martedì 3 gennaio 2012

Grecia, lo specchio del futuro. Cronaca annunciata di una crisi.
Di Nicola Melloni

L'editoriale del 31 dicembre 2011 da "Liberazione"


In questi ultimi due anni Liberazione ha ostinatamente denunciato gli sbagli, le assurdità ed i crimini perpetrati dall'Unione Europea ai danni della Grecia. Ad ogni vertice europeo si assisteva alla solita sfilata di leader che spiegavano come Atene non fosse un problema, come la situazione fosse sotto controllo, come i piani di salvataggio avrebbero rimesso in piedi il paese senza problemi. Ogni volta abbiamo spiegato quali fossero i veri problemi della Grecia e come gli interventi europei peggiorassero la situazione, invece di risolverla. Prima sembravamo piantagrane e disfattisti, poi, pian piano, anche gli altri giornali se ne sono accorti. In un drammatico crescendo l'Europa è stata sostituita dal direttorio franco-tedesco mentre la crisi raggiungeva prima Irlanda e Portogallo e poi Spagna ed Italia. Nulla però, nella sostanza è cambiato, nonostante l'incontrovertibile evidenza del fallimento dei pacchetti di aiuti targati Ue e Fondo monetario.

L'analisi della crisi greca è stata sbagliata fin da subito. Si è tentato di spiegare che il problema fossero i conti truccati e i numeri sballati. In fondo, si sosteneva, la Grecia ha una economia solida e con un banale riaggiustamento dei conti pubblici si sarebbe ridata fiducia ai mercati e ristabilito un circolo virtuoso di crescita. In realtà i problemi della Grecia erano e sono problemi strutturali dell'area Euro, cui si sono aggiunti i trucchi contabili, per altro avallati sia dalla finanza internazionale che dalla Commissione europea. La Grecia, come tutta l'Europa meridionale soffre di un problema di competitività legato al cambio fisso, ed improbo, della moneta unica. Un cambio che ha avvantaggiato l'Europa del Nord e soprattutto la Germania che continua ad avere esportazioni maggiori ad importazioni solo grazie al mercato unico dove i suoi prodotti spadroneggiano.

La creazione di un mercato "tedesco" era stata "comprata" con l'unificazione monetaria e dunque con l'abbassamento generalizzato dei tassi di interesse. Questo ha permesso al capitale internazionale, soprattutto quello tedesco e francese, di cercare nuove possibilità di investimento nell'area mediterranea dell'euro. Ed ogni paese ha usato questi fondi, chi meglio e chi peggio, la Spagna costruendo infrastrutture, la Grecia aumentando il debito pubblico, l'Italia lasciando che l'evasione fiscale si mangiasse i conti pubblici. Alcune scelte sono state lungimiranti, altre criticabili. Ma non si può sostenere, come si continua invece a fare, che Italia, Grecia o Spagna abbiano vissuto sopra i loro mezzi. L'afflusso di capitali, l'indebitamento pubblico o privato è stato pagato in moneta sonante, con un costante trasferimento di risorse dal Sud verso il Nord Europa - che le rimetteva poi in circolo. In parole povere, questo movimento di capitale finanziario era usato, soprattutto, per finanziare le esportazioni dell'industria tedesca.

Il meccanismo, come già negli Anni '80 con i paesi del Terzo Mondo, è esploso in coincidenza di una crisi finanziaria nata altrove e non legata alle dinamiche del debito europeo. Ha però messo in luce i problemi strutturali legati alla composizione del mercato unico europeo. Ed invece si è cercato di spiegare la crisi con la pigrizia e la "dolce vita" dell'Europa latina. Le soluzioni proposte sono state dunque la logica conseguenza di questa lettura parziale e sbagliata. I paesi in crisi sono stati obbligati a tagli e sacrifici per rilanciare la competitività perduta a causa del cambio fisso europeo.

