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venerdì 24 maggio 2013

A chi non piace la Democrazia.
Di Simone Rossi 


Nel linguaggio pubblico italiano ed occidentale, in particolare in quello attinente alla sfera politico-istituzionale, la parola democrazia è utilizzata frequentemente, per lo più come forma di marketing con cui zittire chi esprime opinioni o concezioni della società differente da quella dominate. Per decenni la parola è servita da marchio commerciale per il sistema capitalista occidentale in contrapposizione al modello sovietico, quasi ad indicare che lo spazio delle forze popolari nella dialettica politica ed lo Stato Sociale fossero insiti nel modello occidentale e non il risultato di rapporti di forza favorevoli alle classi subalterne; tant'è, una volta abbattuto il Muro di Berlino e venuto meno lo spauracchio comunista, chi detiene il potere economico si è ripreso quanto conquistato dai cittadini nel corso di un secolo almeno, ivi compresi gli spazi di agibilità democratica; l'unica forma di stato e di società che piace a chi detiene il controllo dell'economia è quello in cui il più forte, il più ricco, ha piena libertà di fare e disfare, libero dalla critica e dal dissenso, repressi dai cani da guardia a due zampe. Si tratta di un atteggiamento diffuso, latente, che trova riscontro nelle occasioni in cui figure pubbliche si sottraggono alle domande scomode dei giornalisti, quelli riescono ancora a volgere il proprio ruolo di informazione e di investigazione, che reagiscono in maniera stizzita di fronte al dissenso, alla critica argomentata, preferendo i monologhi ed i dibattiti ovattati in televisione. Un atteggiamento che ha trovato la propria massima espressione nella proposta lanciata da alcuni esponenti di destra in Parlamento di punire anche con la reclusione le manifestazioni di dissenso durante i comizi politici, in cui, va da sé, si può accettare solo folla plaudente ed in adorazione del Capo.

A questa concezione conservatrice, quando non reazionaria, della società non si sottraggono quelle forze politiche che si rifanno alla tradizione riformista o che propugnano nuove forme di partecipazione democratica. Nell'edizione di lunedì 20 maggio de l'Unità Emiliano Macaluso, storica figura del PCI e delle sue successive mutazioni genetiche, esprimeva il proprio disappunto per la manifestazione indetta dalla FIOM contro le politiche economiche italiane per il 18 maggio. La motivazione su cui Macaluso ha mosso la propria critica, per cui la FIOM in quanto organizzazione sindacale avrebbe sbagliato a mischiarsi con organizzazioni non sindacali, innanzitutto i partiti della Sinistra appare debole, sopratutto alla luce del fatto che tra i vertici della CGIL ed il partito di Macaluso è sempre esistito un rapporto organico e di convergenza politica, come dimostra il passaggio di molti dirigenti sindacali nelle fila del partito. Ciò che sembra realmente infastidire l'esponente democratico e molti altri suoi colleghi di partito è la possibilità che il dissenso, l'opposizione alle politiche moderate cui aderisce il PD possa organizzarsi e divenire sufficientemente visibile e forte da mettere in discussione la posizione dominante del partito nell'ambito del campo progressista. A confermare questa supposizione è l'accenno nell'articolo stesso alla questione del referendum bolognese sui contributi pubblici alle scuole materne private, bollato come manifestazione di estremismo di quella parte della Sinistra che non sa essere "responsabile".Paradossalmente quella che è una forma di partecipazione democratica dei cittadini alle decisioni sembra non piacere a coloro che si dichiarano democratici già nella propria denominazione (Partito Democratico) nel momento in cui l'esito della consultazione potrebbe non collimare, nel caso bolognese, o non collima, come per il referendum sulla pubblicità dei servizi idrici, con i loro desiderata.

Il referendum bolognese avrà carattere locale ma ha assunto carattere nazionale durata campagna elettorale, con il pesante intervento di esponenti di spicco dei principali partiti di governo, quello delle cooperative, delle organizzazioni di matrice cattolica e della CEI. Più che i finanziamenti in sé, nell'ordine di circa un milione anni, o la "pura indipendenza" del sindacato, per ritornare al Macaluso di cui sopra, ciò che infastidisce e finanche intimorisce i Democratici è la democrazia stessa, intesa come partecipazione attiva dei cittadini della Cosa Pubblica, in autonomia dai partiti e dal controllo paternalistico di una classe dirigente autoreferenziale ed autoritaria. Esperienze come il referendum sulla scuola materna pubblica a Bologna, l’opposizione al progetto TAV in Valle di Susa, i movimenti per la tutela del territorio dalla costruzione di grandi opere invasive ed inquinanti e contro la proliferazione di basi ed installazioni militari (Vicenza, Sicilia) rappresentano piccole crepe nel monolite del pensiero unico che accomuna di oltre vent’anni post comunisti, ex democristiani, liberali e conservatori. Sono il sale della democrazia, non possiamo che auspicare si moltiplichino e siano il preludio per un cambio di direzione del pendolo della Storia.


