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martedì 28 maggio 2013

L'Italia contro la politica

Ha vinto il PD? Di certo ai democrats è andata molto ma molto meglio di quello che ci si aspettava. In testa in quasi tutti i comuni. Mica male. Ma da qui a parlare di vittoria, ce ne passa. Praticamente ovunque il PD ha perso voti, e non ne ha neanche persi pochi. Solo che gli altri ne hanno persi di più.
Il caso di Roma è emblematico.


Marino è riuscito nell'impresa mica da ridere di perdere 1/3 dei voti che Rutelli prese al primo turno. Insomma, un disastro a tutto tondo. A cui però gli altri guardano con invidia. Il Pdl ha dimezzato i suoi voti, un tracollo. In realtà però non è una sorpresa. Lo stesso Pdl aveva perso il 40% dei suoi voti alle elezioni politiche. Eppure lo si era accreditato di una grande vittoria. No, era stata una sconfitta clamorosa. Non vista solo dal PD e dal suo gruppo dirigente che hanno deciso di andare a fare un inciucione con un partito ormai derelitto.
La consunzione del PDL non è finita, nonostante la bombola d'ossigeno data da Bersani e soci. E questo ha favorito i democratici, pure in clamorosa ritirata. Per altro, emerge con forza un trend ormai consolidato negli ultimi 5 anni. Il PD nazionale e la sua dirigenza, quella che ha sostenuto Monti, quella che si allea con Berlusconi, quella che vota il fiscal compact, viene bastonata dagli elettori. Alle elezioni amministrative, invece, soprattutto con candidati di rottura (Pisapia, Zedda, Marino, ma anche De Magistris) la sinistra vince. Forse davvero esiste un problema di rottamazione della classe dirigente nazionale.
Quel che rimane, in ogni caso, è una Italia allo sbando, in cui il sistema politico si sta trasformando, con una quota sempre maggiore di elettori che si allontana dalla vita democratica. Insomma, si tratta di una crisi organica, per dirla con Gramsci. Tutta la vecchia classe dirigente annaspa, perde voti e legittimità. Ma una alternativa non si vede, come chiarito dal deludente risultato del M5S. Forse uno stop momentaneo, o forse era stato un fuoco di paglia quello delle politiche. Difficile da dire ora, di sicuro però una alternativa di sistema non emerge.
In tutto questo la sinistra, l'unica rimasta in Italia, traccheggia. Non va male, ma certo non sfonda, vista soprattutto la crisi del PD. Vendola infine inverte la tendenza che lo ha visto in costante arretramento negli ultimi due anni, raddoppiando i voti rispetto alle politiche, ma rimanendo ancora attorno al 5-6%. In diverse realtà locali, però, la sinistra di opposizione viene premiata, toccando o sfiorando il 10% a Siena e Pisa (senza SEL), Ancona ed Imperia (con un fronte unito). Bisognerà ripartire da questi dati per cominciare a ricostruire un vera opposizione.


venerdì 24 maggio 2013

A chi non piace la Democrazia.
Di Simone Rossi 


Nel linguaggio pubblico italiano ed occidentale, in particolare in quello attinente alla sfera politico-istituzionale, la parola democrazia è utilizzata frequentemente, per lo più come forma di marketing con cui zittire chi esprime opinioni o concezioni della società differente da quella dominate. Per decenni la parola è servita da marchio commerciale per il sistema capitalista occidentale in contrapposizione al modello sovietico, quasi ad indicare che lo spazio delle forze popolari nella dialettica politica ed lo Stato Sociale fossero insiti nel modello occidentale e non il risultato di rapporti di forza favorevoli alle classi subalterne; tant'è, una volta abbattuto il Muro di Berlino e venuto meno lo spauracchio comunista, chi detiene il potere economico si è ripreso quanto conquistato dai cittadini nel corso di un secolo almeno, ivi compresi gli spazi di agibilità democratica; l'unica forma di stato e di società che piace a chi detiene il controllo dell'economia è quello in cui il più forte, il più ricco, ha piena libertà di fare e disfare, libero dalla critica e dal dissenso, repressi dai cani da guardia a due zampe. Si tratta di un atteggiamento diffuso, latente, che trova riscontro nelle occasioni in cui figure pubbliche si sottraggono alle domande scomode dei giornalisti, quelli riescono ancora a volgere il proprio ruolo di informazione e di investigazione, che reagiscono in maniera stizzita di fronte al dissenso, alla critica argomentata, preferendo i monologhi ed i dibattiti ovattati in televisione. Un atteggiamento che ha trovato la propria massima espressione nella proposta lanciata da alcuni esponenti di destra in Parlamento di punire anche con la reclusione le manifestazioni di dissenso durante i comizi politici, in cui, va da sé, si può accettare solo folla plaudente ed in adorazione del Capo.

A questa concezione conservatrice, quando non reazionaria, della società non si sottraggono quelle forze politiche che si rifanno alla tradizione riformista o che propugnano nuove forme di partecipazione democratica. Nell'edizione di lunedì 20 maggio de l'Unità Emiliano Macaluso, storica figura del PCI e delle sue successive mutazioni genetiche, esprimeva il proprio disappunto per la manifestazione indetta dalla FIOM contro le politiche economiche italiane per il 18 maggio. La motivazione su cui Macaluso ha mosso la propria critica, per cui la FIOM in quanto organizzazione sindacale avrebbe sbagliato a mischiarsi con organizzazioni non sindacali, innanzitutto i partiti della Sinistra appare debole, sopratutto alla luce del fatto che tra i vertici della CGIL ed il partito di Macaluso è sempre esistito un rapporto organico e di convergenza politica, come dimostra il passaggio di molti dirigenti sindacali nelle fila del partito. Ciò che sembra realmente infastidire l'esponente democratico e molti altri suoi colleghi di partito è la possibilità che il dissenso, l'opposizione alle politiche moderate cui aderisce il PD possa organizzarsi e divenire sufficientemente visibile e forte da mettere in discussione la posizione dominante del partito nell'ambito del campo progressista. A confermare questa supposizione è l'accenno nell'articolo stesso alla questione del referendum bolognese sui contributi pubblici alle scuole materne private, bollato come manifestazione di estremismo di quella parte della Sinistra che non sa essere "responsabile".Paradossalmente quella che è una forma di partecipazione democratica dei cittadini alle decisioni sembra non piacere a coloro che si dichiarano democratici già nella propria denominazione (Partito Democratico) nel momento in cui l'esito della consultazione potrebbe non collimare, nel caso bolognese, o non collima, come per il referendum sulla pubblicità dei servizi idrici, con i loro desiderata.

Il referendum bolognese avrà carattere locale ma ha assunto carattere nazionale durata campagna elettorale, con il pesante intervento di esponenti di spicco dei principali partiti di governo, quello delle cooperative, delle organizzazioni di matrice cattolica e della CEI. Più che i finanziamenti in sé, nell'ordine di circa un milione anni, o la "pura indipendenza" del sindacato, per ritornare al Macaluso di cui sopra, ciò che infastidisce e finanche intimorisce i Democratici è la democrazia stessa, intesa come partecipazione attiva dei cittadini della Cosa Pubblica, in autonomia dai partiti e dal controllo paternalistico di una classe dirigente autoreferenziale ed autoritaria. Esperienze come il referendum sulla scuola materna pubblica a Bologna, l’opposizione al progetto TAV in Valle di Susa, i movimenti per la tutela del territorio dalla costruzione di grandi opere invasive ed inquinanti e contro la proliferazione di basi ed installazioni militari (Vicenza, Sicilia) rappresentano piccole crepe nel monolite del pensiero unico che accomuna di oltre vent’anni post comunisti, ex democristiani, liberali e conservatori. Sono il sale della democrazia, non possiamo che auspicare si moltiplichino e siano il preludio per un cambio di direzione del pendolo della Storia.


mercoledì 15 maggio 2013

Minimalismo PD

Di @MonicaRBedana

All'inizio fu la carta d'intenti, nella sua vastità imprecisa.
Conteneva il "pan" del centrosinistra, il “tutto”. Prefisso greco, un indizio ed un inizio di Pasok.