Quindi licenziamenti di massa ed aumento dell'"esercito industriale di riserva" di marxiana memoria per diminuire il livello dei salari, taglio selvaggio delle spese statali per rassicurare i mercati circa la solvibilità dei paesi con deficit e debito troppo alti. Un classico esempio di ristrutturazione capitalista che però è sia politicamente che economicamente disastrosa. La crisi dell'eurozona non è un fallimento dello stato, ma un fallimento del mercato, a volte mediato da politiche pubbliche disastrose come in Grecia, ma non certo nei casi di Spagna ed Irlanda, per anni osannate dagli economisti liberali come esempio di mercato flessibile ed efficiente. Le politiche pro-cicliche della Ue non colgono dunque l'essenza del problema ed hanno, inevitabilmente, peggiorato la situazione.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La disoccupazione in Europa è alle stelle, in Spagna oltre il 20%, in Grecia al 17%. Nel paese ellenico, taglio dopo taglio, si è solo accentuata la recessione, presto trasformata in depressione. E quindi a tagli si sono aggiunti tagli, perché le entrate fiscali scendono durante i periodi recessivi mentre le spese aumentano. Un circolo vizioso che sta portando la penisola ellenica verso il baratro. In situazioni "normali" di crisi finanziaria, il collasso dei conti pubblici travolge l'economia reale ma offre anche un salvagente per ripartire, la svalutazione. E' successo in Russia, nel 1998, dove il crollo del rublo ha rilanciato la produzione industriale. E' successo in Corea nel 1997 dove la rovinosa crisi asiatica, e le ancor più rovinose medicine del Fmi sono state superate grazie al rilancio delle esportazioni negli anni immediatamente successivi al collasso finanziario. E' successo pure in Argentina dove, dopo il default, l'economia è ricominciata a crescere ed ha avuto le migliori performance dell'America Latina nell'ultimo decennio.

Questo rilancio è invece impossibile in Grecia, con l'euro che blocca ogni possibilità di svalutazione competitiva. La moneta unica è chiaramente un bene da salvaguardare, ma l'unica maniera per farlo era avviare un giusto risanamento dei conti pubblici basato soprattutto sul rilancio dell'economia reale e sul taglio dei veri privilegi - dalle esenzioni agli armatori all'evasione fiscale di massa della borghesia.
Si è scelto, invece, di affondare il Paese. I mercati finanziari hanno ripetutamente bocciato i piani di salvataggio, valutando, a ragione, la Grecia come tecnicamente fallita. Ed infatti, puntuale, è arrivato l'hair cut sui titoli del debito. I ricchi greci intanto partivano con mazzette di euro in tasca dal Pireo in direzione Berlino e Londra, impauriti dal rischio sempre più reale di una uscita dall'euro, di un blocco dei conti correnti, di una svalutazione rovinosa. I poveri invece hanno dovuto subire il fallimento de facto dello Stato, scuole senza libri e ospedali senza medicine.

Ma le contraddizioni del capitalismo, pur emerse con forza e nettezza quasi inaspettate, non hanno per ora portato ad un cambiamento di paradigma, anzi. Le forze della reazione hanno sgombrato il campo, lavorando incessantemente per trent'anni a livello economico, con la sempre più accentuata marginalizzazione del sindacato, e per vent'anni a livello politico col liberismo di sinistra e la scomparsa della socialdemocrazia classica. Per questo il prezzo della crisi, in Grecia, lo pagano i lavoratori. Per questo la stessa cosa succede in Spagna ed in Irlanda, ma anche in Francia ed in Inghilterra. Per questo il problema della Grecia è anche e soprattutto il nostro. La riorganizzazione capitalista ad Atene è solo lo specchio in cui la nostra immagine, l'immagine dell'intero capitalismo occidentale, viene riflessa.

Una immagine orribilmente deformata ma veritiera che mostra una economia solcata ancora una volta da un divampante conflitto di classe. Politici, giornalisti ed accademici prezzolati continuano la loro incessante guerra mediatica, si parla di conflitto inter-generazionale, di privilegiati contro senza diritti, ma ancora una volta la contrapposizione è quella dei poveri contro i ricchi. Le piazze piene di Atene sono composte da chi ormai non ha nulla da perdere, se non le proprie catene. E così sono le piazze italiane degli studenti senza futuro trasformati non in figli della borghesia arrabbiati, ma in proletari in fieri. Ed identiche sono le piazze spagnole degli indignados a cui sono stati tolti contemporaneamente l'autodeterminazione economica e la rappresentanza politica. Qualcosa, sotto la cenere, si muove e non è un caso che ad Atene, come a Mosca e Santiago, in prima fila ci siano le bandiere rosse.

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