Eravamo stati buoni, seppur facili, profeti. La scorsa settimana avevamo detto che il secolo americano era finito e dopo neppure due giorni anche Standard&Poor's ci ha dato ragione, declassando per la prima volta in settant'anni il debito pubblico americano. Anche i guardiani del capitalismo mondiale non si fidano più di Washington. A colpire non è però tanto il declassamento quanto piuttosto le motivazioni addotte: la democrazia americana è sostanzialmente incapace di reagire alla crisi, ostaggio di un sistema istituzionale decrepito. Ora anche le agenzie di rating cominciano ad accorgersi che il re è nudo.
Gli elementi dell'egemonia americana sono ormai messi in discussione e così pure, ovviamente, quelli del capitalismo liberale di stampo anglosassone. Negli ultimi trent'anni l'impero americano si era basato sull'esportazione di un modello ben preciso, da una parte il libero mercato che generava tassi di crescita e ricchezza superiori a qualsiasi alternativa, dall'altra la democrazia come valore universale. Certo questa esportazione era anche e soprattutto avvenuta con le guerre e con l'imposizione di programmi economici per mano del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, ma non si può sottovalutare l'attrazione ed il miraggio che il sogno americano rappresentava per milioni di persone in tutto il globo. Con la caduta dell'Unione Sovietica, poi, sembrava venir meno sia la sfida comunista sia il principale rivale geo-politico degli Usa, e si veniva formando dunque un mondo basato sul pensiero unico neo-liberale e sull'unipolarismo americano. In questi quattro anni le cose, però, sono cambiate drammaticamente. Dal punto di vista economico, il libero mercato non sembra in grado di risolvere la crisi da esso stesso generato: il cuore del capitalismo liberale, l'Occidente, è sotto scacco, con un continuo rimbalzare del debito da mani private a mani pubbliche e viceversa, con l'economia incapace di crescere, con la disoccupazione in aumento. Dal punto di vista politico, dopo il sussulto della vittoria di Obama nel 2008, con tutte le speranze ad essa connesse, l'America ha dimostrato di essere incapace di risolvere i suoi problemi, con una classe politica sempre più ostaggio dell'oligarchia finanziaria che ormai governa il paese, indipendentemente dal Presidente che siede alla Casa Bianca. Queste debolezze strutturali hanno naturalmente modificato il quadro geopolitico: il mondo non solo è ormai multi-polare, ma addirittura la Cina si permette anche di dare lezioni (sacrosante) agli Stati Uniti. A Pechino pretendono cambiamenti strutturali per garantire i loro investimenti in titoli del tesoro Usa, del tipo di quelli che Washington ha imposto in giro per l'Asia, l'Africa e l'America Latina negli anni 90. Corsi e ricorsi storici.
Si tratta di un passaggio cruciale. Con la fine dell'egemonia americana si esaurisce anche, naturalmente, la "spinta propulsiva" del capitalismo liberale nella forma in cui lo abbiamo conosciuto sino ad ora. D'altronde ogni epoca storica ed ogni egemonia politica è stata contraddistinta da rapporti di produzione diversi. Le potenze emergenti, a cominciare dalla Cina, hanno sistemi economici sì capitalisti ma assai lontani dal liberalismo anglosassone, economie basate assai più sulla produzione che non sulla finanza ed in cui lo stato conserva spesso un controllo solido se non sui mezzi di produzione quantomeno sulla politica industriale, governando politicamente lo sviluppo economico e non lasciandolo in mano al mercato. Inoltre, anche nei mercati finanziari occidentali avanzano minacciosi i fondi sovrani, longa manu delle economie emergenti che grazie ai proventi delle loro esportazioni (dal petrolio del Quatar all'industria cinese) stanno accumulando capitali vastissimi da re-investire altrove, investimenti che però, essendo decisi dagli stati e non da semplici agenti finanziari, hanno un'inevitabile ricaduta politica. Il pendolo si sta spostando dai paesi occidentali, pieni di debiti, grassi e ingordi, che consumano più di quello che producono, a quelli orientali, solidamente basati sull'industria, parsimoniosi, con tassi di crescita della produzione manifatturiera in continua ascesa. In breve, il privilegio imperiale dell'Occidente, lo sfruttamento delle risorse altrui per accomodare i propri stili di vita, si sta esaurendo. Con conseguenze ancora difficilmente valutabili e potenzialmente drammatiche se pensiamo che, storicamente, la fine delle egemonie è sempre coincisa con il ricorso alla guerra.
DaLiberazione del 10/08/2011
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