Poi vennero gli otto punti. Quelli cardinali erano andati smarriti in sede elettorale, ne servivano urgentemente quattro di ricambio mentre si resettava il gps. Apparecchio e apparato indicavano già la prima svolta a destra.

Ora tocca alle quattro proposte: a scuocerle ci vorrà meno che per i quattro salti in padella.

E’ una contra(ddi)zione programmatica selvaggia, che sfocia nel minimalismo perfetto; quello che credevo patrimonio esclusivo di grandi stilisti, di un Balenciaga magari, non certo di D’Alema.

L’applicazione rigorosa del menos es más, meno idee ma più confuse e ancor meglio disorganizzate. Che si raggrumano e si liquefano, gridando al miracolo ogni volta - a mo’ di sangue di San Gennaro, o di ennesima Epifania- nell’unica Idea in realtà mai partorita: il Partito.



giovedì 9 maggio 2013

Tra Alemanno e il PD meglio una terza via

A Roma ci sono le elezioni per eleggere il sindaco, la posta in gioco è alta e pensare anche solo per un momento che la città torni ad essere governata da Alemanno, il sindaco di parentopoli, delle sceneggiate isteriche, della neve e dei disservizi è pura follia.
In un momento politico normale la logica avrebbe portato a votare allora per Marino, una delle facce migliori del PD, laico, progressista, persona di caratura internazionale. Eppure a Roma non si vota solo Marino. Marino è, appunto, il candidato del PD. Quel PD che è andato al governo con Berlusconi, che si è dimostrato inadatto a governare l'Italia, che non merita la fiducia di chi lo ha votato dopo averla tradita nuovamente. Non si può quindi davvero più parlare di voto utile contro Alemanno, anzi.
Quel PD che dopo aver NON vinto le elezioni ha preteso per 1 mese di governare da solo con un governo di minoranza, che in nome delle larghe intese per le istituzioni ha cercato di fare un inciucio con Berlusconi, che ha bocciato nomi storici della sinistra per cambiare pagina al paese, che alla fine ha ri-eletto Napolitano dopo che metà partito andava ormai per conto suo. E che dopo aver litigato sull'illitigabile, si è stretto a mò di falange macedone quando si è trattato di occupare posti di potere, da dividere ovviamente con Biancofiore, Miccichè, Palma, etc..
Insomma, un partito che non rappresenta una alternativa alla destra. Non lo è ora, che ci governa insieme. Non lo era prima, avendoci governato insieme durante il periodo Monti riuscendo a far passare le riforme più reazionarie, inutili e controproducenti della storia repubblicana. Non lo era neanche in passato quando abbassava le tasse ai ricchi, introduceva la precarietà, si rifiutava di alzare le tasse sulle rendite e si dimenticava convenientemente del conflitto di interessi.
L'unico voto utile è un voto vero per chi è davvero contro la destra, non per chi ci fa accordi, non per chi ci governa insieme, non per chi ne attua le politiche. Il voto utile che vuole il PD è utile solo per stare al potere, non per cambiare l'Italia. Per legittimare una dirigenza, vecchia, vecchissima, e pure nuova, che è disposta anche a fare accordi col diavolo pur di governare - anche se non si sa per far cosa.
Marino è meglio di questo PD, certo. Ma fa parte di questo PD, alleato con Alemanno. Meglio allora votare Sandro Medici, per una vera alternativa. Un voto utile contro la destra, e contro chi ci si allea.

giovedì 2 maggio 2013

Dal PCI al PD: la fine della sinistra


 


Iniziamo proponendo un ottimo ed interessante articolo di Serra sulla classe dirigente (?) ex PCI/PDS/DS ora PD che a forza di star chiusa nel palazzo, a forza di non ascoltare la gente, a forza di snobbare il popolo, a forza solo di primarie ma di nessun ascolto delle esigenze della base si e' condannata alla piu' dura sconfitta e, per fortuna, anche alla scomparsa fisica dalla stanza dei bottoni.
Di seguito, poi, un post di Antonio Schiavulli su quello che è stato il PD ed i suoi antenati prima di lui. Un partito, una coalizione, che, politicamente si è caratterizzata per "riforme" regressive (lavoro, scuola, immigrazione - manca per altro la riforma fiscale della aliquote IRPEF...), abbandonando da molto prima del governo Letta un profilo di rappresentanza dei lavoratori, dei disoccupati, delle classi meno agiate. Un partito votato al compromesso (storico?) portando in dote poco o nulla delle lotte dei decenni precedenti, ma certo molti voti. Raggiungendo ora il suo punto più alto, annullando le differenze della seconda repubblica (di forma - oscena, sia chiaro, nel berlusconismo - più che di sostanza) in un governo di pacificazione nazionale. Sulla pelle dei soliti noti.


LA SCOMPARSA DEI POST COMUNISTI
di Michele Serra
da Repubblica

A parziale consolazione di quei milioni di elettori di sinistra che si sentono tagliati fuori dalla scena politica (no, non avevano votato per fare un governo con Berlusconi), va detto che una sorte analoga è toccata alla classe dirigente della sinistra storica quasi al completo. Il “quasi” è dovuto all’autorevolissima eccezione di Giorgio Napolitano, riconfermato al Colle e primo artefice del nuovo governo.
Meritato coronamento della vocazione governativa e lealista della destra comunista, da sempre capace di interpretare, nella lunga storia repubblicana, il punto di vista dello Stato ben più di quello della società, dei movimenti, degli umori popolari.
Di tutto il resto – quel cospicuo resto che è la sinistra di Berlinguer e di Occhetto, della Bolognina e della “svolta maggioritaria” di Veltroni al Lingotto, dell’Ulivo, dei sindacati e dei movimenti di massa, dei due milioni di persone con Cofferati al Circo Massimo, dei cortei infiniti e delle infinite attese di “cambiamento” – non rimane, nel consociativismo lettiano, alcuna presenza riconoscibile e significativa.
Almeno in questo senso il principio di rappresentatività è rispettato: eletti ed elettori di quel grande ceppo fondante del Pd che fu la diaspora comunista non fanno parte del governo Letta. Non un solo leader della generazione di mezzo (i D’Alema, i Veltroni, i Bersani) è direttamente partecipe di una compagine che pure pretende di reggersi su tante gambe quante sono quelle all’altezza dell’emergenza politica, e dunque della responsabilità istituzionale. Domina la componente popolare e cristiano sociale; e nei pochi casi (vedi le neoministre Kyenge e Idem) in cui la sinistra italiana può riconoscere almeno qualcuna delle proprie migliori aspirazioni, non si tratta di dirigenti politiche ma di una sorta di evidenza sociale che bypassa il partito: è il partito che le porta in spalla, ma sono loro a salutare la folla.
A meno che, in questo scomparire
di una intera generazione di capi politici della sinistra, ci sia un sottile calcolo (“meglio, in questa fase, farsi notare il meno possibile”), se ne deve dedurre un fallimento epocale. Quello di una classe dirigente logorata dal tatticismo e sfibrata dalle rivalità interne; e di un modello di partito così poco permeabile alla società che, evidentemente, non ha potuto selezionare i propri uomini e le proprie donne nel vivo dei conflitti, e si è illuso di potere coltivare in vitro, nel chiuso dei propri ruoli di competenza, una élite che invecchiava, perdeva mordente, perdeva sguardo su una società che guardava a sua volta altrove.
In una recente intervista al “Manifesto” di Stefano Rodotà, al netto delle opinioni che si possono avere sulla persona e sul tentativo politico di portarlo al Colle, ci si riferiva a un episodio che fotografa con assoluta spietatezza la crisi strutturale della sinistra italiana, e del Pd in particolare. Subito dopo la clamorosa e inattesa vittoria nei cinque referendum del 2011 sull’acqua pubblica e altro (quorum ottenuto, dopo molti anni, grazie all’auto-organizzazione sul territorio), Rodotà racconta di avere inutilmente sollecitato un incontro tra i Comitati vittoriosi (con i quali aveva lavorato) e i dirigenti del Pd. Quell’incontro non ebbe luogo, forse non interessava o forse nel Pd c’erano cose più urgenti da fare. Fatto sta che, con il senno di poi, possiamo ben dire che in quel caso la sinistra perdente (quella degli apparati) perse l’occasione di confrontarsi con la sinistra vincente, quella auto-organizzata, vivace, attiva che ebbe tante parte, tra l’altro, anche nella vittoria di Pisapia a Milano e nella caduta del centrodestra in molte città italiane.
Perché quell’episodio è amaramente simbolico? Perché da molti anni – diciamo, per comodità, dalla Bolognina a oggi: e sono più di vent’anni – ogni tentativo di osmosi tra la sinistra-partito e la sinistra-popolo ha cozzato una, dieci, cento, mille volte contro finestre e porte chiuse. La domanda è semplice, ed è tutt’altro che “populista”, riguardando, al contrario, il tema cruciale della formazione di una élite: quanti potenziali leader, quanti quadri politici appassionati, quante nuove idee, quanta innovazione, quanta energia è stata perduta dalla sinistra italiana a causa, soprattutto, della sua incapacità di fare interagire le sue strutture politiche e il suo popolo, i dirigenti e i cittadini? Quante di quelle energie sono confluite nelle Cinque Stelle, portandosi dietro altrettanti voti? Quanto alto è stato il costo politico di un partito che per timore di perdere “centralità” ha perduto realtà, e infine ha perduto competenze, autorevolezza, e con l’autorevolezza il senso stesso della missione di qualunque vera avanguardia politica?
Infine e soprattutto: per quanti anni ancora varrà, a sinistra, il pregiudizio contro il “radicalismo minoritario” (sono state queste, più o meno, le ragioni addotte da alcuni per spiegare il loro no a Rodotà), quando le sole vittorie recenti, dall’acqua pubblica alle amministrative, sono il frutto evidente di scelte radicali, e non per questo meno popolari, e infine maggioritarie? Chi è più snob – per usare un termine tanto di moda – Rodotà che lavora con i Comitati per l’acqua e vince il referendum o un partito così castale, così impaurito da rinserrarsi a litigare, per anni, nel chiuso delle proprie stanze?



