccoli. All’uguaglianza e contro ogni forma di violenza verso gli altri. Una materia specifica a scuola, che ci faccia crescere al riparo da mentalità arcaiche e ci liberi dai lutti.
La politica può salvare molte vite e fare ancora grandi cose se non permette che si annienti lo stato sociale in nome dei grandi interessi finanziari. Perché tutto quanto sopra è, in fondo, in buona parte questione di soldi che mancano. Ed è da tener presente più che mai oggi, giorno di primarie del centrosinistra, se a sinistra si crede ancora negli uomini e nelle donne prima che alle cose.
Impegnamoci a far scomparire dal dizionario una parola che mi perseguita nella mia lingua adottiva con una forza che mi atterra: maltratador.
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Versión española aquí
Voi che senza noi siete quasi nulla
E noi che, di questa cosa, non ce ne ricordiamo mai abbastanza.
Che vi abbiamo portati in grembo, cresciuti, sostenuti, compresi, difesi, serviti e riveriti. E amati e perdonati. E non vi sembra mai abbastanza.
Dicono che sia fondamentalmente una questione culturale, ma non è sempre vero e comunque in Italia non esitono nemmeno statistiche affidabili che possano provarlo. Succede perfino nelle apparentemente migliori famiglie, io lo so. Quella mano che sferra il colpo l’abbiamo stretta e accarezzata ma non siamo in grado di fermarla. E troppo spesso tutto diventa troppo tardi.
Dovrebbe aiutarci la legge. Ma a cosa serve denunciare se poi non possiamo godere di mobilità geografica, andare altrove, lontano. E ci vengono negate le agevolazioni sul lavoro (se abbiamo la fortuna di averlo) , la sicurezza del poterlo conservare quando l’incubo sarà passato, o che le assenze dovute ad aggressione diano almeno diritto ad un sussidio per incapacità.
E quando il lavoro non ce l’abbiamo e dipendiamo economicamente da un aggressore, lo Stato ci dia una formazione per spezzare questa catena, ci agevoli l’accesso a una casa, ma sostenga anche le aziende che si impegnano a contrattarci per contribuire alla nostra indipendenza.
Magari le forze dell’ordine lavorassero insieme, coordinate, organizzate in unità specificamente preparate a combattere la violenza sulle donne. E la Giustizia fosse anche che le vittime godessero di difesa gratuita nei tribunali.
E si indurisse il codice penale (in altri Paesi per minacce lievi da 6 mesi ad un anno di reclusione, 5 anni se chi maltratta minaccia con armi od oggetti pericolosi, altri 5 di inabilitazione all’esercizio della patria potestà, per esempio. E la sospensione cautelare del porto d’armi).
Ma condannare duramente non basta, anzi, spesso aumenta il desiderio di violenza. Non spariranno mai i lividi sul corpo se non si curano quelli dell’anima. Riabilitare, impiegarsi a fondo per riabilitare, con programmi specifici ai condannati.
Ed educare, fin da piccoli. All’uguaglianza e contro ogni forma di violenza verso gli altri. Una materia specifica a scuola, che ci faccia crescere al riparo da mentalità arcaiche e ci liberi dai lutti.
La politica può salvare molte vite e fare ancora grandi cose se non permette che si annienti lo stato sociale in nome dei grandi interessi finanziari. Perché tutto quanto sopra è, in fondo, in buona parte questione di soldi che mancano. Ed è da tener presente più che mai oggi, giorno di primarie del centrosinistra, se a sinistra si crede ancora negli uomini e nelle donne prima che alle cose.
Impegnamoci a far scomparire dal dizionario una parola che mi perseguita nella mia lingua adottiva con una forza che mi atterra: maltratador.
A mia madre
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mercoledì 14 novembre 2012
La responsabilità del #14N
Resistenza Internazionale e lo sciopero generale europeo
Di Monica Bedana
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Non se ne può più delle accuse di irresponsabilità.
Quelle che i Governi europei, pilotati dagli interessi della finanza, scaraventano addosso a sindacati e cittadini per appannare il diritto allo sciopero.
