di Nicola Melloni
da Liberazione
Guardando l’Italia di fine aprile 2013 sembra davvero di rivedere gli
ultimi giorni di Weimar. Una classe politica ormai imbalsamata, incapace
di decidere, rinchiusa nel Palazzo, mentre fuori soffia la bufera della
crisi.
Un anno e mezzo fa il crollo della destra berlusconiana apriva praterie
davanti ad un centro-sinistra impreparato, economicamente, culturalmente
e politicamente a prendere l’iniziativa. In Italia la crisi economica
era ormai anche crisi organica, di sistema, con la politica tutta
incapace di rappresentare le diverse forze sociali, di governare il
cambiamento, di organizzare la società. All’orizzonte allora si
stagliava un governo di tecnocrati capitanati dall’ex eurocommissario
Mario Monti che metteva sotto tutela il Parlamento e la Repubblica
tutta, in nome dell’Europa e dei mercati. Non era Monti però il deus ex
machina di questa operazione, ma Giorgio Napolitano che aveva imposto
alle forze politiche un tale compromesso. Tant’è che per tutta la durata
di quel governo il Presidente della Repubblica si incaricò di fare da tutor
ad un Premier impacciato e ad un gruppo di ministri mediocre e
assolutamente incapace. Facendosi garante di un equilibrio politico
conservatore se non reazionario, di difesa dello status quo, di
arroccamento su vecchi modelli consociativi, ignorando in maniera
plateale le richieste di cambiamento. Esplicativa in questo senso la
famosa battuta sul boom dei 5 stelle, ribadita nuovamente nella scelta
dei saggi che escludevano il Movimento di Grillo per puntare tutto sulle
forze sconfitte e decrepite della politica tradizionale.
D’altronde Napolitano ha usato tutto il potere a sua disposizione, e
forse anche di più, per impedire la nascita di un governo di
cambiamento, ribadendo anche quando fu dato l’incarico a Bersani che la
strada maestra era quella della Grande Coalizione. Una scelta che, dopo
l’illusorio tentativo di formare il governo, è stata poi fatta propria
dal PD che prima ha tentato la carta Marini e poi è tornato appunto su
Napolitano. Ma non è il “compromesso storico” tra due forze in ascesa,
rappresentanti di grandi interessi sociali ed economici, ma un
matrimonio di convenienza tra due forze politiche in ritirata, incapaci
di interpretare il cambiamento, proprio come la SPD e la destra tedesca a
inizio anni Trenta.
La scelta di Letta si adatta perfettamente a tale schema ed è in
sostanziale continuità con quella di Monti. Un Primo Ministro che
risponde direttamente al Quirinale e non al Parlamento, un uomo gradito a
grandi imprese, banche, quella parte del Paese che ha portato l’Italia
nella crisi attuale, che ha lucrato nella lunga stagione della Seconda
Repubblica e che rifiuta il cambiamento. Di fronte ad una crisi epocale,
con il vecchio sistema ormai morto e con il nuovo incapace di nascere,
la soluzione Napolitano-Letta è un tentativo reazionario di salvare le
vecchie classi dirigenti, di garantire i potentati economici, di
reimpostare su basi regressive il contratto sociale – democrazia
svuotata, diritti annacquati, indebolimento del lavoro. Per tornare a
Gramsci, una rivoluzione passiva di stampo conservatore.
Quello che però non è chiaro è la reale solidità di queste forze,
incapaci di proporre un qualsiasi disegno strategico, aggrappate più che
altro al proprio interesse personale, emarginate dai grandi processi
mondiali di ristrutturazione del potere e dell’economia. L’immagine
della scorsa settimana di un palazzo assediato raffigura molto bene lo
stato attuale della politica italiana. Il malcontento, la rabbia, la
disperazione rischiano di esplodere da un momento all’altro e possono
prendere qualsiasi forma. L’implosione del PD apre nuove possibilità di
riorganizzazione per la sinistra ma allo stesso tempo la solo rimandata
esplosione del blocco sociale berlusconiano potrebbe dare vita a
formazioni politiche ancor più reazionarie con Grillo che al momento
rischia di catalizzare la protesta. Come a Weimar, una politica legale
ma ormai illegittima si rinchiude in se stessa mentre fuori il mondo
cambia.
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