Il primo maggio del Pd

di Antonio Schiavulli
da http://antonioschiavulli.wordpress.com


È facile oggi prendersela con il Pd, con i suoi dirigenti decrepiti e l’assenza totale di un progetto politico che non sia riducibile a quello di un comitato d’affari preoccupato di difendere le proprie posizioni di potere nel paese. È facile prendersela con Bersani al quale andrebbe almeno concesso l’onore delle armi e riconosciuto il coraggio di essersi fatto carico con coerenza e disciplina di una situazione oggettivamente impossibile da risolvere. È facile e qualcuno, specie dentro il Pd, lo ha fatto molto meglio di come potrei farlo io, che con il Pd non ho niente a che fare. Adesso, per carità, sono tutti, o quasi, rientrati nei ranghi e hanno trovato ottimi motivi per giustificare l’ingiustificabile e prendersela con qualcun altro.
Alla faccia dei “delusi del Pd”, però, che si svegliano ora solo grazie al valore simbolico di un’elezione presidenziale, il ventennio che si chiude è stato caratterizzato da tre grandi riforme del mercato del lavoro che senza soluzione di continuità sono state avanzate dal centrosinistra e perfezionate dal centrodestra. Alla luce della storia dei rapporti sindacali, il governo Letta-Alfano non è dunque che la celebrazione di un’alleanza che fra alti e bassi data almeno dagli accordi di luglio del 1993, quando, nel pieno di un’altra crisi, è cominciata la ristrutturazione delle relazioni industriali in nome dell’unità nazionale.
Colpisce che, mentre gli elettori e i militanti del Pd si sentono così delusi dalla mancata elezione alla Presidenza della Repubblica di Romano Prodi, nessuno di loro ai tempi del Pds si fosse sentito altrettanto deluso quando, nel 1997, il primo governo del candidato presidente approvava il pacchetto Treu, avviando così il processo di precarizzazione del lavoro che ha cancellato il futuro di due generazioni e senza il quale difficilmente si sarebbe arrivati, nel 2003 alla legge Biagi.
Né sembravano affranti, quegli stessi elettori e militanti delusi dalla mancata elezione di Rodotà, di fronte a quell’orrore giuridico (e linguistico) che, nel 1998, istituisce i Centri di Permanenza Temporanea (Cpt) con la legge firmata da Livia Turco e Giorgio Napolitano. Ci vorranno solo quattro anni perché, sulla falsariga della legge precedente, un leghista e un fascista propongano un’altra legge sul lavoro mascherata da legge sull’immigrazione nella misura in cui lega la permanenza sul territorio italiano e la libertà individuale dei soggetti migranti al possesso di un contratto di lavoro, sottoponendo di fatto il lavoratore al ricatto della detenzione e dell’espulsione nello stato d’eccezione dei Cie.
Non si scandalizzavano, infine, i militanti dei Ds, nemmeno quando in un processo di riforma complessiva della formazione inaugurato alla fine degli anni ottanta dal democristiano Ruberti si inseriva, nel 2000, Luigi Berlinguer senza la cui riforma difficilmente sarebbe stato possibile per Moratti e Gelmini completare le proprie. Anche in questo caso l’attacco all’università mirava coerentemente nella direzione di una più stretta relazione tra formazione e impresa, finalizzando la prima alla seconda, anche se è giusto ricordare che qui e solo qui (gli immigrati non votano) si è giocata una partita sulla pelle dell’elettorato del centrosinistra, egemone, pare, nella scuola e nell’università. Che infatti riuscì a ottenere l’abolizione della riforma Moratti dal secondo governo Prodi, salvo poi subire il colpo di grazia inferto nel 2008 da Gelmini.
La grande vittoria del berlusconismo è stata quella di distogliere l’attenzione dal lavoro per concentrarla su di sé, sui propri processi, sul proprio modello ideologico con la connivenza di un partito che usato l’antiberlusconismo come arma di distrazione di massa. La partita degli ultimi vent’anni si è giocata, così, contro un soggetto che non a caso è proprietario di una squadra di calcio, su una maglia da difendere, ma dentro un campionato sulle cui regole tutti i giocatori concordano e che nessuno si è mai permesso di mettere in discussione. È invece sulle politiche del lavoro che oggi, dopo la marcia dei 40.000 e dopo la concertazione, dopo Napoli, dopo Genova, dopo vent’anni di flessibilità e precarizzazione, passa la differenza tra la percezione qualunquista della casta e l’evidenza consociativa dell’ennesimo governo di unità nazionale. Le contraddizioni del M5S, peraltro sottoscrivibilissime per come vengono denunciate da Wu Ming e dal libro di Giuliano Santoro, sembrano in effetti ripercorrere le tappe di un processo corporativo che ha riunito sotto le insegne di Pds, Ds e Pd una composizione di classe eterogenea nel nome della ristrutturazione neo-liberista del mercato del lavoro e nel nome della pacificazione sociale.
Da questo punto di vista, la storia della dirigenza del Pd si lega con la formazione dei propri quadri dentro la Dc e il Pci durante gli anni dell’unità nazionale. Istruita dai padri storici della generazione migliorista dei Macaluso e dei Napolitano, la generazione successiva ha declinato l’unità nazionale sul piano giuridico e delatorio (Fassino con Ferrara e Caselli), su quello dei tatticismi (D’Alema), su quello dell’egemonia culturale (Veltroni e figli, da Giordana a Saviano) orientando la politica del Partito verso un unico obiettivo: la realizzazione del compromesso storico al quale il Pci, non a caso, portava in dote la pacificazione sociale. In fondo, vista da qui, la politica del centrosinistra in Italia è stata vincente e l’obiettivo, se non ha prodotto memorabili successi elettorali, ha almeno garantito un precario controllo dei conflitti. Finché dura…

mercoledì 1 maggio 2013

Cosa c'entra il PD col Primo Maggio?




