sabato 23 marzo 2013

Il PD e la crisi dell'Eurozona

Proponiamo questo interessante articolo di Alfonso Gianni uscito sul Manifesto in cui si chiede chiarezza al PD sulle prossime strategie da adottare a livello europeo. Gli 8 punti di Bersani parlano di uno stop all'austerity ma rimangono assai vaghi sul significato di questa formula, come già evidenziato in un nostro post precedente. La UE non sembra per nulla prendere in considerazione il fermento sociale e politico generato dalla crisi e la situazione richiede dunque scelte politiche coraggiose. A maggior ragione, dopo la grande novità di Cipro e della possibilità di forzare Bruxelles e Berlino a rimodulare le loro proposte o, altrimenti, a rifiutarle. Da questi dati dovrebbe partire una radicale riconsiderazione delle politiche economiche. Se si vuole cambiare, da qui bisognerà partire.

di Alfonso Gianni
da Il Manifesto

«Il governo italiano si fa protagonista attivo di una correzione delle politiche europee di stabilità»: questo è l’incipit degli otto punti su cui Bersani intende fondare la sua proposta di governo, sempre che Napolitano gli conferisca l’incarico. Sul piano formale questa formulazione segna una certa distanza dalla Carta di intenti originaria. E smentisce chi diceva che certe cose non si possono dire pena la vendetta dei mercati. Leggendo però le aride righe successive se ne scopre anche il limite.
Si scopre che questa correzione si limiterebbe ad un allentamento dei vincoli di bilancio per liberare risorse per investimenti produttivi. Se capisco bene, una golden rule in miniatura.
Molto poco di fronte alla gravità della crisi che non attende le schermaglie della politica italiana. Se la pressione sullo spread si è un poco allentata – ma questo non è dovuto all’azione del governo Monti, quanto all’iniziativa assunta dalla Bce nell’acquisto dei titoli del debito italiano -, il fronte dell’economia reale si presenta come un vero disastro. L’Italia è in recessione da sei trimestri, ma quello che è peggio è il l’immediato futuro. Nell’Eurozona l’ultimo trimestre del 2012 si è chiuso con un andamento del Pil in discesa rispetto ai mesi precedenti. Il record negativo appartiene alla martoriata Grecia, ma l’Italia si piazza al terzo posto della decrescita, che chiamiamo infelice per non turbare i seguaci di Latouche. Infatti nel quarto trimestre del 2012 l’Italia ha segnato un -2,7% del Pil, dopo avere chiuso i precedenti trimestri con un -1,3%, un -2,3%, un -2,4%. La Germania che fin qui aveva continuato a crescere, seppure a ritmi sempre più rallentati, registra nel quarto trimestre un calo pari a -0,6% rispetto al terzo. Poca cosa, ma significativa per indicare che anche il potente motore tedesco comincia a tossicchiare.
Le cifre della disoccupazione, sia quella europea, sia quella italiana, aggravata dalla sempiterna questione meridionale, sono drammatiche (da noi in particolare per le donne), e quelle della disoccupazione giovanile ci danno la misura di una generazione perduta, sul piano sociale nient’affatto morale. Infatti il tasso di disoccupazione ufficiale fra le persone comprese nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni ha toccato in Italia, nel gennaio 2013, la percentuale del 38,7% («agghiacciante», ha detto il presidente di Confindustria), mentre i precari sono in tutto 2 milioni 800mila, di cui 2 milioni 375mila con contratti a termine e il restante con contratti di collaborazione. Non c’è da stupirsi, sia detto per inciso, se a fronte della indifferenza del quadro politico dominante, moltissimi di questi giovani sono stati tra i protagonisti dello tsunami grillino.
Servirebbe quindi una svolta radicale nelle politiche economiche europee e italiane. Invece assistiamo all’esatto contrario. Dire: escludiamo gli investimenti produttivi dai limiti di bilancio, non garantisce nulla. Quali sono gli investimenti “produttivi”? Nel caso italiano, si fa la Tav ma non gli ospedali? Si insiste sull’automobile e non sul riordino dell’assetto idrogeologico del territorio? La recente decisione del parlamento europeo di bocciare il progetto di diminuzione del bilancio europeo presentato da Van Rumpuy ha un unico precedente nel lontano 1984, con la differenza che oggi Strasburgo ha potere codecisionale in materia, quindi di veto. Si apre perciò un inedito conflitto fra le istituzioni elettive e quelle nominate come la Commissione e il Consiglio europeo su una materia decisiva quale quella della politica economica. Mario Draghi ha minimizzato le conseguenze del voto italiano, affermando che in ogni caso è stato innestato un “pilota automatico” che guida l’economia senza bisogno di governi nella pienezza dei poteri. Infatti è stato deciso che la formulazione dei bilanci dei singoli paesi venga preventivamente supervisionata per evitare sforamenti. Ma questo potrebbe essere messo in discussione se si affermasse una volontà politica dotata di sostegno popolare pronta a farlo.