Non è il momento di scioperare, è il momento di lavorare, lo sciopero dà una cattiva immagine ai mercati e peggiorerà la situazione economica del Paese.
In realtà non esiste peggior immagine di questa: i greci che per mangiare son costretti a far la fila davanti ai neonazisti e a dimostrare di essere greci, perché se la miseria è straniera il cibo viene negato.
L’irresponsabilità è di chi affama la gente per riempire la pancia alle banche; di chi la fa ammalare e morire perché la sanità diventa un business; di chi nega l’istruzione pubblica per annientare le coscienze e giocarsi il progresso per generazioni, la modernità; di chi ci sfratta dalle case in cui ci hanno convinti che si è vissuto al di sopra delle nostre possibilità; di chi cava il sangue dalla rapa del lavoro dipendente mentre l’ingiustizia sociale, la disuguaglianza sono ferite in carne viva, l’espressione ultima e definitiva di un sistema che usa violenza ai cittadini quando dovrebbe garantirne i diritti costituzionali.
Dicono che gli scioperi non dovrebbero essere politici (come se potessero essere altra cosa).
Dico che ora più che mai devono essere tali se la politica non solo non risponde ma si fa intimamente complice dell’indecenza e spinge il Paese alla paralisi sociale. E dall’Ottocento in qua, che io sappia, non è stato ancora inventato altro che non sia lo sciopero come risposta democratica ad un sistema che nell’Ottocento ci vorrebbe riportare.
Buon 14N ad ogni coscienza.
Resistenza Internazionale seguirà l’andamento degli scioperi europei nell’arco della giornata, rimanete collegati al blog.
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lunedì 22 ottobre 2012
Galizia e Paesi Baschi: ben oltre il nazionalismo
Di Monica Bedana
Quando l'economia si risana, tutto il resto si ammala
Legge di Buchwald
Trionfo del nazionalismo e del centro destra, cosí potremmo riassumere il risultato elettorale di ieri in Spagna, che vedeva impegnate alle urne la Galizia, patria e feudo di Rajoy ed i Paesi Baschi. In Galizia i popolari ottengono la maggioranza assoluta ed il risultato elettorale rappresenta una bombola di ossigeno per la politica di tagli di Rajoy, un breve respiro alla sua politica asmatica. In realtà proprio ieri Goldman Sachs vaticinava che il peggio per la Spagna deve ancora arrivare e che per tutto il 2013 la recessione sarà durissima.
Nei Paesi Baschi l'opzione nazionalista ritorna con forza spettacolare dopo la parentesi di grande alleanza tra socialisti e popolari. Un patto coraggioso a suo tempo, che nonostante l'onesto lavoro svolto dal presidente López non è servito a conservare la logorata fiducia dei cittadini verso chi si è irrimediabilmente compromesso con l'idea europea di austerità fine a sé stessa. I socialisti di Rubalcaba, a quasi un anno dalla pesantissima sconfitta delle elezioni generali, vengono definitivamente cancellati dalla mappa politica del Paese.
Dicono molto i 21 seggi ottenuti dalla sinistra radicale basca (contro i 27 del Partito Nazionalista; insieme rappresentano quasi il 60% del voto basco ed iniziano già a "pensare come Paese"). Sul piano interno spingeranno per fare avvicinare i detenuti dell'ETA alle carceri basche ed incarneranno la scelta del dialogo politico, la fine della lotta armata e, si spera, la riconciliazione sociale che ha come prima tappa obbligatoria il chiedere e dare perdono.
Nell'ambito dell'egemonia dei Popolari in Galizia dice molto anche il successo dell'Alternativa Galiziana di Sinistra, che nasce dalla storica figura di Xosé Manuel Beiras, anch'essa sulla base del nazionalismo. Come per la colizione radicale basca, il discorso politico si fa durissimo ed loro programma è di trasportare in Parlamento le rivendicazioni delle lunghe mobilitazioni sociali dell'ultimo anno. Dicono no al protettorato che esercita il capitale finanziario sugli Stati, di cui rivendicano la sovranità politica. Con l'obiettivo di rendere di nuovo attuali tre grandi correnti dei tempi moderni: la lotta di classe, i movimenti di decolonizzazione posteriori alla Seconda Guerra Mondiale ed i movimenti civili degli anni Sessanta.