Nulla. Se ne stanno accorgendo anche i suoi militanti che come riporta Repubblica sono in rivolta. Addirittura il servizio d'ordine si rifiuta di scortare i dirigenti, lasciati soli a se stessi, e puntualmente contestati, non solo dai servizi sociali ma dalla folla.
E come potrebbe essere altrimenti? Hanno abolito, col loro voto, l'art.18. Da anni portano avanti politiche che hanno precarizzato il lavoro, diminuito il valore reale dei salari, difeso e implementato politiche neoliberiste.
Da ultimo sono andati al governo con Berlusconi, che almeno ha la buona creanza di non partecipare ai cortei del Primo Maggio. Quando si è al governo con Gasparri bisognerebbe avere l'accortezza di fare altrettanto.

martedì 30 aprile 2013

L'Emilia rossa diventa grillina

Riportiamo un interessante articolo di Dario Di Vico sulla crisi del modello emiliano, per anni e decenni il fiore all'occhiello del Partito Comunista ed esempio di buon governo, socialità, opportunità e di come la socialdemocrazia scandinava potesse funzionare anche in Italia. Un modello ormai sfiorito, però, come ribadisce anche Di Vico. Gonfi e tronfi per i risultati non da loro ottenuti, ma ereditati da chi aveva costruito prima di loro, gli amministratori emiliani - e quelli bolognesi in particolare - hanno smesso di investire su capitale umano, infrastrutture, sono divenuti sordi al cambiamento e alle esigenze delle persone. Sono stati incapaci di mantenere il passo della modernità, risultando in una crisi politica senza precedenti, dal successo di Guazzaloca ormai quasi 15 anni fa, al fallimento politico del periodo di Cofferati, all'imbarazzante scandalo Del Bono. Nel mezzo, problemi mai risolti, l'affaire Civis, la qualità della vita in costante calo, il proverbiale civismo emiliano in crisi. E con un referendum contro le scuole private a Bologna che rischia di diventare un atto di accusa contro l'incapacità del PD di fare non solo buona politica, ma anche buona amministrazione. Mentre  il M5S avanza.

Il paradosso di Bologna, alto capitale sociale e bassa circolazione delle élite

di Dario Di Vico
da Style
 Il tema è venuto fuori durante la recente presentazione del libro di Franco Mosconi sul modello emiliano. La sede non poteva essere più congeniale: la biblioteca della casa editrice del Mulino. Provo a sintetizzarlo: come è possibile che Bologna e la sua regione, territori ad alto capitale sociale, appaiano all’esterno come “società chiuse”, caratterizzate da una scarsa circolazione delle élite?  Sul primo assunto c’è poco da discutere. Studiosi di numerosi Paesi hanno lodato negli anni la capacità sistemica del modello emiliano, l’aver saputo creare una robusta infrastruttura civile di partecipazione che si è rivelata nel tempo uno dei caratteri distintivi del territorio. E’ chiaro che ciò è stato possibile non solo in virtù del genius loci ma di un connubio strettissimo tra le culture preesistenti e il pensiero della sinistra, da tempo immemore maggioritaria da queste parti. Il pensiero di una sinistra “compiuta” che qui è riuscita ad essere/rimanere ancorata alle radici popolari e quasi mai animata da un sentimento di superiorità antropologica nei confronti dell’avversario o dell’elettore medio. Questa infrastruttura civile è stata determinante per migliorare la qualità dei servizi offerti dall’operatore pubblico, per creare un circuito positivo di consenso con la popolazione, per alimentare un diffuso sentimento di appartenenza. Politica e antropologia sono stati un tutt’uno. L’insieme di questi fattori ci siamo abituati a catalogarlo come “capitale sociale” ma ci siamo anche pigramente acconciati a considerarlo immutabile nel tempo. E invece come accade per le infrastrutture fisiche anche quelle civili risentono dell’uso e nel caso in esame di una progressiva tendenza a fabbricare procedure, riti, macchine politico-amministrative. Se volessimo restare nell’ambito del lessico finanziario usato come metafora potremmo dire che nel tempo il modello emiliano non è stato capace di operare degli aumenti di capitale sociale, si è considerato sufficientemente patrimonializzato all’infinito. Niente di grave, capita anche ai migliori. Guai però a dimenticarsene e ripetere le frasi fatte, bearsi del medagliere e dimenticare le sfide in essere. E la principale delle contese in campo oggi riguarda sicuramente la circolazione delle élite. Le società chiuse operano prevalentemente per cooptazione, includono con il contagocce e lasciano prevalere gli stessi cognomi, spesso doppi cognomi. Sta accadendo qualcosa del genere a Bologna e in Emilia? Penso proprio di sì, anche se si fatica a tematizzarlo, c’è una convenzione politico-culturale che porta a sottolineare lo stock di patrimonio sociale ma non i flussi. E invece se una società vuole rinnovarsi deve badare innanzitutto ad assicurare mobilità “nuova” al suo interno e un’adeguata e costante liberalizzazione delle élite. La reazione degli elettori che hanno premiato ad abundantiam i grillini è anche (in parte) una reazione alla mancata movimentazione sociale. Non è un caso, del resto, che l’Emilia sia considerata la culla del Movimento 5 Stelle.

domenica 28 aprile 2013

Il PD ostacolo al cambiamento

di FM

Vivo la designazione di questo governo con totale indifferenza. Gli ultimi fatti politici salienti si sono consumati nell'arco di tempo fra la candidatura Marini, l'affondamento della candidatura Prodi, e la Canossa davanti a Napolitano. Il resto era scritto, ed i dettagli sono appunto dettagli. Ad un risultato elettorale che (con incoerenze, difficoltà e quel che si vuole) chiedeva massimo rinnovamento, il sistema politico ha risposto con la massima conservazione. Hanno evitato di simboleggiarlo con un governo Amato-Violante-Berlusca-Brunetta. Ma con tutto il rispetto (che è maggiore di quello della media di chi scrive e legge questo blog), la Bonino o Josefa Idem non spostano di una virgola il fatto che la sostanza politica del governo è la stessa del governo precedente – PD-PDL con Napolitano garante. Le politiche seguiranno.

Il fatto per me nuovo, che nessuna Idem mi farà dimenticare, è che il PD poteva scegliere di fare una cosa radicalmente diversa convergendo su Rodotà e sostenendo un governo per fare i suoi "otto punti", ed ha invece scelto la conservazione assoluta (di ciò cui si era sempre fermamente opposto, a parole). Anche per i ciechi e i sordi (come me) è ormai chiaro che il PD non è e non potrà mai essere un partito riformista, e che è un ostacolo a qualsiasi prospettiva di rinnovamento. Un partito che va per quanto possibile disarticolato per far nascere qualcosa di nuovo. Non capisco come i vari Fassina non siano ancora usciti. La scissione (o anche il dignitoso abbandono, da soli) mi paiono le uniche opzioni per gente che ha tenuto le loro (mie) posizioni fino ad oggi. Non è escluso che per andare al governo in futuro la sinistra debba poi negoziare con il PD di Letta, Gentiloni, ecc. – ma senza più l'equivoco della comune militanza.

