lunedì 23 maggio 2011

L’incerto futuro italiano


Brutte notizie dai mercati finanziari: Standar&Poor’s ha confermato il rating di A+ del debito italiano ma ha modificato l’outlook da stabile a negativo, segnalando l’inquietudine che circola sui mercati riguardo la salute dell’economia italiana.
Usciamo subito dall’equivoco che riguarda il sistema di rating. Certo il giudizio di S&P’s, così come delle altre agenzie, è un giudizio non solo economico ma anche politico – non è un caso che il giudizio negativo sul debito USA sia arrivato in concomitanza con lo stallo parlamentare sul piano di rientro dal debito e la previsione negativa sull’Italia venga data dopo le elezioni amminsitrative ed in un periodo di affanno del governo, mentre nubi sempre più scure si addensano sull’intera area dell’Euro. D’altronde l’economia, lo sappiamo, non è una entità separata dalla politica. Sicuramente le agenzie di rating non sono un oracolo, una voce obiettiva al di sopra delle parti ma sono anzi parte integrante di un sistema finanziario inefficiente, incontrollabile ed, in questo caso, con un gigantesco problema di conflitto d’interessi. D’altro canto, però, non si può festeggiare il giudizio delle agenzie quando è positivo e rigettarlo quando invece è negativo. E, soprattutto, tale giudizio ha un impatto sull’andamento dei mercati finanziari, a torto o ragione che sia.
In questo caso specifico poi, S&P’segnala, con ritardo, un problema evidente. L’Italia non cresce, il PIL resta al palo ed è questo che le agenzie di rating considerano preoccupante. In questi anni Tremonti si era vantato di aver salvato l’Italia dalla crisi internazionale, con una recessione ridotta rispetto ad altri paesi europei e con conti economici meno disastrosi che altrove. La verità, però, è assai più complessa e meno rosea di quella descritta dal Ministro dell’Economia. L’Italia ha sofferto (relativamente!) meno di paesi come Grecia, Portogallo, Spagna o anche Gran Bretagna perchè la nostra economia era molto meno dipendente dai settori maggiormente colpiti dalla crisi, quello finanziario e quello edilizio che avevano contribuito in larga parte al boom di Londra e Madrid, o Washington. Dunque, la tenuta dell’economia è stata in larga parte dovuta a motivi strutturali che poco hanno a che fare con le politiche del governo.
Quanto alla tenuta dei conti pubblici, i tagli lineari di Tremonti hanno diminuito la spesa corrente del governo, in tal maniera evitando un ulteriore aumento dello stock di debito – il rapporto debito/Pil è inizialmente cresciuto per poi diminuire negli ultimi due anni. Il problema è che queste politiche economiche hanno un effetto positivo (e solamente a livello di conti pubblici!) nel brevissimo periodo, ma sono foriere di problemi ben più grandi di quelli che cercano di nascondere. Colpendo indiscriminatamente tutti i settori, quelli produttivi e quelli improduttivi, i tagli lineari mettono in salvo i conti in un dato momento, ma non effettuano scelte di politica economica, non danno una prospettiva di sviluppo al paese ed anzi minano le possibilità di crescita future. Inoltre colpiscono in maniera disproporzionata i ceti più deboli – come ovvio i tagli ai servizi dello stato riguardano maggiormente la fascia di popolazione più povera – riducendone così ulteriomente la capacità di consumo e, di conseguenza, diminuendo la domanda aggregata (i poveri consumano una parte di reddito disponibile assai maggiore di quella dei ricchi). Detto in breve, le politiche tremontiane rimandano solo l’ora di fare i conti con la crisi.
Intendiamoci, non è solo Tremonti ad essere responsabile di questa situazione. L’Italia viene da due decenni di stagnazione in cui i governi si sono occupati solo dei conti macroeconomici rinunciando a qualsiasi politica industriale, sperando che fosse il mercato a sopperire a tale mancanza. Speranza poi risultata vana. A cominciare dai gabinetti presieduti da Amato e Ciampi si è dato la precedenza alla riduzione del debito – si era nel periodo della crisi dello SME – cosa poi ripetuta dal primo governo Prodi per cercare di entrare nell’Euro. L’effetto netto, però, è stato l’affossamento dell’economia reale. L’Unione monetaria europea è nata seguendo sostanzialmente la stessa filosofia monetarista, concentrandosi su inflazione e debito e non occupandosi della crescita. Ed anche altrove in Europa, la risposta all’attuale crisi è stata all’insegna dei tagli che avrebbero dovuto rassicurare gli investitori sulla solvibilità del governo. L’avvitarsi della crisi greca, il secondo bail-out in pochi mesi dell’Irlanda, il dramma portoghese e, da ultimo, il giudizio negativo sull’economia italiana ci parlano però di una situazione assai diversa, in cui i tagli non solo non bastano ma anzi acuiscono i problemi. Di fronte a tale fallimento è arrivata dunque l’ora di aprire una seria riflessione sull’intero sistema economico, italiano ed europeo, lanciando una nuova proposta politica ed economica per il superamento della crisi.

Nicola Melloni (Liberazione) 

1 commento:

  1. segnalo una interessante intervista a ciocca sul manifesto che ben si integra col pezzo scritto da me: http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20110522/manip2pg/06/manip2pz/303614/

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