Cosí non è più nazionalismo, è quel filo che unisce questa sinistra spagnola a Siryza, al PRC, ad Izquierda Unida, e vuol mettere in moto un'altra Europa, riaccendere il motore dell'azione politica all'interno di ogni Parlamento.
I risultati delle urne danno speranza a questo progetto: la sovversione di questa sovversione della democrazia che la politica decisa nelle banche ci ha imposto.
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martedì 25 settembre 2012
Lisbona insegna
Di Monica Bedana
Il Portogallo, commissariato dalla troika da maggio del 2011, rilancia a sorpresa la propria sovranità nazionale: non c'è imposizione di barriera di contenimento del debito che tenga davanti all'esasperazione dei cittadini, che per due settimane consecutive son stati in piazza in massa a ricordare al Governo (conservatore) che il lavoro dipendente non è carne da macello.
Risultato: Passos Coelho convoca tutte le parti sociali, ma proprio tutte (sindacati, confindustria, opposizione, associazioni civili) per studiare un'alternativa all'ultima tassa destinata ad aumentare ulteriormente il carico fiscale sui lavoratori e ad alleggerirlo alle aziende. Non piaceva nemmeno agli impresari perché avrebbe indebolito ulteriormente il consumo interno, già agonizzante.
Una grande lezione di coesione nazionale in faccia all'Europa delle divisioni, le incertezze, il tutto contro tutti, la mancanza di solidarietà ed equità in ogni sua espressione.
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Il Portogallo, commissariato dalla troika da maggio del 2011, rilancia a sorpresa la propria sovranità nazionale: non c'è imposizione di barriera di contenimento del debito che tenga davanti all'esasperazione dei cittadini, che per due settimane consecutive son stati in piazza in massa a ricordare al Governo (conservatore) che il lavoro dipendente non è carne da macello.
Risultato: Passos Coelho convoca tutte le parti sociali, ma proprio tutte (sindacati, confindustria, opposizione, associazioni civili) per studiare un'alternativa all'ultima tassa destinata ad aumentare ulteriormente il carico fiscale sui lavoratori e ad alleggerirlo alle aziende. Non piaceva nemmeno agli impresari perché avrebbe indebolito ulteriormente il consumo interno, già agonizzante.
Una grande lezione di coesione nazionale in faccia all'Europa delle divisioni, le incertezze, il tutto contro tutti, la mancanza di solidarietà ed equità in ogni sua espressione.
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lunedì 17 settembre 2012
Senza diritti, senza futuro, non siamo nulla
Di Monica Bedana
A volte la vita corre più veloce del passo di una manifestazione e sabato scorso non ero a Madrid se non col cuore. Per le strade della capitale spagnola oltre un milione di persone a chiedere di potersi esprimere in un referendum contro i tagli imposti dalla liberale austerità e sul paventato salvataggio del Paese da parte dell'Unione Europea.
Non una manifestazione qualunque ma un vero summit sociale che ha riunito, compatti, i sindacati, il settore dell'educazione, dei servizi sociali in generale e, in particolare, coloro che in famiglia o nel pubblico hanno a carico persone dipendenti: i beneficiari di una delle leggi socialmente più sentite dell'epoca Zapatero, completamente cancellata dai tagli. E poi chi lavora nella sanità, nei servizi pubblici in generale e le donne, moltissme donne, motore di una corrente particolarmente attiva all'interno delle sei "maree tematiche" che strutturavano la manifestazione.
C'è poi il Portogallo appiccicato, dove un giovane meno di 48 ore fa si è dato fuoco per protesta; c'è ormai la certezza che la crisi sia una scusa per cambiare profondamente e definitivamente un modello sociale esemplare. 14mila milioni di euro di riduzione della spesa per la protezione contributiva alla disoccupazione fino al 2014 non lasciano dubbi sulla portata antisociale dei provvedimenti presi dal governo Rajoy in meno di un anno. Gli interessi sul debito pubblico spagnolo pagati sulla pelle di quell'1,7 milioni di famiglie che hanno tutti i loro membri disoccupati. E sui 5,7 milioni di disoccupati totali del Paese, secondo il sondaggio sulla popolazione attiva del 2012, 2º trimestre (EPA), ben 2,8 milioni di persone non godono di alcuna protezione pubblica.