lunedì 13 maggio 2013

La fine del centrismo


Per anni ci siamo sentiti dire che le elezioni si vincevano al centro, e forse per un po' di tempo è stato anche vero, con la sconfitta globale della sinistra e l'appiattimento di centrodestra e centrosinistra su un programma moderato e pro-mercato, in cui le differenze spesso sono state sui diritti civili e sul carisma della leadership piuttosto che sui programmi di governo.
Ma con la crisi tutto è cambiato, un pò ovunque. In America un presidente nero - ed inizialmente portatore di istanze fortemente progressiste, almeno per l'elettorato americano - è stato eletto, mentre i Repubblicani hanno mobilizzato il loro consenso attraverso una piattaforma dichiaratamente estremista. Ed in Europa sta succedendo la stessa cosa, in maniera ancora più evidente. In Grecia è sparita la sinistra moderata del PASOK e la sinistra radicale è in lotta per essere il primo partito. In Francia il governo Hollande - votato al primo turno da una maggioranza tutt'altro che schiacciate - è in seria difficoltà nei sondaggi, e sia sinistra che destra sono in forte ascesa. In Italia PD e PDL hanno perso insieme circa il 25% dei voti - con la conseguente ascesa del M5S, un movimento radical movimentista, quanto di più lontano dal centrismo si possa immaginare.
Ed in Spagna, come mostra l'articolo qui sotto, PP e PSOE sono ormai alla canna del gas: il primo paga un governo inutile ed inviso alla popolazione, mentre il PSOE non riesce nemmeno a capitalizzare dalla frana dei popolari. Da una parte la sinistra di Izquierda Unida, dall'altra il nazionalismo regionale fanno ormai la parte del leone.
La crisi economica è ormai diventata crisi di sistema, mentre ancora discutiamo sull'importanza dei conti in ordine.


Gobierno sin liderazgo ni apoyo


di Fernando Garea
da El Pais




La rueda de prensa posterior al Consejo de Ministros del 26 de abril fue vista como el punto de no retorno del Gobierno de Mariano Rajoy. Como el momento en el que las expectativas que creó antes de las elecciones de noviembre de 2011 se venían abajo al admitir, por ejemplo, que no se crearía empleo en esta legislatura. Los 6,2 millones de parados y esa imagen de rendición se concretan dos semanas después en un desmoronamiento de la imagen del Gobierno y de su presidente, según el sondeo de Metroscopia para EL PAÍS. El PP está en el 22,5% de estimación de voto, es decir, casi en la mitad del 44,6% de las últimas generales. En caso de elecciones, parte de su electorado podría movilizarse, pero ese 22,5% es el resumen del estado de ánimo del momento.
Ha perdido dos puntos en un mes y de su caída libre da cuenta que la tercera fuerza, Izquierda Unida, está a solo seis puntos de los populares. Gobiernan con mayoría absoluta, en soledad y, según el sondeo, completamente alejados del sentir ciudadano.
Todos los indicadores muestran que la imagen del Gobierno y de su presidente se han derrumbado. No ha servido para frenar la caída la comparecencia de Rajoy en el Congreso el miércoles, con apariencia de discurso dirigido a los cuadros de su partido, más que a los españoles faltos de liderazgo. Vendió con el entusiasmo del que es capaz su éxito sobre la prima de riesgo, un dato intangible para los que sufren recortes y desempleo. Los indicadores de rechazo global llegan a cifras récord: el 80% tiene una impresión negativa del Gobierno; el 74% da por hecho que improvisa; el 87% desconfía de Rajoy y el 77% desaprueba su gestión.
Hay siete ministros que suspenden entre los votantes del PP y, pese todo, el presidente valora positivamente la labor de los miembros de su equipo y asegura que no tiene intención de cambiar a ninguno antes del verano. El Gobierno está reducido a escombros como lo prueba que los ciudadanos sean más críticos con el actual Gabinete de lo que fueron nunca con el último de José Luis Rodríguez Zapatero, que acabó como acabó. Como Rajoy nunca ha sido un líder, la paz interna acrítica se la daba su poder institucional y la abrumadora mayoría absoluta, pero ahora la desesperanza ha empezado a abrir grietas entre él y sectores ruidosos del partido que ven traicionados sus principios sin resultados. Esperanza Aguirre y otros barones regionales no ocultan su disgusto por el incumplimiento masivo del programa y el entierro de sus expectativas. Y la respuesta de Rajoy, para que todos sepan que seguirá sin cambiar el paso, se asemeja a la inscripción de la entrada del infierno de Dante: Que abandonen toda esperanza. La falta de liderazgo hunde la impresión general sobre los principales partidos, porque solo la mitad de los españoles dice que votaría y la tercera fuerza política sería hoy la de la papeleta en blanco.
No hay amparo en el PSOE porque Alfredo Pérez Rubalcaba está en el punto en el que todos girarían la cabeza descreídos aunque proclamara el establecimiento del paraíso terrenal en la tierra. Su imagen se sigue deteriorando, a la espera de ver si aguanta un año más en su travesía de redefinición ideológica y con el PSOE en una estimación de voto del 20,2%, la más baja de su historia, a 2,3 puntos del PP, pero con solo una ventaja de 3,8 puntos sobre IU.
La pregunta entre los dirigentes del PSOE es qué puede ocurrir en las elecciones europeas de dentro de un año, cuando castigar a los dos grandes partidos no tiene consecuencia en gobiernos concretos y hay una circunscripción única que les perjudica. Dirigentes socialistas empiezan a prepararse, si alguien no lo remedia, ante la posibilidad cierta de ser la tercera fuerza política por primera vez.
UPyD se mantiene por encima del 13% con pequeños altibajos, es decir, casi triplica su último resultado.
En este páramo de liderazgo político, los ciudadanos lamentan la ausencia de iniciativas de pacto de Estado frente a la crisis. Un 71% desearía ese acuerdo y el 76% no distingue al atribuir responsabilidad en la falta de iniciativa, pero mira especialmente a Rajoy como culpable. El presidente ya dejó claro el miércoles en el Congreso que no quiere ayuda. Intentará en breve un acercamiento a sindicatos y patronal, pero prefiere refugiarse en el poder de su mayoría absoluta. Ha renunciado al consenso político, ha abandonado el consenso ciudadano y peligra su consenso interno.