Di fronte a questo fatto politico, anche la mostruosa prova di incompetenza fornita dal personale politico del PD nel periodo post-elettorale perde importanza. Però non ricordo nulla di così spettacolare da quando seguo la politica – ottimo in particolare il no a Rodotà "perché candidato divisivo", con un PD che secondi dopo si è disintegrato nella cannibalizzazione reciproca delle correnti e che si appresta ad una scissione… Da spaccarsi dalle risate, non fosse che così ci hanno rimesso nelle mani della stessa oligarchia di prima per un bel po' di tempo.

mercoledì 24 aprile 2013

Il Male


di Irene Zampieron

In questi giorni, quel che più si manifesta è un sentimento di surrealtà. benché il surreale non sempre sia, anzi, così vicino al patetico, all'assurdo.
In primis su me stessa noto un comportamento surreale: attaccata al sito di Repubblica seguo con quel che potrebbe apparire interesse, ma in realtà non lo è, i disgraziati avvicendamenti in seno al Parlamento e al mai tanto disprezzato PD. Da non elettrice del partito democratico e neanche simpatizzante non fosse un poco sì ovviamente, per il fatto che dovrebbe essere vicino alla mia sensibilità di sinistra, chissà in quale modo, seguo e basita mi sento delusa, incredula, preda di un sentimento d'irrealtà. Non si capiscono tante cose, da Bersani che nemmeno per un mese è riuscito a mantenere una linea coerente e in qualche modo finalmente un poco coraggiosa; e io ci avevo  creduto alla proposta degli 8 punti al prendere una linea un po' più decisa, definita, quasi radicale - attenzione a suo modo. Poi l'inspiegabile della sua pochezza di fronte alla scelta del presidente della Repubblica e dell'infamia di quelli che dovrebbero essere i suoi compagni, no no, i suoi amici, no no, i suoi coopartitici...non so, la politica fatta di poltrone e della gara al potere che nel partitone determina, sembra ora, proprio tutto.
Adesso si parla, chi tra l'altro ne parla, quale macchina infernale della comunicazione che monta e smonta casi, di Renzi capo del governo, che neanche in un fumetto di Topolino si arriva a tanto.
Il Male, esisteva un finto giornale che così si chiamava (e mia mamma cita ogni tanto) che dava notizie false e assurde, oggi parrebbe davvero poca cosa, privo d'immaginazione.
Strategie di potere di un partito qualunque, non fosse la rappresentanza progressista che l'Italia si è potuta, mannaggia a lei, permettere, mette tutti noi e l'Italia in una situazione assurda, grave, triste. In pratica nuovamente in mano a un governo tecnico, ma che per di più in un qualche modo contorto è pure eletto, che seguirà i dettami dell'establishment europeo. E si annuncia con sorpresa, dài infine una buona nuova, che lo spread scende, o sale, insomma che i mercati nostri padroni sono contenti, con il mantenimento del bizzarro status quo italiano. Che buona notizia.

Forse nello sfacelo, almeno un po' di chiarezza per il futuro: con la mancata elezione, e addirittura con la mancata presa in considerazione da parte del più non fu PD, dell'emerito e integerrimo Rodotà a capo dello Stato, si dichiara senza ombra di dubbio che tale partito non è e probabilmente non è mai stato di sinistra.
A buona memoria dei posteri, a mala sopravvivenza nostra.

martedì 23 aprile 2013

Le strane intese di Napolitano

In un discorso auto-celebrativo e arrogante Napolitano ha accusato i partiti di immobilismo, incapacità, sterilità. Tutto vero, ma ci si potrebbe domandare, da che pulpito? Non ci sono dubbi che i partiti tradizionali siano ormai distaccati dalla realtà e che non sappiano rappresentare gli umori, le aspirazioni, le ansie e le preoccupazione degli italiani. Ma Napolitano non è calato da Marte, ha fatto parte di questo sistema ed ha anzi contribuito in maniera decisiva al suo collasso. La stella polare del suo primo mandato è stata la cosiddetta governabilità ed il rispetto degli impegni internazionali. Ma la democrazia non è mai stata presa in considerazione. Napolitano ha salvato Berlusconi una prima volta con una manovra di palazzo atta a prendere tempo. Poi davanti al fallimento politico del centrodestra ha legato mani e piedi al Parlamento impedendo il voto e organizzando un governo-pasticcio in cui tutti erano dentro mentre era la UE a dettare i programmi. Uno schiaffo in faccia all'elettorato, ripetuto millanta volte nei mesi successivi, con lo scherno dimostrato per i grillini, con le elezioni messe sub-judice dal Presidente che garantiva gli impegni presi al di là del parere dell'elettorato. E poi coi saggi, con gli appelli alla grande coalizione, etc etc...
E naturalmente, nel discorso di ieri ha nuovamente parlato di alleanze, ricordando come non ci sia nulla di male nel trovare intese e compromessi tra diverse forze politiche. E chi ne dubita? Il punto è con chi trovarle, queste intese. E soprattutto per fare cosa? Un conto è una intesa tra il PD e il M5S, che potrebbe concretizzarsi in concreti tagli agli sprechi, in maggior moralità pubblica, in una vera legge anti-corruzione, magari anche in un salario minimo di cittadinanza, ed in un minor potere delle lobby di affaristi che assediano la politica italiana. Tutt'altro discorso è cercare il dialogo con Berlusconi. In 20 anni di protagonismo politico, Berlusconi si è quasi solo occupato dei propri interessi - dalle leggi ad personam al conflitto di interessi - ed ha comunque dimostrato zero senso dello Stato, massimizzando solo i propri consensi elettorali, attirando in trappole prima D'Alema, poi Veltroni, poi Bersani. Solo nel suo esclusivo interesse. Quale possono essere le basi di tale compromesso, di tale alleanza?
A fine anni 70 ci fu una convergenza tra PCI e DC sulla base di equilibri politici che si speravano migliori: due grandi partiti popolari, portatori di interessi diversi ma a volte convergenti, in una situazione di democrazia bloccata. E le basi teoriche di questa alleanza si ebbero facendo un parallelo con la situazione cilena, con la possibilità che anche in Italia le forze della reazione avrebbero potuto spazzare via la democrazia. Nel 46 DC e PCI governarono brevemente insieme, c'era da ricostruire l'Italia post-fascista e le forze democratiche collaborarono per darsi una nuova Costituzione.
Ora non c'è nulla di tutto questo. Gi equilibri politici dati da una alleanza con la destra sono, nel migliore dei casi, regressivi. Sono due partiti in crisi - e non all'apice del loro successo, come nel 76 - incapaci di proporre formule politiche innovative, rinchiusi nel Palazzo, ed ora nel governo, solo per sopravvivere.
Il tutto mentre la crisi sta avanzando e richiede risposte radicali ed una nuova rappresentanza sociale degli emarginati, dei disoccupati, dei poveri, degli studenti. Una società in subbuglio ed un Palazzo chiuso in se stesso. Con la benedizione di Napolitano.

domenica 21 aprile 2013

PD addio, ora che si fa?