La riforma del lavoro, per molti versi parallela a quella italiana in quanto a cancellazione dei diritti, ha reso più facile licenziare, ha emarginato i rappresentanti sindacali spalancando le porte ad uno squilibrio che ora pare incolmabile tra il lavoratore indifeso ed il potere incontrollato delle aziende. In un Paese in cui la pressione fiscale per gli imprenditori è estremamente più bassa rispetto al resto d'Europa.
Si induriscono i requisiti per l'accesso ai sussidi di disoccupazione e, al tempo stesso, si riduce drasticamente la spesa pubblica per le politiche attive dell'impiego.Il lavoratore dipendente viene stretto in una morsa che lo logora soprattutto dal punto di vista umano, facendogli credere di non avere abbastanza capacità per accedere ai diritti, riducendolo all'esclusione, alla povertà, all'emarginazione sociale e a farlo sentire finalmente colpevole della propria situazione. A ciò si oppone con forza la società spagnola: al fatto che un governo incapace di dare risposte socialmente equitative alla crisi, la scarichi sulle fasce più deboli della popolazione convincendole di aver vissuto per anni al di sopra delle proprie possibilità.
Il referendum è uno strumento di consultazione democratica di cui in Spagna non si è certo abusato: dal '76 ad oggi ne sono stati fatti solo 4 ed anche questo fatto sottolinea la straordinaria drammaticità del momento.
C'è necessità impellente di non farsi rubare la democrazia con l'inganno e di scacciare a pedate certi fantasmi della dittatura che rivivono puntualmente quando le disuguaglianze danno una mano a spingere gli estremismi. Nella Spagna di oggi non può esserci più posto per striscioni come questo, apparso durante la manifestazione di sabato.
L'appuntamento è ora a fine mese con i sindacati europei. Come già detto altre volte, l'indignazione non basta più.Occorre rimettere al più presto il lavoro al centro a livello europeo e senza smagliature. E da lí riprenderci il futuro a cui ogni essere umano ha diritto.
PS:Il titolo del post è quello dello striscione dei funzionari catalani che abbero il coraggio di sfilare sabato a Madrid dopo l'imponente manifestazione per l'indipendenza della Catalogna della scorsa settimana.
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A volte la vita corre più veloce del passo di una manifestazione e sabato scorso non ero a Madrid se non col cuore. Per le strade della capitale spagnola oltre un milione di persone a chiedere di potersi esprimere in un referendum contro i tagli imposti dalla liberale austerità e sul paventato salvataggio del Paese da parte dell'Unione Europea.
Non una manifestazione qualunque ma un vero summit sociale che ha riunito, compatti, i sindacati, il settore dell'educazione, dei servizi sociali in generale e, in particolare, coloro che in famiglia o nel pubblico hanno a carico persone dipendenti: i beneficiari di una delle leggi socialmente più sentite dell'epoca Zapatero, completamente cancellata dai tagli. E poi chi lavora nella sanità, nei servizi pubblici in generale e le donne, moltissme donne, motore di una corrente particolarmente attiva all'interno delle sei "maree tematiche" che strutturavano la manifestazione.
C'è poi il Portogallo appiccicato, dove un giovane meno di 48 ore fa si è dato fuoco per protesta; c'è ormai la certezza che la crisi sia una scusa per cambiare profondamente e definitivamente un modello sociale esemplare. 14mila milioni di euro di riduzione della spesa per la protezione contributiva alla disoccupazione fino al 2014 non lasciano dubbi sulla portata antisociale dei provvedimenti presi dal governo Rajoy in meno di un anno. Gli interessi sul debito pubblico spagnolo pagati sulla pelle di quell'1,7 milioni di famiglie che hanno tutti i loro membri disoccupati. E sui 5,7 milioni di disoccupati totali del Paese, secondo il sondaggio sulla popolazione attiva del 2012, 2º trimestre (EPA), ben 2,8 milioni di persone non godono di alcuna protezione pubblica.