sabato 11 maggio 2013

Un altro giorno di miserie politiche

In Italia non ci facciamo mancare mai nulla.
La giornata inizia con Magdi Cristiano Allam, che ha da poco abbandonato la Chiesa Cattolica, troppo arrendevole con gli islamici, e che ora lancia una petizione contro Cecile Kyenge per farla dimettere da ministro. Non è abbastanza italiana. Così il cristiano Allam ha dimostrato come la tolleranza che pretende dagli altri non fa certo parte della sua cultura, malata, bacata. Un esaltato che cerca un po' di notorietà, da vice direttore del Corriere ad un Borghezio qualsiasi. Un pezzente della politica che mendica un po' di attenzione.
Mentre un pò meno sotto i riflettori dovrebbe cercare di stare Anna Finocchiaro, che soprattutto dovrebbe imparare a farsi la spesa da sola, invece di chiedere alle guardi del corpo. Avrà anche diritto alla scorta, la signora. E dovrà, forse, portarsela dietro a fare la spesa. Noi abbiamo sempre preferito criticarla per le scelte politiche - a cominciare dal tradimento degli elettori in Sicilia - ma un pò di decoro al giorno d'oggi non guasterebbe. Invece, dopo il casino successo all'IKEA si fa beccare di nuovo con i gorilla che le fanno la spesa e intimoriscono pure i passanti che tentano di fotografare. Bel colpo da basso impero.
La giornata finisce in crescendo con Renata Polverini contestata duramente durante una cena. Apriti cielo! Squadristi! Vile attentato! Solidarietà bi-partisan! Ma cosa sarà mai successo? Niente botte, niente persone mascherate. Dove sarebbe l'atto vile nel protestare a volto scoperto senza alzare le mani, non si capisce bene. Questa classe politica ci ha portato allo sfascio, disoccupazione, povertà, miseria. Polverini poi era la presidentessa nella cui giunta c'era il famoso Batman, era quella dei tagli alla Sanità. Non si capisce davvero perché non la si possa contestare. Si, anche durante una cena, o bisogna aspettare educatamente che finisca? Questi signori han pensato bene di poter fare i comodi loro senza prendersi la responsabilità, che è politica ma è anche personale. Quando li si applaude va bene, e quando invece si contesta, anche duramente, allora no? La democrazia (e pare che anche il PD, nonostante il nome, ne sappia poco, date le reazioni di solidarietà di casta) sono i fischi, non gli osanna. Il vero squadrismo, di cui gli amici di Polverini sanno qualcosa, sono le restrizioni degli spazi democratici.

