Dice D'Alema in una intervista al Corriere della Sera:
"Non dimentichiamoci, infatti, che una chiave di lettura di questo voto è
la disperazione sociale. La gente non ce la fa e comprensibilmente è
esasperata verso tutti. Il voto dovrebbe mettere in allarme pure le
tecnocrazie di Bruxelles, perché parla anche di loro: ci vuole un
governo che abbia un mandato forte per fare valere queste ragioni anche
in Europa. Il punto non è "Europa sì", "Europa no", ma "Europa come".
Un concetto simile esprime Andrea Orlando sul Manifesto, quando dice che il PD ha parlato più all'establishment che alla pancia del paese, che ai cittadini interessa come si esce dalla crisi e non il rispetto dei parametri del fiscal compact.
A ma pare una analisi condivisibile al 100%, che ricalca quanto scritto sul "non se ne può più del ' ce lo chiede l'Europa' ". Però D'Alema arriva sempre un po' fuori tempo massimo. E non solo lui. Questa analisi non la si poteva fare prima del voto. Non si poteva parlare alla disperazione sociale invece di lasciarla a Grillo? Ma soprattuto ora, se questa analisi è corretta, cosa propone D'Alema ed il PD per invertire la rotta? Di buone intenzioni sono lastricate le strade dell'inferno - e mai proverbio è stato più vero quando si parla di Italia e sinistra.....
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giovedì 28 febbraio 2013
giovedì 18 ottobre 2012
Per cosa si combatte nel PD?
Onestamente mi sfugge qualche cosa nel dibattito che porta alle primarie. Ieri D'Alema ha calato il carico: se vince Bersani non mi ricandido, ma se vince Renzi è scontro frontale. Addirittura non si esclude la scissione. Perbacco! Ma non si era firmata una carta d'intenti solo poche settimane fa?
Da dove nasce questo scontro politico, e come cambieranno gli scenari politici se vince uno o l'altro contendente? O addirittura se vince Vendola?
Renzi appare come il candidato più moderato, che a parole si dichiara più lontano dalla sinistra tradizionale e dalla Fiom, si dice in sostanziale continuità col governo Monti ma non esita a rottamare anche il Professore - ha spento l'incendio, ora tocca a noi.
Bersani ritiene Monti una riserva alla stregua di quello che fu Ciampi nel 96 (Ministro del Tesoro senza essere eletto) e già questo dovrebbe far scorrere qualche brivido sulla schiena di quelli che invece vorrebbero superare l'agenda Monti, a cominciare dal prode Fassina, le cui analisi sulla crisi sono tutte sostanzialmente condivisibili ma che milita in un partito che sembra pensarla assai diversamente, almeno nella prassi.
In entrambi i casi, infatti, dietro al candidato premier esiste comunque un PD che in questi anni ha imbracciato la linea dell'austerity, ha votato il fiscal compact e ha messo il pareggio di bilancio in Costituzione. Un partito che si appresta a votare l'innalzamento dell'IVA e il taglio dei sussidi per l'accompagnamento dei malati.
Vendola, gli và dato atto, queste cose non le ha fatte, anzi si è costantemente opposto a Monti ed alla UE. Eppure si candida a guidare una coalizione che al momento non sembra voler uscire dal solco tracciato dal presente governo. Certo la carta d'intenti parla di lavoro ed uguaglianza, ma in modo generico. Che il lavoro sia importante lo dicono, ad esempio, sia Romney che Obama, due un po' più diversi di Renzi e Bersani. Sottolinearlo in un programma elettorale rischia di essere semplicemente uno specchietto per le allodole.
Ed allora se i programmi sono ancora da definire nella migliore delle ipotesi o, più probabilmente, sostanzialmente simili, perché questa guerra all'ultimo sangue? Queste primarie sembrano più che altro una guerra sulle persone e sul potere che si crea intorno a certi nomi. Un elemento così vitale che rischia addirittura di spaccare il PD. Che non dà certo una bella rappresentazione di sé stesso, ma che ci fornisce un interessante spaccato della realtà italiana: le battagli si fanno sui nomi e sugli organigrammi, non sulle idee e sulle scelte politiche.
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Da dove nasce questo scontro politico, e come cambieranno gli scenari politici se vince uno o l'altro contendente? O addirittura se vince Vendola?
Renzi appare come il candidato più moderato, che a parole si dichiara più lontano dalla sinistra tradizionale e dalla Fiom, si dice in sostanziale continuità col governo Monti ma non esita a rottamare anche il Professore - ha spento l'incendio, ora tocca a noi.
Bersani ritiene Monti una riserva alla stregua di quello che fu Ciampi nel 96 (Ministro del Tesoro senza essere eletto) e già questo dovrebbe far scorrere qualche brivido sulla schiena di quelli che invece vorrebbero superare l'agenda Monti, a cominciare dal prode Fassina, le cui analisi sulla crisi sono tutte sostanzialmente condivisibili ma che milita in un partito che sembra pensarla assai diversamente, almeno nella prassi.
In entrambi i casi, infatti, dietro al candidato premier esiste comunque un PD che in questi anni ha imbracciato la linea dell'austerity, ha votato il fiscal compact e ha messo il pareggio di bilancio in Costituzione. Un partito che si appresta a votare l'innalzamento dell'IVA e il taglio dei sussidi per l'accompagnamento dei malati.
Vendola, gli và dato atto, queste cose non le ha fatte, anzi si è costantemente opposto a Monti ed alla UE. Eppure si candida a guidare una coalizione che al momento non sembra voler uscire dal solco tracciato dal presente governo. Certo la carta d'intenti parla di lavoro ed uguaglianza, ma in modo generico. Che il lavoro sia importante lo dicono, ad esempio, sia Romney che Obama, due un po' più diversi di Renzi e Bersani. Sottolinearlo in un programma elettorale rischia di essere semplicemente uno specchietto per le allodole.
Ed allora se i programmi sono ancora da definire nella migliore delle ipotesi o, più probabilmente, sostanzialmente simili, perché questa guerra all'ultimo sangue? Queste primarie sembrano più che altro una guerra sulle persone e sul potere che si crea intorno a certi nomi. Un elemento così vitale che rischia addirittura di spaccare il PD. Che non dà certo una bella rappresentazione di sé stesso, ma che ci fornisce un interessante spaccato della realtà italiana: le battagli si fanno sui nomi e sugli organigrammi, non sulle idee e sulle scelte politiche.
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