La riforma del lavoro, per molti versi parallela a quella italiana in quanto a cancellazione dei diritti, ha reso più facile licenziare, ha emarginato i rappresentanti sindacali spalancando le porte ad uno squilibrio che ora pare incolmabile tra il lavoratore indifeso ed il potere incontrollato delle aziende. In un Paese in cui la pressione fiscale per gli imprenditori è estremamente più bassa rispetto al resto d'Europa.
Si induriscono i requisiti per l'accesso ai sussidi di disoccupazione e, al tempo stesso, si riduce drasticamente la spesa pubblica per le politiche attive dell'impiego.Il lavoratore dipendente viene stretto in una morsa che lo logora soprattutto dal punto di vista umano, facendogli credere di non avere abbastanza capacità per accedere ai diritti, riducendolo all'esclusione, alla povertà, all'emarginazione sociale e a farlo sentire finalmente colpevole della propria situazione. A ciò si oppone con forza la società spagnola: al fatto che un governo incapace di dare risposte socialmente equitative alla crisi, la scarichi sulle fasce più deboli della popolazione convincendole di aver vissuto per anni al di sopra delle proprie possibilità.
Il referendum è uno strumento di consultazione democratica di cui in Spagna non si è certo abusato: dal '76 ad oggi ne sono stati fatti solo 4 ed anche questo fatto sottolinea la straordinaria drammaticità del momento.
C'è necessità impellente di non farsi rubare la democrazia con l'inganno e di scacciare a pedate certi fantasmi della dittatura che rivivono puntualmente quando le disuguaglianze danno una mano a spingere gli estremismi. Nella Spagna di oggi non può esserci più posto per striscioni come questo, apparso durante la manifestazione di sabato.
L'appuntamento è ora a fine mese con i sindacati europei. Come già detto altre volte, l'indignazione non basta più.Occorre rimettere al più presto il lavoro al centro a livello europeo e senza smagliature. E da lí riprenderci il futuro a cui ogni essere umano ha diritto.
PS:Il titolo del post è quello dello striscione dei funzionari catalani che abbero il coraggio di sfilare sabato a Madrid dopo l'imponente manifestazione per l'indipendenza della Catalogna della scorsa settimana.
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lunedì 27 agosto 2012
Ho spedito un piccione viaggiatore a Bersani
Ho spedito un piccione viaggiatore a Bersani.
Mi pareva il mezzo di comunicazione più consono ad una giornata in cui anche lui, di sicuro, attendeva Beatrice. Ora temo una risposta che in parte già conosco, esci da lí comunista , che non si può fare politica se non si guarda la gente negli occhi (cit, da Bersani stesso). Ignoranza ed anacronismo che si traducono in puntuali auto-zappate sui piedi del PD e conseguente favore fatto proprio all’avversario, sfidato nel corpo a corpo quando non si ha più il fisico da un pezzo.
A Bersani ho spedito il Frasario essenziale per passare inosservati in società (cosa che alla classe politica italiana non riesce mai; la moderazione, questa sconosciuta) di Ennio Flaiano: l'autore ci rammenta che in Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti.
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lunedì 20 agosto 2012
Io sto col villano
Di Monica Bedana
Decido sempre di tenermi i mascalzoni, se questi squarciano il velo sulla nuda realtà e la lasciano suppurare dai lembi. Questa settimana mi tengo quindi Assange, e con lui Hervé Falciani. Di Assange si è detto ormai tutto, di Falciani pochi invece sanno che è forse l’unica vera patrimoniale mai applicata in Italia, Spagna, Francia ed altri otto Paesi.