lunedì 6 maggio 2013

La democrazia ai tempi della crisi


Proponiamo di seguito un articolo di Donatella Della Porta apparso su Sbilanciamoci.info che spiega con precisione perché la presenza del dissenso, anche e soprattutto radicale, sia il vero metro della qualità della democrazia. Un concetto da tenere bene a mente mentre gli organi di informazione tentano di incolpare il M5S per il fatto di sangue di Roma mentre qualsiasi opposizione alla grande coalizione (come già ai tempi di Monti) viene additata come anti-italiana.


Il diritto al dissenso in tempi di grande coalizione


di Donatella Della Porta
da Sbilanciamoci.info 

Quattro ragioni per difendere il diritto di critica del Movimento Cinque Stelle di fronte a una politica chiusa in se stessa. È l’assenza di dissenso politico, non la sua presenza, a portare a gesti di disperazione individuale
Dopo il ferimento di due carabinieri davanti a Palazzo Chigi, è partito un violento e multilaterale tentativo di criminalizzazione del Movimento 5 Stelle. Se questo attacco è certamente prevedibile da parte di esponenti del centrodestra, fa specie eticamente, e appare molto poco lungimirante strategicamente, quando l’accusa di avere fomentato il clima di rabbia viene rivolto a un Movimento del tutto pacifico da parte di esponenti del centrosinistra, direttamente e attraverso i loro, sempre più partigiani, organi di informazione, da TG3 a Repubblica.
Ci sono infatti almeno quattro buone ragioni per le quali la sinistra e, persino il centro sinistra, dovrebbero difendere con grande vigore il diritto al dissenso non violento del movimento.
In primo luogo, come scriveva Rosa Luxemburg, la libertà e sempre la libertà di chi pensa diversamente. In un momento di governo di grande coalizione, quando domina un pensiero unico, arrogante e intollerante rispetto a ogni voce dissenziente, è ancora più importante difendere il diritto al dissenso. Come dimostrano i (per fortuna lontani) anni di piombo, una repressione indiscriminata, una chiusura degli spazi di critica portano infatti a un’escalation dei conflitti.
In secondo luogo, è proprio la presenza di un’opposizione politica, quale i 5 stelle sono, a scoraggiare le proteste individuali autodistruttive e, quelle sì, anti politiche. Come aveva ben capito, ad esempio, il comandante della polizia islandese che, in una intervista, mi ha detto: "meno male che quando scoppiò la grande crisi del 2008 ci furono le proteste politiche, invece che gli sfoghi individuali e violenti che temevamo". È l’assenza di dissenso politico, non la sua presenza, a portare ai gesti anomici di disperazione.
Il terzo luogo, gli esponenti del movimento 5 stelle hanno detto una verità – scomoda, ma pur sempre verità – quando hanno osservato che il grande problema del momento attuale è segnalato da una reazione diffusa a quei ferimenti: non un sostegno al gesto violento, ma un'attribuzione di responsabilità per esso alle istituzioni della democrazia rappresentativa, che appaiono avvitate in una spirale di auto-delegittimazione. Chiunque sia passato da un luogo di incontro pubblico in questi giorni avrà sentito, commenti come quello sentito da me, in un bar della rossa Firenze: “Fanno pena i carabinieri feriti, ma cosa vogliono i politici: la gente è disoccupata e loro fanno gli inciuci". Nel momento in cui quei partiti, che in campagna elettorale avevano fatto appello alla società civile, ora si rinchiudono sprezzantemente nel palazzo, il tentativo di scaricare le colpe del loro isolamento su chi quell'isolamento denuncia equivale a accusare di comportamento sovversivo il bambino che dice “il re è nudo”.
In quarto luogo, a sinistra (incluso centrosinistra) la difesa del movimento 5 stelle dagli attacchi di chi li addita come responsabili del gesto di un individuo a loro del tutto estraneo dovrebbe ricordare i tempi non lontani in cui Sergio Cofferati e la Cgil venivano denunciati dalla destra come mandanti morale dell’omicidio del giuslavorista Biagi. E dovrebbe ricordare anche le tante volte in cui leggi restrittive dei diritti democratici al dissenso sono state inizialmente giustificate come dirette a controllare i gruppi meno popolari, come gli anarchici o gli ultras del calcio, ma poi rapidamente utilizzate nella repressione di movimenti di massa (Val di Susa docet), incluse le proteste dei lavoratori.