Dopo anni in cui PDS, DS e PD hanno illegittimamente occupato lo spazio a sinistra è finalmente saltato il tappo che conteneva il cambiamento. Grazie all'apparato, ai soldi, alla tradizione, gli eredi di PCI (e DC) sono riusciti a imporre un controllo quasi militare su quella parte politica che dovrebbe rappresentare i lavoratori e gli sfruttati, i poveri e i deboli, quelli che credono nell'eguaglianza e nella solidarietà, quelli che contestano il mercato come risolutore di tutti i problemi.
Lo hanno fatto anche - e forse, soprattutto - perchè l'offerta alternativa era pessima. Rifondazione Comunista era un ottimo progetto nel 92, ma viziata dal peccato originale di non aver visto l'adesione della sinistra del PCI, da Ingrao in giù, che tardò anni a rendersi conto di dove andava il PDS. Per non parlare della sinistra interna ai DS che aspettarono fino al 2008 prima di staccarsi. Sempre fuori tempo massimo. Intanto la segreteria di Bertinotti isolava la sinistra e si marginalizzava, puntava sui movimenti perdendo i voti in fabbrica. E pure il sindacato ha delle sue responsabilità storiche, alleato del governo amico o geloso della sua autonomia, senza capire che senza rappresentanza politiche anche i lavoratori sono più deboli.
Ora l'occasione è storica. La sinistra va rifondata. Il PD si è squagliato. Non si è squagliato per la fusione a freddo, che nessuno ha mai capito quale sia la diversa visione di società tra D'Alema e Veltroni, tra Letta e Bersani e giù scendendo: tutti insieme appassionatamente quando si trattava di tagliare le tasse dei ricchi, di dare i soldi alla scuola cattolica, di precarizzare il mercato del lavoro, di votare il fiscal compact. Si è liquefatto perchè le diverse anime non si sono mai messi d'accordo su come spartirsi il potere e i posti. Ognuno con le sue correnti, ognuno con i suoi amici. Un partito chiuso nel Palazzo che ha dimostrato in maniera quasi oscena quanto sia distaccato dai bisogni della gente.
Davanti a questo non possiamo davvero più aspettare. Si parli subito, si cominci subito a costruire la nuova sinistra. Sinistra del lavoro, sinistra dei diritti, sinistra dell'eguaglianza. Una sinistra che sia vera alternativa al liberismo, all'Europa dei mercati e dei burocrati, alla Germania dell'austerity e all'Italia del fiscal compact. Una sinistra unita dalle battaglie vere, che non decida le alleanze in base alla convenienze, ai calcoli elettorali e politicisti. E le battaglie sono lì, davanti a tutti. Da quella sull'acqua pubblica, vinta ma che non ha partorito nulla, con i promotori poi divisi tra loro. A quella sul referendum bolognese contro i finanziamenti alle scuole private - non a caso osteggiato dal PD. A quella prossima ventura sul referendum sul lavoro. Su questi temi concreti va costruita la prossima sinistra. Con quelli che ci stanno, e magari con un pò di facce nuove.

sabato 20 aprile 2013

No, Napolitano no!!!!

Forse era ormai inevitabile. Il PD non esiste più, la sua dirigenza si è liquefatta sotto il peso di decisioni assurde, nell'inevitabile redde rationem di un partito nato male, cresciuto peggio e morto oscenamente. Un partito di vecchi dirigenti che da 20 anni a questa parte ripetono la solita sceneggiata, a parole contro Berlusconi, salvo poi inseguirlo ogni volta. Anche davanti alla possibilità di eleggere un presidente anti-berlusconiano e pronto a dare l'incarico per un governo di cambiamento, il PD ha detto no. No, ci voleva uno dei suoi, perchè un partito nato per il potere deve prendersi tutti i posti. Peccato che un partito così diviso non sia nemmeno in grado di spartirsi i posti di potere. Ognuno gioca per sè. Bersani per avere un presidente che gli dia l'incarico - o forse no, ma sarebbe pure peggio, davvero non si capisce la virata su Berlusconi-Marini. Marini e i popolari per tornare al Quirinale dopo 14 anni. D'Alema perchè ci vorrebbe andare lui. Renzi per spazzare via il vecchio gruppo dirigente ed andare subito alle elezioni. Tutti contro tutti, fino a chè nessuno rimarrà in piedi.
Anzi, uno in piedi è rimasto. Napolitano, ora scongiurato da destra e sinistra per salvare il salvabile. Peccato che dietro tutto questo macello ci sia soprattutto la sua figura inquietante. Ripercorriamo velocemente la storia degli ultimi anni: nel 2010 concede 3 mesi di tempo a Berlusconi prima del dibattito parlamentare sulla fiducia dopo l'uscita di FLI. Risultato: da una sicura sfiducia si passa ad una fiducia comprata a forza di poltrone e maneggi. Nel 2011, nell'ora della caduta di Berlusconi, impone Monti ad una pese esterefatto, obbligando il PD a rinunciare ad un certo trionfo elettorale e si fa garante politico dell'inciucione. Ancora col sentito grazie di Berlusconi che riorganizza le truppe in un anno e mezzo di tregua e pareggia nel 2013. Nel frattempo Napolitano ne combina un pò di tutte, dichiarando prima delle elezioni che sarà garante degli impegni presi dall'Italia (leggi, fiscal compact) a prescindere dal risultato delle consultazioni - manco fossimo in una democrazia sotto sequestro. E negli ultimi mesi prima nega l'incarico pieno a Bersani, poi comincia a predicare le larghe intese - ruolo assolutamente non suo, che deve garantire tutti e non solo le sue parti - poi tenta di far ritornare in vita il cadavere di Monti poi tenta di esautorare il Parlamento nominando dei saggi che dovrebbero decidere di che riforme ha bisogno il paese.
Oggi accetta l'incarico di tornare Presidente, offerto all'unanimità da PD e PDL (con l'eccezione del povero Mineo).
Per la prima volta un Presidente tornerà al Colle. E sarà il Presidente peggiore di tutti. Quello che ha affossato il paese, salvato Berlusconi e tramato contro il PD e la sinistra. Un giorno di lutto.

La senti la voce del popolo incazzato?

E' la musica di chi non vuol più essere schiavo.....
I miserabili, però, stavolta, sono altri

venerdì 19 aprile 2013

SEL: un ruolo nel futuro

Di @MonicaRBedana

La minuscola SEL, che le profezie volevano fagocitata dalla coalizione col PD; dileggiata perchè si dava per scontato che avrebbe rinunciato al proprio programma pur di sedere sui banchi del Parlamento; accusata dalla sinistra di aver spaccato l’unità a sinistra per buttarsi al centro (leggenda urbana pari solo a quella che vuole Bertinotti colpevole di aver fatto cadere Prodi).

Questa piccola grande SEL è l’unico barlume di sinistra che rimane in piedi. 
E mi auguro sia destinata a raccogliere e rimettere insieme pazientemente i cocci di un’identità frantumata. Un’eredità pesantissima, dolorosa e appassionante perchè, comunque vada, non c’è idea di sinistra che esca dalle macerie del PD (al massimo una manciata di giovani turchi volenterosi). Non è sinistra quella che con buona parte della Prima Repubblica si afferra al potere al prezzo di perpetuare, anzi, perpetrare Berlusconi. Non lo è l’alternativa di Renzi, per il quale l’articolo 18 è tabù almeno quanto per Confidustria. Mentre la proposta di Barca poteva essere tutto, non fosse stato per quel tempismo da legge di Murphy.

SEL un programma di sinistra ce l’ha, intatto.

Una dignità di sinistra l’ha conservata e dimostrata, votando compatta Rodotà, sfilandosi con coraggio da una coalizione che non rappresenta più da un pezzo i propri votanti (e nemmeno sé stessa, in buona parte).

Ha saputo comporre col M5S l’unico dialogo minimamente fecondo di questi 54 giorni sterili di democrazia.

Ci ha regalato una donna presidente della Camera solida (come non conoscevamo dai tempi della Iotti) e capace di emozionarci pronunciando la parola “uguaglianza”.