Informatico dell’HSBC a Ginevra, Falciani copiò nel 2006 i dati di 130.000 clienti della banca, tutti presunti evasori fiscali. Tra questi, quasi 7000 sono italiani, parecchi i nomi illustri, da Briatore a Valentino a Bulgari. 570 milioni di euro sfuggiti al fisco italiano solo in quella banca e scoperti grazie al furto di Falciani. Perché di furto è accusato dalla Svizzera; e l’ordine di cattura internazionale che pesava su di lui divenne realtà per caso nel porto di Barcellona lo scorso 1º luglio. Fino a quel momento Falciani, cittadino monegasco con nazionalità italiana e francese, aveva potuto muoversi liberamente tra i due Paesi, che non estradano i propri cittadini. Puntare sulla Spagna, in zona Schengen, sperando che nessuno lo controllasse e ritrovarsi in manette è stata mala suerte, sfortuna, più intensamente sfiga.
Mi importano poco le presunte intenzioni di Falciani di vendere quei dati ad una banca in Libano, o di ricattare i clienti; ciò rimane da dimostrare, mentre è indubitabile che in questi anni la sua lista, messa da lui stesso a disposizione delle autorità di vari Paesi, ha squarciato per la prima volta l’opacissimo velo del segreto bancario svizzero ed ha riportato nelle casse del fisco somme di denaro che nessun accordo bilaterale potrà mai fruttare.
Ai giudici spagnoli tocca ora decidere se estradare in Svizzera l’uomo grazie al quale il presidente del Banco Santander, Emilio Botín, affezionato cliente dell’HSBC, si è visto costretto a pagare al fisco 200 milioni di euro. Sul piatto della bilancia, da un lato la magistratura svizzera che cerca un ladro villano, una banca potente umiliata ed una fetta furente di quell’1% di privilegiati che ha in mano il mondo; dall’altra, le buone intenzioni della normativa europea sulla libera circolazione dell’informazione fiscale e la legge spagnola di prevenzione del riciclaggio di denaro. Nel mezzo, un uomo solo.
Io, da persona educata, mi schiero col villano.
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Decido sempre di tenermi i mascalzoni, se questi squarciano il velo sulla nuda realtà e la lasciano suppurare dai lembi. Questa settimana mi tengo quindi Assange, e con lui Hervé Falciani. Di Assange si è detto ormai tutto, di Falciani pochi invece sanno che è forse l’unica vera patrimoniale mai applicata in Italia, Spagna, Francia ed altri otto Paesi.
Informatico dell’HSBC a Ginevra, Falciani copiò nel 2006 i dati di 130.000 clienti della banca, tutti presunti evasori fiscali. Tra questi, quasi 7000 sono italiani, parecchi i nomi illustri, da Briatore a Valentino a Bulgari. 570 milioni di euro sfuggiti al fisco italiano solo in quella banca e scoperti grazie al furto di Falciani. Perché di furto è accusato dalla Svizzera; e l’ordine di cattura internazionale che pesava su di lui divenne realtà per caso nel porto di Barcellona lo scorso 1º luglio. Fino a quel momento Falciani, cittadino monegasco con nazionalità italiana e francese, aveva potuto muoversi liberamente tra i due Paesi, che non estradano i propri cittadini. Puntare sulla Spagna, in zona Schengen, sperando che nessuno lo controllasse e ritrovarsi in manette è stata mala suerte, sfortuna, più intensamente sfiga.
Mi importano poco le presunte intenzioni di Falciani di vendere quei dati ad una banca in Libano, o di ricattare i clienti; ciò rimane da dimostrare, mentre è indubitabile che in questi anni la sua lista, messa da lui stesso a disposizione delle autorità di vari Paesi, ha squarciato per la prima volta l’opacissimo velo del segreto bancario svizzero ed ha riportato nelle casse del fisco somme di denaro che nessun accordo bilaterale potrà mai fruttare.
Ai giudici spagnoli tocca ora decidere se estradare in Svizzera l’uomo grazie al quale il presidente del Banco Santander, Emilio Botín, affezionato cliente dell’HSBC, si è visto costretto a pagare al fisco 200 milioni di euro. Sul piatto della bilancia, da un lato la magistratura svizzera che cerca un ladro villano, una banca potente umiliata ed una fetta furente di quell’1% di privilegiati che ha in mano il mondo; dall’altra, le buone intenzioni della normativa europea sulla libera circolazione dell’informazione fiscale e la legge spagnola di prevenzione del riciclaggio di denaro. Nel mezzo, un uomo solo.