lunedì 11 marzo 2013

In difesa del finanziamento pubblico ai partiti

Adesso anche Renzi, dopo Berlusconi, salta sul cavallo di battaglia del M5S e tenta di dominarlo, o ancora meglio, copiarlo. Stop al finanziamento pubblico ai partiti, una sfida lanciata quasi più a Bersani che a Grillo.
Una sfida facile facile, dal sapore populista. In fondo è quello che la gente vuole: i partiti rubano, togliamo loro i soldi, che vengono dalle nostre tasche per mantenere un gruppo di parassiti.
Ora, sul fatto che il malcostume politico in Italia è dilagante non ci sono dubbi. Ed è più che legittimo che questo renda davvero odiosa l'idea che al Parlamento dove si prendono 10 mila euro al mese si mangi con 2 euro. Altrettanto inaccettabile è che coi soldi dei contribuenti si organizzino festini e mangiate di ostriche.
Ma il finanziamento pubblico ai partiti è ben altra cosa. E' uno dei fondamenti della democrazia: soldi pubblici per persone e associazioni che si interessano della cosa pubblica. Per non lasciarla nelle mani di chi questi soldi non ha bisogno. Per esempio di un miliardario sceso in politica con tutte le sue aziende sulle spalle e una potenza di fuoco - mediatico, di risorse, di spesa - mai vista prima in Europa. O anche di un comico più che benestante con una società di gestione web e marketing alle spalle.
Pure senza doverci per forza concentrare sul caso italiano - che è comunque ai limiti dell'emergenza democratica - basta dare una occhiata al di là dell'oceano per vedere quali siano i drammi di una politica "privatizzata". Vincono i candidati che riescono a raccogliere più fondi privati - e questa capacità, in media, non è il risultato della popolarità del personaggio in questione e nemmeno della giustezza delle sue proposte politiche. La maniera più semplice ed efficace per raccogliere denaro - e quindi, appunto, per vincere le elezioni - è farsi promotore di politiche ed idee pro-ricchi e soprattutto pro-corporation, cioè andare a chiedere i soldi a chi ce li ha davvero.
Il risultato è una politica di marca oligarchica in cui davvero sinistra e destra non esistono più come dice Grillo - tutte e due gareggiano per fare gli interessi dei padroni.
Ecco, il furbetto di Firenze ed i suoi seguaci tra i democrats dovrebbero forse pensare a questo prima di seguire Grillo&C. sul pericoloso crinale della demagogia spacca-tutto. Più moralità in politica è la base di partenza. Ma il punto di arrivo non può essere la privatizzazione. A meno che non si pensi davvero di buttare via il bambino-democrazia insieme all'acqua sporca dei privilegi.

mercoledì 13 febbraio 2013

Una societa' civile senza protesta?

Riportiamo qui di seguito un articolo di Donatella Della Porta apparso su Sbilanciamoci.info all'interno della sezione La rotta d'Italia. Della Porta in questo articolo va alle radici della democrazia, che può essere viva solamente col ritorno del conflitto, il vero sale del cambiamento e del ritorno della politica dai palazzi alla vita vera.

di Donatella della Porta
da sbilanciamoci.info

La campagna elettorale apre alla “società civile” ma, quando questa inizia a protestare, si scontra sempre con una repressione pesante. Alla democrazia serve riaprire gli spazi di conflitto