Se il futuro appartiene ancora a chi, nonostante tutto, non si è disilluso, SEL dovrebbe pensare subito al proprio ruolo in quel futuro.


giovedì 18 aprile 2013

I tafazzi del PD






Che partito patetico. Non ci sorprendiamo, in verità, lo avevamo detto da tempo. Ma sta volta sono riusciti ad andare oltre l'immaginabile.
Avevano un rigore a porta vuota: Grillo aveva proposto Rodotà, ex parlamentare DS, nientepopodimenoche...
Un presidente che garantiva i diritti, la Costituzione, i cittadini. Soprattutto sarebbe stato il risultato di una convergenza per il cambiamento, per aprire una pagina nuova, davvero una terza Repubblica in cui finiva l'era berlusconiana. Macchè.
Come nel 96, come nel 2006, come nel 2011 si è deciso di farsi un giro sulla giostra berlusconiana, giusto per provare l'ebrezza dell'ennesima martellata sui maroni. Si elegge Marini in combutta col Pdl, proprio quello che l'Italia ha chiesto alle ultime elezioni quando l'ex sindacalista CISL è stato pure trombato. Una piccola ricompensa, siamo sicuri, ci sarà. Magari un governicchio Bersani che prenderà la fiducia grazie a Silvio e ai suoi fratelli. Fintanto che sarà conveniente per il buon Berlusconi, persona notoriamente di parola e interessata al bene del paese. Poi, un bel calcio in culo, meritato, e tutti a votare.
Ci si poteva aspettare qualcosa di diverso? Beh, forse ci si era illusi. Grillo si era comportato da furbo, ma un buon furbo, aveva proposto una alternativa a cui il PD non poteva dire no, e ovviamente ha detto no. Fassina ha definito Grillo un volpone della politica. Sicuro in confronto a loro parliamo di uno statista. Il M5S ha proposta una uscita a sinistra. Il PD è andato a sinistra. Peccato fosse quella democristiana.

mercoledì 17 aprile 2013

Bersani&C: per votare Rodotà non è troppo tardi

L'inazione politica del PD ha colpito ancora. Candidati semi-segreti che escono sui giornali per poi non essere né smentiti nè confermati. Incontri con Berlusconi per parlare di presidenti, perché bisogna garantire tutti. Ma soprattutto liti nel partito, una parte tifa Prodi, un'altra Finocchiaro, e i cattolici vogliono Marini. Con in mente soprattutto quello che succederà dopo l'elezione, dimenticando, a volte, che il Presidente rimarrà in carica 7 anni e non 3 mesi. Non proprio un bello spettacolo, con il nome del candidato che rimane un segreto fino alla fine, manco fosse il gioco dei pacchi. Bell'esempio di politica nuova.
Dopo aver sperimentato con successo il metodo Boldrini-Grasso il PD sembra aver dimenticato l'unico vero successo portato a casa da mesi a questa parte. Lasciando così l'iniziativa a Grillo, che con le sue primarie ha scavalcato il PD a sinistra e con mossa intelligente ha proposto candidati super partes ma politicamente riconducibili al campo progressista. Un modo per andare a vedere le carte del campo avversario.
Gabanelli, Strada, Rodotà: 3 nomi di alto profilo. I primi due ottimi esponenti della società civile, persone serissime, ma forse non troppo adatte al ruolo di Presidente. Rimane Rodotà su cui Grillo ha già speso parole di stima e di possibile accordo. Al momento nel silenzio tombale, drammatico del PD. Votarlo sarebbe la scelta più intelligente, più giusta. Certo, rischia di diventare una scelta debole perché imposta da altri, ma questo è il prezzo che si paga ad aspettare troppo. Forse Rodotà che sostiene il referendum a Bologna per togliere i finanziamenti alle scuole private, quello stesso Rodotà che si batter per i beni comuni contro la mercificazione dei diritti è un candidato scomodo per il PD, o almeno per una sua parte. Ma è un candidato che gran parte degli elettori di sinistra apprezzerebbe, che garantirebbe cittadini e Costituzione e non solo un qual certo ceto politico. Un candidato che potrebbe aprire nuove prospettive anche di governo del Paese, una convergenza su un cambiamento vero.
Non è troppo tardi per votarlo.

lunedì 15 aprile 2013

Lite tra comari al PD. La politica quando?

Ormai il PD sembra un romanzo scritto da Calvino, il castello dei destini (personali) incrociati. In realtà forse no, Calvino non avrebbe scritto una storia di così bassa lega. L'attacco di Renzi a Bersani di domenica sera è quasi indecente: al TG5 a sparare bastonate tutte contro il suo partito, alla faccia del gioco di squadra. Ma se non gli piace niente e nessuno, perchè non fa qualcos'altro? Mistero.
Accusa Bersani di pensare solo a se stesso, ma il sindaco di Firenze non sembra fare nulla di diverso. Sgomita, si fa vedere, teme di rimanere fuori dai giochi.
D'altra parte, però, Bersani, ha portato avanti, nell'ultimo mese, una azione politica debolissima e quindi facilmente tacciabile di immobilismo. Prima un tentativo, legittimo, per formare il governo. Ma poi? Ci si è arenati immediatamente. Ha un bel da dire, Bersani, davanti alle critiche di Scalfari e altri che il suo nome e il suo ruolo non sono un problema, che si può far da parte subito. Parole, ma fatti? Davanti all'impossibilità di formare un governo PD-SEL bisognava proporre qualcos'altro. Se non vuoi andare con Berlusconi - e per fortuna - allora devi provare a trovare un equilibrio alternativo ed avanzato con le altre forze politiche. In fondo, se guardiamo alle Quirinarie del M5S,  di 10 candidati oltre metà hanno una storia di sinistra, e altri sono comunque stati in area PD, uno addirittura è Romano Prodi. Il messaggio, per chi lo vuole leggere, è chiarissimo: il terreno per un incontro su una personalità condivisa c'è tutto. Al Quirinale, e a Palazzo Chigi. Anche contro Berlusconi, che problema c'è? D'altronde un candidato contro il M5S non sarebbe certo più rappresentativo!
Ecco, Bersani e l'intero PD avrebbero dovuto dirigersi fortemente in quella direzione, la ricerca di un nome e di una squadra politicamente partigiani ma staccati dalla politica di partito, e su quella base provare un nuovo incontro con Grillo. Nessuna garanzia di successo, ma almeno ci si prova. Raccogliendo due piccioni con una fava: da una parte si vanno a vedere le contraddizioni del M5S che ha avuto vita facile a dire no ad un governo del PD ma avrebbe ben più difficoltà a dire un no a prescindere a personalità che loro stessi stimano; e dall'altra parte scovare i nemici interni, quelli che vogliono il patto con Berlusconi, quelli che cercano di frenare Bersani, quelli che puntano su Renzi.
Insomma, si doveva fare politica.
Ed invece siamo alle liti da pollaio.