Io, da persona educata, mi schiero col villano.
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venerdì 20 luglio 2012
La foto che vorremmo vedere in Val di Susa, per esempio
Di Monica Bedana
Madrid, ieri sera, l'immensa protesta di cittadini e di tutti i sindacati uniti, unitissimi contro il Governo di Rajoy ed il governo-ombra della troika, che porteranno il Paese ad essere una nuova Argentina (nel migliore dei casi) o una seconda Grecia.
Appare un gruppetto sparutissimo di poliziotti e sfila con lo striscione "siamo la polizia del popolo, non dei politici". Hanno il coraggio di dire che non dovrebbe essere la povera gente (in senso letterale; tagli per 65.000 milioni di euro approvati ieri, l'IVA sul materiale scolastico che passa dal 4% al 21%, una matita sarà un bene di lusso, guai a rosicchiarla) il bersaglio delle manganellate.
Nel frattempo, le mogli dei minatori costrette a denudarsi per passare i controlli per entrare in Parlamento, quell'Istituzione aperta a tutti i cittadini perché noi ne abbiamo scelto i rappresentanti.
E il Ministro di Giustizia che indurisce il codice penale all'inverosimile.
E Rajoy che evita di mostrarsi in Parlamento mentre si approva la macelleria sociale.
La triste sensazione personale che in questo Paese in cui ho vissuto per 20 anni la classe politica, pur meno sozza che in Italia, abbia perso completamente l'orientamento ed il senso della vergogna.
Ma la gente non ha perso il coraggio. "Fai sempre quello che hai paura di fare" (e non mi ricordo chi l'ha detto ma ci va benissimo lo stesso). Come quei quattro poliziotti della foto, che staranno già pagando le conseguenze di un gesto che dà coraggio a tutti.
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Madrid, ieri sera, l'immensa protesta di cittadini e di tutti i sindacati uniti, unitissimi contro il Governo di Rajoy ed il governo-ombra della troika, che porteranno il Paese ad essere una nuova Argentina (nel migliore dei casi) o una seconda Grecia.
Appare un gruppetto sparutissimo di poliziotti e sfila con lo striscione "siamo la polizia del popolo, non dei politici". Hanno il coraggio di dire che non dovrebbe essere la povera gente (in senso letterale; tagli per 65.000 milioni di euro approvati ieri, l'IVA sul materiale scolastico che passa dal 4% al 21%, una matita sarà un bene di lusso, guai a rosicchiarla) il bersaglio delle manganellate.
Nel frattempo, le mogli dei minatori costrette a denudarsi per passare i controlli per entrare in Parlamento, quell'Istituzione aperta a tutti i cittadini perché noi ne abbiamo scelto i rappresentanti.
E il Ministro di Giustizia che indurisce il codice penale all'inverosimile.
E Rajoy che evita di mostrarsi in Parlamento mentre si approva la macelleria sociale.
La triste sensazione personale che in questo Paese in cui ho vissuto per 20 anni la classe politica, pur meno sozza che in Italia, abbia perso completamente l'orientamento ed il senso della vergogna.
Ma la gente non ha perso il coraggio. "Fai sempre quello che hai paura di fare" (e non mi ricordo chi l'ha detto ma ci va benissimo lo stesso). Come quei quattro poliziotti della foto, che staranno già pagando le conseguenze di un gesto che dà coraggio a tutti.
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giovedì 12 luglio 2012
Cojonudos!
Di Monica Bedana
Le donne dei minatori spagnoli della "marcia nera" manganellate in una Madrid blindata al loro arrivo nella capitale
(Versión española aquí)
Quando un Presidente del Governo cala le brache davanti al mondo intero, ai cittadini non rimane che tirar fuori gli attributi. E cosí il caso ha voluto che mentre Rajoy balbettava in Parlamento un'infame giustificazione sul perché stia facendo l'esatto contrario di ciò che promise in campagna elettorale (“Noi spagnoli non possiamo scegliere se fare o non fare sacrifici. Non abbiamo questa libertà”) i 200 minatori della "marcia nera" partita dalle Asturie e da León lo scorso 22 giugno giungessero a Madrid e si piazzassero sotto il Ministero dell'Industria a reclamare senza mezzi termini i diritti propri e quelli di tutti i lavoratori.