Di questo non vi è traccia nei punti del Pd che sembrano riporre le speranze di successo nell’allentamento dei vincoli grazie ai nuovi presunti spazi che sarebbero stati aperti dalla lunga lettera inviata qualche settimana fa dal commissario Olli Rehn ai ministri dell’Ecofin, nonché ai presidenti della Bce e del Fmi. Ma se si legge con attenzione quel documento ci si accorge che quelle speranze sono del tutto infondate.
Il testo di Rehn fa un vago accenno al fatto che gli effetti depressivi delle misure restrittive adottate dalla Ue hanno superato le previsioni, ma si guarda bene dal denunciare come profondamente sbagliati i moltiplicatori fiscali adottati in Europa, come invece ha dimostrato chiaramente lo stesso Fmi, e quindi di suggerire modifiche effettive. Attribuisce il calo della pressione sugli spread alle restrizioni di bilancio, occultando che invece essi vanno interamente attribuiti alle decisioni della Bce sulle Outright Monetary Transactions (OMTs), ovvero gli acquisti dei titoli di stato a breve sul mercato secondario. Infine si dichiara disposto ad allungare i tempi per raggiungere gli obiettivi di bilancio, a condizione che vengano mantenute le famose riforme strutturali che in realtà consistono in cospicui tagli alla spesa pubblica e quindi ulteriore smantellamento del welfare, svendita dei beni pubblici, blocco dell’intervento pubblico in economia, riduzione del personale e delle retribuzioni reali nella pubblica amministrazione. Ovvero l’implementazione di tutti i punti della famosa lettera Bce inviata al morente governo Berlusconi ai primi di agosto del 2011.
Tutto ciò malgrado che la certezza granitica sulle virtù delle politiche di rigore comincia a incrinarsi anche nella potente Germania, che da queste ha tratto i maggiori vantaggi. La Camera dei Länder che compongono lo Stato federale tedesco, dove ha la maggioranza l’opposizione rosso-verde, ha bloccato l’intesa sul bilancio richiesto dalla Merkel ai partner europei, proponendo in cambio il varo di un salario minimo nazionale, progetto respinto dall’esecutivo centrale.
Naturalmente la Cancelliera non intende demordere. Anzi rilancia. Ed ecco che, cosa mai avvenuta prima, si reca a Varsavia per partecipare al vertice del gruppo di Visegrad (composto da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) per lanciare un nuovo patto per la competitività, che a Est si coniuga perfettamente con una preesistente situazione di basse retribuzioni, welfare quasi nullo e tanti vantaggi fiscali per attirare capitali stranieri. Nel frattempo nasce «Alternativa per la Germania» un partito antieuro, favorevole al ritorno al marco o quantomeno a un’unione monetaria più concentrata sul grande paese tedesco e i suoi satelliti. Non contenti degli insuccessi dell’austerity gli organi europei e il Fmi impongono a Cipro, in cambio di “aiuti”, il prelievo forzoso sui depositi bancari privati fino al 9,9% (quando Amato lo fece nel 1992 si fermò allo 0’6%). Aveva proprio ragione chi ha scritto sui muri di Atene «Per favore, non aiutateci»!
In questo quadro, fatto di crisi, ma anche di nuove potenzialità, ciò che resta della sinistra radicale si divide tra chi vorrebbe un piano per l’uscita dall’euro e chi sostiene la ridiscussione dei trattati senza passare dalla fuga dalla moneta unica. La scelta chiama in campo questioni complesse, ma si potrebbe intanto osservare che chi chiede l’uscita dell’Italia dall’euro pone tutta una serie di condizioni per contenerne gli effetti immediatamente negativi e indesiderati di una simile mossa ( quali l’indicizzazione dei salari, il controllo dei movimenti di capitale ecc.), condizioni che richiedono necessariamente un’azione di governo per compierla, ovvero una forza reale capace di fare fronte alle immediate manovre speculative del capitale internazionale. Allo stesso modo un’azione comune tra i paesi mediterranei e più in difficoltà nell’Eurozona per la modifica dei trattati richiederebbe una forza decisionale e un sostegno popolare altrettanto grandi, e non in un paese solo. Si può quindi concludere che in realtà i due piani, almeno per un considerevole percorso, potrebbero nella pratica se non coincidere, almeno tenersi per mano senza divisioni così aspre tra l’uno e l’altro. In altre parole lo spazio oggettivo per un europeismo di sinistra si è allargato e non ristretto, basti guardare al programma di Syriza. Da noi invece è ancora senza interpreti che siano dotati di forza e di consensi e non solo di buoni argomenti.

Nessun commento:

Posta un commento