domenica 7 aprile 2013

Il PD allo sbando

E i nodi finalmente arrivarono al pettine. Da una parte Renzi che non vuole il governo Bersani che rischierebbe di farlo fuori politicamente. Dall'altra Franceschini che vuole il dialogo con Berlusconi. E poi Bersani stesso incapace di uscire dall'arrocco, "il mio governo o nulla". In mezzo il dialogo con Berlusconi sul Quirinale, i no di Grillo, le alchimie di Napolitano che le tenta tutte per rimettere in vita la grande coalizione. In un panorama di incapacità clamorosa di proporre scelte politiche innovative.
Tutti ora si concentrano sulla legge elettorale, come se quella fosse stata l'origine dei mali e del parlamento ingovernabile, quando invece rappresenta abbastanza fedelmente la realtà di un paese diviso in tre in cui due forze politiche devono mettersi d'accordo per governare. Il punto, naturalmente è come farlo. Dopo il rifiuto di Grillo rimane solo Berlusconi? E si può andare al governo con chi si è descritto per anni come il demonio? O più semplicemente, ci si può andare con chi ha predicato l'evasione fiscale, fatto votare al parlamento che Ruby fosse la nipote di Mubarak e che è tuttora portatore di un enorme conflitto d'interessi (a parole da sempre la prima legge da fare per il centro-sinistra...)? Beh, la storia dice che si può, visto che è già successo. Ma non è certo auspicabile.
Il PD ha pagato a caro prezzo la scelta suicida di sostenere Monti insieme a Berlusconi. Ora Franceschini e pure il capogruppo Speranza (ma per chi??) propongono la stessa minestra riscaldata, a cui aggiungono un po' di condimento per farla sembrare diversa. Ma è sempre orribile. Lette tra le righe, queste interviste dicono circa: dialogo sul Quirinale e poi varo di un governo PD che però vada oltre il confine del centrosinistra, cioè che viva sul supporto di Berlusconi. Cerchiamo di salvare la faccia non mettendo i ministri del PDL, ma l'alleanza sarebbe nei fatti. E i fatti sarebbero poi la successiva legislazione, in cui possiamo solo immaginare che il conflitto d'interessi, la redistribuzione del reddito, la tutela del lavoro, il rilancio della scuola pubblica, la scure sulle spesi inutili (dagli F35 al TAV) non sarebbero certo parte dell'agenda.
Una scelta folle e suicida, che lascerebbe l'Italia nel pantano, squalificherebbe definitivamente il PD e forse finirebbe per spaccarlo e riconsegnerebbe di fatto il Paese a quei poteri e a quelle politiche che lo hanno caratterizzato per 20 anni che hanno prodotto il bel risultato che abbiamo ora davanti a noi.
E si dirà, ma non ci sono altre possibilità. Davvero? Strano perché la strada maestra, in realtà, non è mai stata tentata. Il PD è andato al Quirinale e poi a parlare con Grilo sostenendo in buona sostanza un monocolore Bersani - ed il fatto che Grillo abbia detto no, in realtà, è normale (anche se molto meno lo è il rifiuto a prescindere di discutere del programma). Non si capisce perchè il M5S avrebbe dovuto sostenere un governo fatto dai suoi avversari. Ben diverso, come dice, solo ora, con grave ritardo, Rosy Bindi, sarebbe stata una proposta politica di alternativa, e cioè un governo progressista di personalità di prestigio e non di provenienza PD che avrebbero potuto fare da ponte tra il partito di Bersani e quello di Grillo. I nomi sono i soliti, da Rodotà a Zagrebelsky. Che con un programma innovativo avrebbero messo il M5S davanti alle sue responsabilità e sarebbero andati a vedere le carte di Grillo. Che ha un gruppo parlamentare già in fermento sulla possibilità di sostenere il PD, figuriamoci se l'alternativa era sostenere un governo di cambiamento slegato dai partiti!
Non si sa perchè il PD non abbia deciso di intraprendere tale percorso virtuoso. Forse troppa smania di governo e di potere. O forse paura del cambiamento vero che un governo di questo genere avrebbe portato - rottura forte sulla laicità, sulla scuola, sui beni comuni, cioè tutti quei temi che l'elettorato di sinistra ha sempre supportato ma che il gruppo dirigente del PD è stato per anni assai restio a cavalcare, se non a parole. Ed ora, invece del cambiamento, rischiamo di ritrovarci con Berlusconi.
Complimenti all'ennesima oscena prova di sè data dal PD.

giovedì 4 aprile 2013

Congelarsi fa bene

Di MonicaRBedana

Forse in questi giorni dovremmo volgere lo sguardo con più attenzione verso il sudamerica.

Lí, lontano, dove l’avanzata della sinistra sembra essere ormai una tendenza chiara, in grado di produrre governi più stabili, più duraturi e dai quali emerge sempre un leader la cui figura esce rafforzata alla fine del mandato. Dove la politica la fanno in buona parte anche le donne, non sotto forma di caritatevole concessione, come siamo abituati a vedere dalle nostre parti, ma per larghissimo consenso popolare.

Quindi a fianco della sinistra bolivariana di Chávez (che Maduro erediterà quasi certamente) e di Correa (recentemente riconfermato) o di Morales (che con ogni probabilità si ripresenterà alle prossime elezioni), si dispiega la sinistra al femminile declinata, nelle loro diversità e peculiarità, dalla Fernández de Kirchner, la Rousseff e nell’atteso ritorno di Michelle Bachelet in Cile.

Il caso della Bachelet è paradigmatico per l’Italia, col suo centrosinistra incarnato da un PD che ha perso vertiginosamente consensi sia all’esterno che all’interno dopo le primarie, che si è alleato con SEL ma non ha saputo fare scelte più coraggiose ed agglutinare anche le proposte di Rivoluzione Civile. E con un Matteo Renzi che dal silenzio e la fedeltà è passato in 24 ore alla logorrea e la scissione quasi aperta.

Michelle Bachelet ha guidato con serietà ed efficacia per 30 mesi l’area dell’ONU dedicata alle donne. Lontano dal Cile, osservando in assoluto silenzio l’evolversi della situazione nel proprio Paese; la punta dell’iceberg che conosciamo, quelle proteste studentesche a favore dell’istruzione gratuita per tutti, duramente represse; quel sistema sanitario pubblico messo in discussione; il futuro incertissimo della classe media che porta tutto il peso delle misure fiscali. 
Il programmma Bachelet per un nuovo corso politico, economico e sociale parte da un unico punto: combattere le disuguaglianze in modo profondo, con decisione e a tutti i livelli. Perché “se è vero che la crescita produce lavoro, migliora le entrate ed il dinamismo dell’economia, tale crescita non è reale se non è inclusiva, se la ricchezza che produce non arriva a tutti gli abitanti di un Paese”. Sono le parole di chi per 30 mesi ha saputo interpretare correttamente gli effetti di “una globalizzazione che non è stata beneficiosa per tutti ed ha reso più profondo il divario della disuguaglianza”.

La candidata lavorerà con un gruppo ristretto di assessori, cercando il confronto diretto coi cittadini, prendendo le distanze dall’apparato del calderone di partiti di centrosinistra che la sostiene -chiamato La Concertación - e che, secondo i sondaggi, allo stato attuale gode soltanto del 22% dei consensi . Bachelet aprirà al Partito Comunista, ammettendo senza tabù che nel suo mandato precedente alcune cose non furono fatte bene, altre non si fecero affatto e non è più tempo di riforme all’acqua di rose. Secondo l’ultimo sondaggio il 54% dei cileni è disposto a votare per lei nelle elezioni di novembre. E i candidati de La Concertación faranno delle primarie senza paletti.

Vien da pensare che se Bersani si fosse fatto un giro per il polo sud ora magari non sarebbe congelato.

martedì 2 aprile 2013

Nel PD si scatena la guerra sul TAV

Ormai siamo allo scontro aperto. Da una parte Fassino e i piemontesi, dall'altra Puppato ed Emiliano, con in mezzo Bersani e i romani che tacciono non riuscendo (o non volendo) ridiscutere la situazione del trasporto ad alta velocità. I fatti sono noti, con Puppato ed Emiliano in visita ai cantieri che si schierano per abbandonare, o quantomeno congelare, il progetto della Torino-Lione. E le reazioni isteriche di Fassino e soci.
Finalmente nel PD sembra avanzare una discussione seria, con esponenti importanti che fanno sentire la propria voce per chiudere una stagione assurda di monolitismo nella quale il progetto europeo non si poteva neanche discutere. Invece Puppato con una bella lettere al Corriere ha detto le cose come stanno. Perché spendere una montagna di soldi per la Torino-Lione quando questi soldi non ci sono, quando il cantiere finirà nel 2040, quando gli effetti occupazionali e di crescita sono modestissimi? Ma soprattutto perchè farlo quando per quei soldi ci sarebbero opportunità - anzi, io direi necessità - di investimento ben più urgenti?
Come detto su questo blog qualche giorno fa, se il PD vuole ricominciare a parlare ai cittadini deve farlo partendo dai bisogni materiali. E i bisogni materiali di molti cittadini sono legati non al TAV ma al trasporto locale, alla situazione dei pendolari. Investire sulle linee locali vuol dire ridurre i tempi di trasporto, le condizioni di viaggio, vuol dire anche ammodernare il paese e renderlo più efficiente, competitivo e produttivo. Mentre invece si sta andando in direzione completamente opposta - basti pensare al ridimensionamento dei trasporti pubblici tra Grosseto e Roma, alla faccia della mobilità. Fare politica vuol dire ordinare le proprie priorità - cosa fare e quando farlo, dove fare investimenti, a favore di chi spendere i soldi esistenti.  In questo caso, per un partito che si voglia ancora dire di sinistra - ma forse anche semplicemente dotato di buon senso - la scelta pare davvero scontata.