Quando un Presidente del Governo cala le brache davanti al mondo intero, ai cittadini non rimane che tirar fuori gli attributi. E cosí il caso ha voluto che mentre Rajoy balbettava in Parlamento un'infame giustificazione sul perché stia facendo l'esatto contrario di ciò che promise in campagna elettorale (“Noi spagnoli non possiamo scegliere se fare o non fare sacrifici. Non abbiamo questa libertà”) i 200 minatori della "marcia nera" partita dalle Asturie e da León lo scorso 22 giugno giungessero a Madrid e si piazzassero sotto il Ministero dell'Industria a reclamare senza mezzi termini i diritti propri e quelli di tutti i lavoratori.
A questa gente, coi piedi piagati, coi muscoli pezzi, cotta dal sole dopo una vita passata al buio sotto terra e condannata senza preavviso alla disoccupazione, il Presidente ha detto “abbiamo bisogno che ci prestiate soldi”. La sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato: peccato non ci fossero gli amiconi di Bankia, la banca-giocattolo dell'ex direttore del FMI e di tutto il PP, appostati sotto il Ministero dell'Industria in quel momento. I soldi, per loro, per tappare i loro buchi li sgancia l'Europa e si prende gli interessi non tanto in euro quanto in democrazia: l'unica cosa onesta che ha detto Rajoy è che non siamo liberi. Son state una farsa dunque le elezioni da cui lui è uscito Presidente.
Allenata alla solidarietà, la gente di Madrid ha accolto i minatori a braccia aperte, supplendo cosí la vergogna generata dal rifiuto di occuparsene espresso dalle Istituzioni locali e regionali, governate dai Popolari. Il carbone non sta simpatico a nessuno, inquina, è caro, le tecniche di estrazione sono obsolete ma quando si chiede di pensare ad un piano per riconvertire il settore e ricollocare i lavoratori si diventa automaticamente sovversivi e si ha diritto solo alle bastonate. Le miniere in questo Paese esistono da molto prima di Cristo ma per chiuderle e voltare le spalle a tutte le famiglie che ci vivono da generazioni è bastato un anno ed il 63% in meno delle sovvenzioni.
I minatori della marcia nera e molti cittadini che li hanno appoggiati hanno sperimentato ieri sulla propria pelle quel logoratissimo concetto di sangue, sudore e lacrime che Rajoy stava esprimendo in Parlamento “allo stile di Churchill”, come ha detto qualche demente Popolare privo di senso della Storia e del ridicolo.
Oltre ai minatori del nord ci sono le loro donne, insostituibili e coraggiose organizzatrici della logistica di buona parte della marcia; e ci sono altri compagni che da 45 giorni, per protesta contro i tagli, han deciso di rimanere sotto terra. La loro causa è diventata la causa di quello spagnolo su 4 che, secondo la OCSE, sarà disoccupato nel futuro. La causa di chi ha capito benissimo che il modello spagnolo di crescita, basato sul credito, è fallito, e che mentre il Governo si preoccupa di salvare il culo all'astratta finanza spariscono l'economia reale ed il tessuto produttivo del Paese. Di chi sa che le alternative ci sono ma non hanno a che fare con l'immolazione dello stato sociale. I minatori delle miniere di carbone spagnoli, come i metalmeccanici di Fiom in Italia, simboli di ogni lotta per la dignità. “Orgoglio di tutti noi”, gridava la gente qui al vederli passare, “cojonudos”. Gente con le palle.
P.S.: Leggi anche "Spagna: austerity e manganello", oggi su "The City of London"
P.S.: Leggi anche "Spagna: austerity e manganello", oggi su "The City of London"
Uno dei momenti più emotivi, la marcia notturna
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