Mai come in questa campagna elettorale la società civile è stata invocata da varie parti come soluzione alla degenerazione delle istituzioni politiche. Nel tentativo di aggirare il crollo di consenso ai partiti (di cui si fidano, secondo recenti sondaggi, non più del 6% degli italiani), le varie liste elettorali hanno inserito e promosso candidati della società civile, interpretata via via come tutto-ciò-che-non-è politico di professione, dal banchiere all’industriale, dal giornalista al magistrato. Se il grado di civismo dei candidati presentati come società civile varia, certamente alcune/i rappresentanti di associazioni che hanno svolto un ruolo importante sui temi della pace, dell’ambiente, del lavoro, dei diritti civili potranno certamente, se elette/i, contribuire a rappresentare una parte di questo paese, che si è sentita a lungo escluso dalle istituzioni parlamentari.
La concezione di società civile che sembra dominare le scelte dei partiti è comunque, non solo distorta, ma anche parziale e selettiva, non considerando quelle sfere di partecipazione non strutturate in associazioni o sindacati, che hanno contribuito a criticare e contrastare molte decisioni politiche degli ultimi anni — denunciando, prima, le continuità delle politiche dei governi Berlusconi rispetto a quelle del governo Prodi e, poi, quelle tra le politiche dei governi Berlusconi e quelle del governo Monti. Le politiche pubbliche sulla scuola e l’università, sul precariato, su privatizzazioni e liberalizzazioni, sulla costruzione della Tav in Val di Susa e l’ampliamento dell’aeroporto militare Dal Molin a Vicenza testimoniano di queste continuità trasversali, dai governi di centro-destra a quelli di centro-sinistra e viceversa, fino alle politiche dell’ultimo governo di grande coalizione.
Soprattutto, nella campagna elettorale, la società civile è stata vista come timida e sottomessa, escludendo chi, di fronte a una chiusura istituzionale bi-partisan, ha utilizzato forme di partecipazione politica diverse e più dirompenti di quella elettorale o del lobbying: occupando aziende in via di smantellamento e binari, scuole e università; bloccando strade e accampandosi nelle piazze o sui tetti; costruendo presidi nelle valli alpine, nella pianura padana, ai due lati dello stretto di Messina. Queste forme di protesta sono servite a ricostruire solidarietà, elaborare soluzioni possibili, sperimentare nuove forme di democrazia.
Nell’agire collettivamente, i cittadini mobilitati nelle miriadi di proteste dell’ultimo decennio hanno contribuito a creare quello che il sociologo francese Pierre Rosanvallon ha chiamato contro-democrazia, o democrazia del controllo (dal basso), considerandola come necessario complemento alla democrazia elettorale. Come ha scritto Rosanvallon, però, perché nelle nostre società la sfiducia nelle istituzioni possa essere trasformata da una sfida ad una opportunità, occorrono delle riforme istituzionali che rendano le decisioni pubbliche più trasparenti e partecipate “dal basso”. A livello locale, proprio in un tentativo di compensare la crisi di legittimazione dei partiti e i suoi effetti in termini di crisi di efficienza, meccanismi di democrazia partecipativa e deliberativa sono stati sperimentati, talvolta prendendo ad esempio istituzioni come il bilancio partecipativo di Porto Alegre.
Paradossalmente però, insieme a questi (timidi e meno che imperfetti) tentativi di riforme includenti, c’è stata nell’ultimo decennio un’esclusione e repressione di questa società civile, attraverso un netta inversione di una tendenza a una maggiore toleranza verso forme diverse di protesta, e politiche di ordine pubblico orientate alla de-escalation. Negli anni duemila, infatti, cariche violente a cortei autorizzati, già sperimentate durante le proteste contro il G8 a Genova nel 2001, si sono ripetute in diverse occasioni, contro gruppi sociali considerati come potenzialmente pericolosi per l’ordine pubblico. Diversamente che nel passato recente, questa categorizzazione non ha incluso solo hooligans e anarchici, ma anche pastori sardi, lavoratori disoccupati, sindaci e cittadini della Val di Susa o delle zone scelte a deposito di rifiuti e inceneritori.
Mentre centro-destra e centro-sinistra convergevano contro “la piazza”, le politiche di ordine pubblico si sono inoltre dotate di nuovi strumenti di repressione della protesta. Agli strumenti amministrativi come il confino di polizia e le perquisizioni ex art. 41 del Testo Unico di Pubblica Sicurezza -- residuati dalla legislazione fascista, solo imperfettamente riformata -- si sono aggiunte nuovi discrezionali poteri di polizia, elaborati nel controllo del tifo calcistico, e poi estesi a chi manifesta su temi politici e sociali (come l’obbligo di restare in casa in occasione di particolari eventi, estesi dalle partite di calcio alle manifestazioni politiche). Da Genova in poi, la pratica di impedire ai manifestanti l’accesso ad aree ampie e simbolicamente rilevanti si è ampliata e perfezionata, nei fatti subordinando il diritto alla protesta al mantenimento dell’ordine pubblico (concepito in maniera ampia, fino ad includere il disturbo al traffico). Zone rosse, chiuse agli attivisti ma anche ai normali cittadini, sono state disegnate non solo attorno ai centri cittadini, ma anche a prati e boschi, valli e colline. Per bloccare le proteste contro le discariche in Campania e la costruzione della Tav in Val di Susa, il decreto legge 90 del 2008 e la legge 183 del 2011 hanno definito le zone interessate come “aree di interesse strategico nazionale”, accrescendo considerevolmente le pene non solo per chi entra in quelle aree, ma anche per chi impedisce l’accesso ad esse. Al contempo, reati un tempo rarissimamente contestati, come quelli di devastazione e saccheggio, sono adesso ampliamente utilizzati per punire chi protesta, anche in occasioni di danni minori alle cose ed ampliando le responsabilità dall’individuo al gruppo di chi protesta. Accanto all’aumentato arsenale di leggi anti-protesta, si è osservata una militarizzazione di interi territori, oltre che degli strumenti in dotazione alle forze di polizia.
Un riconoscimento reale della società civile comporta una netta inversione di queste tendenze all’esclusione dei cittadini dal processo di decisione politica, e il riconoscimento della protesta come loro importante risorsa. Abolire le leggi che, come quelle appena menzionate, subordinano importanti diritti civili e politici all’interesse di pochi, realizzare una riforma democratica effettiva delle forze di polizia, riconoscere il valore di bene superiore del diritto alla protesta sono passaggi indispensabili nella costruzione di istituzioni di contro-democrazie, che valorizzi il ruolo dei cittadini nella società e nella politica.

fonte: http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Una-societa-civile-senza-protesta-16682

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martedì 4 settembre 2012

Democrazia in pericolo

La politica italiana sembra sempre più allo sbando. Da un anno le scelte economiche vengono dettate dai mercati e recepite supinamente dal Parlamento. Un esecutivo di emergenza nazionale, imposto dal Presidente della Repubblica, governa ma in realtà ubbidisce ai diktat tedeschi che proprio Monti stigmatizzava un anno fa. I partiti si sbriciolano, travolti da uno scandalo dietro l'altro. E lo stesso Presidente della Repubblica apre un conflitto inaudito con la magistratura per cercare di coprire un uso assai disinvolto del telefono attraverso cui parlava di indagini in corso con Nicola Mancino - già presidente del Senato e prima Ministro dell'Interno al tempo delle stragi mafiose e del cosiddetto patto con la Mafia su cui si è dimostrato assai reticente, alcuni potrebbero dire omertoso.
In questo scenario da tregenda si cercano di delineare i futuri equilibri del paese, ancora una volta imposti dall'alto, ancora una volta ideati per ridurre gli spazi democratici. Il Parlamento sembra orientato ad adottare una nuova legge elettora che rischia, incredibili a dirsi, di essere peggiore di quella precedente. Addio premio di coalizione, ecco che arriverebbe un premio (pari al 15% dei seggi) per il Partito con più voti. 
Immaginiamoci uno scenario assai realistico: PD primo col 25% dei voti, vedrebbe la sua rappresentanza aumentata del 60% in barba al volere dei cittadini. Mentre con lo sbarramento al 5% molti partiti con un consenso elettorale non proprio minuscolo verrebbero cancellati dalla rappresentanza istituzionale. Insomma, una svolta elettorale che se non ancora autoritaria va sicuramente in direzione opposta alla democrazia. Ma non finisce qui.
Col 40%, come noto, non si governa e molto realisticamente il PD andrebbe alle elezioni in coalizione con SEL - forse, ancora meglio, con una lista unica per esser sicuri di arrivare primi, così chi volesse votare per Fava in Sicilia finirebbe per votare anche Letta visto che le preferenze, se mai ci saranno, verrebbero comunque infilate tutte insieme nel calderone del premio di maggioranza. Ed anche questo appare un obbrobrio. 
Ma in tempi procellosi questo non basterebbe ancora, la maggioranza dovrebbe essere solida e quindi più ampia, ed ecco allora che l'UDC - con Montezemolo e Fini, ovviamente - sarebbe il partner di governo scelto da PD e SEL. Già detto e ripetuto da Bersani e Fassina, tanto per esser sicuri. Insomma, voti una coalizione di "sinistra" e ti ritrovi Casini al governo, magari coadiuvato da Monti all'economia o Passera allo sviluppo economico. 
Ci dobbiamo sorprendere? Non più di tanto se pensiamo che il PD sta appoggiando un governo tecnico che sta uccidendo l'economia facendo pagare la crisi soltanto ai ceti più deboli. E dunque si manterrebbe coerente con la sua impostazione politica ed economica, moderatamente conservatrice ed in accordo coi vari poteri forti.
Discorso diverso, ma solo in parte, per SEL. Sembra ormai chiaro che l'unico obiettivo politco che si prefigge Vendola sia la conquista del potere, costi quel che costi. Prima, in nome dell'alleanza a prescindere col PD, ha rotto Rifondazione Comuista. Poi, sempre in nome di un posto a tavola, ha rotto con Di Pietro. Ora ci racconta che SEL e UDC non correranno insieme alle elezioni, ma sa benissimo che andranno a braccetto al governo a urne chiuse, tanto per non far venire troppi conati di vomito ai suoi elettori. Nel caso di Vendola la mancanza di coerenza è legata alla pochezza politica e all'opportunismo di chi è disposto a tutto per un pò di potere. Un Vendola che in questi mesi ha detto di opporsi al governo Monti e alle sue ricette economiche, ma cui va benissimo fare programmi di legislatura con chi questo governo sostiene. Un Vendola che ha detto di sostenere la FIOM ma va a governare con chi sostiene Marchionne. E con quale prospettiva? Quella di imporre le sue scelte col 6% che gli attribuiscono i sondaggi, o forse col magro 3% che sono i voti veri che ha preso nelle elezioni finora svolte - quando ancora, per altro, sembrava un candidato ed un partito di rottura?  
Insomma, si profila uno scenario da incubo che passa attraverso la riproposizione di un governo semi-oligarchico molto attento ai mercati e molto poco ai lavoratori. Che dietro questo disegno ci sia un partito che si definisce democratico è, in fondo, solo un incidente lessicale. 


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venerdì 8 giugno 2012

L'uso politico degli Europei di calcio

Di Nicola Melloni


Oggi iniziano gli Europei di calcio in Polonia ed Ucraina. Mentre in Italia siamo presi dall'ennesimo scandalo del pallone nazionale, la politica europea si è inserita pesantemente nell'evento sportivo con costanti prese di distanza dal governo di Kiev accusato di non rispettare i diritti umani.
Facciamo un salto indietro, per capire meglio le circostanze che hanno portato a queste tensioni. Nel 2007 i due paesi dell'Europa dell'Est si videro assegnare l'organizzazione dell'Europeo 2012, battendo proprio la candidatura dell'Italia. Già allora si trattò di una scelta fortemente politica, di supporto all'Ucraina dell'allora Rivoluzione Arancione. Rivoluzione Arancione finita in un disastro poco dopo, con i cosiddetti democratici lacerati dalle divisioni e travolti dagli scandali ed infine sconfitti dall'attuale presidente Yanukovich. 
Il primo ministro ucraino nel 2007 era quella Yulia Timoshenko la cui recente incarcerazione è diventata il casus belli di questi Europei, con diversi governi del "Vecchio Continente" che dopo aver minacciato il boicottaggio si sono comunque dichiarati indisponibili a seguire le proprie squadre per non legittimare il governo di Kiev. Tralasciamo l'ovvia considerazione che i governanti europei avrebbero da fare qualcosa di molto più produttivo che seguire il calcio anche senza questi problemi politici e concentriamoci sul nocciolo del problema.
Si potrebbe pensare che l'Europa democratica - guidata nientemeno che dalla Germania - si sia rifiutata di sporcarsi le mani con un regime dalle credenziali quantomeno dubbie. Peccato che questo afflato democratico mal si concili con l'ipocrisia di fondo che lo ispira. Andiamo per ordine:
  1. Assegnare un evento sportivo di questa portata ad un paese che già nel 2007 era attraversato da una crisi politica dirompente è stato non solo un azzardo ma una manovra diplomatica per sostenere un governo amico. Inutile lamentarsi 5 anni dopo;
  2. Yulia Timoshenko non è in carcere per la sua fede politica ma per crimini comuni. Timoshenko è un'oligarca, una delle persone più ricche di Ucraina con giganteschi conflitti d'interesse e con una storia personale e politica dai contorni assai nebulosi. Se Berlusconi, tanto per fare un esempio, venisse condannato per evasione, riciclaggio o favoreggiamento della prostituzione, ci indigneremmo per uso politico della giustizia? 
  3. I segni di violenza sul corpo della Tymoshenko, che se confermati sarebbero uno scandalo, sono tutti da verificare. Ma ammettiamo pure che veramente Tymoshenko abbia subito violenze in carcere. Purtroppo non si tratterebbe di un caso isolato anche nella "civile" Europa. O vogliamo dimenticarci di Bolzaneto? O dimentichiamo il caso Cucchi? Solo meno di un mese fa una inchiesta del Corriere della Sera ha dimostrato l'allarmante livello di violenze ed abusi commessi nei carceri italiani, senza che questo abbia causato scandalo, nè tantomeno indignate reazioni politiche. E nessuno in Europa parla di boicottare l'Italia.
Il doppio standard usato dalle cancellerie occidentali risulta dunque davvero insopportabile, in particolare quando si usano temi importanti come la democrazia ed i diritti umani per fare pressioni politiche. Prima di dare lezioni di moralità politica sarebbe forse il caso di guardarsi prima in casa. Solo allora si potrà davvero essere credibili. 



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