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giovedì 27 settembre 2012
Stessa mansione, stessa paga
Di Simone Rossi
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mercoledì 26 settembre 2012
Sallusti, il carcere e la difesa di casta
Ebbene sì sono un giustizialista, termine che solo in Italia può assumere valenza negativa. Giustizialista vuol dire che bisogna rispettare le leggi e chi le viola paga. Ma si sa, in Italia il concetto di legalità è molto relativo.
Oggi la Cassazione ha condannato Sallusti, il direttore del Giornale, a 14 mesi di carcere per diffamazione. Apriti cielo, il Giornale grida alla vergogna e un po' tutti i giornalisti si sono schierati a difesa del collega che finirà presto al fresco. La difesa si basa su 2 punti: (1) Sarebbe addirittura in pericolo la libertà di stampa, anche Travaglio sostiene che non si possono processare le opinioni. (2) In realtà non è stato nemmeno Sallusti a scrivere l'articolo ma un redattore sotto pseudonimo e Sallusti viene condannato come direttore responsabile.E' intervenuta pure la Ministro Severino secondo cui questi reati dovrebbero essere puniti al massimo con pene pecuniarie.
Roba da pazzi. Sallusti è stato condannato non per aver espresso la sua opinione ma perchè l'articolo in questione ha offeso e diffamato un magistrato, il giudice Cocilovo. Che non abbia scritto lui l'articolo cambia poco, direi nulla. Se esiste un direttore responsabile, è giusto che paghi. Sallusti conosceva benissimo i suoi doveri e li ha ignorati, deliberatamente. E poi quale sarebbe l'alternativa? Che tutti possono scrivere sotto pseudonimo offese ed ingiurie senza che si possa processare nessuno?
I giornali non possono essere usati per sputare in faccia alla gente e i giornalisti non possono essere franchi tiratori usati per killeraggio politico e personale. Questa sentenza, sacrosanta, ristabilisce un po' di ordine e serietà. E sarebbe vergognoso che si passasse alla ammenda pecuniaria - così tanto i giornali dei ricconi potrebbero scrivere quel che gli pare, tanto basterebbe pagare una multa. In piazza si picchia la gente che esprime le proprie opinioni e i giornalisti diffamatori non dovrebbero andare in carcere? E' proprio vero che c'è sempre qualcuno più uguale degli altri.
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Oggi la Cassazione ha condannato Sallusti, il direttore del Giornale, a 14 mesi di carcere per diffamazione. Apriti cielo, il Giornale grida alla vergogna e un po' tutti i giornalisti si sono schierati a difesa del collega che finirà presto al fresco. La difesa si basa su 2 punti: (1) Sarebbe addirittura in pericolo la libertà di stampa, anche Travaglio sostiene che non si possono processare le opinioni. (2) In realtà non è stato nemmeno Sallusti a scrivere l'articolo ma un redattore sotto pseudonimo e Sallusti viene condannato come direttore responsabile.E' intervenuta pure la Ministro Severino secondo cui questi reati dovrebbero essere puniti al massimo con pene pecuniarie.
Roba da pazzi. Sallusti è stato condannato non per aver espresso la sua opinione ma perchè l'articolo in questione ha offeso e diffamato un magistrato, il giudice Cocilovo. Che non abbia scritto lui l'articolo cambia poco, direi nulla. Se esiste un direttore responsabile, è giusto che paghi. Sallusti conosceva benissimo i suoi doveri e li ha ignorati, deliberatamente. E poi quale sarebbe l'alternativa? Che tutti possono scrivere sotto pseudonimo offese ed ingiurie senza che si possa processare nessuno?
I giornali non possono essere usati per sputare in faccia alla gente e i giornalisti non possono essere franchi tiratori usati per killeraggio politico e personale. Questa sentenza, sacrosanta, ristabilisce un po' di ordine e serietà. E sarebbe vergognoso che si passasse alla ammenda pecuniaria - così tanto i giornali dei ricconi potrebbero scrivere quel che gli pare, tanto basterebbe pagare una multa. In piazza si picchia la gente che esprime le proprie opinioni e i giornalisti diffamatori non dovrebbero andare in carcere? E' proprio vero che c'è sempre qualcuno più uguale degli altri.
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Una volta eravamo tutti indignados
Di Monica Bedana
Ieri sera, mentre seguivo col fiato sospeso la diretta di Marco Nurra da Madrid per "Pubblico", c'è stato un momento in cui ho provato la solita vergogna italiana; solo che invece di provarla all'estero era una prima, inedita vergogna in patria.
Mi stavo rendendo conto che sui media italiani ci stavamo guardando l'ombelico fiorito da una settimana, indifferenti alle manganellate che piovevano sugli spagnoli "a casa loro". Casa loro intesa come Parlamento e come posto che sta al di là delle Alpi e non ci tange. "Tanto noi non siamo messi cosí male", "abbiamo Monti che va da Obama, ci dà credibilità". E sulla patina della credibilità, un concetto molto liquido, la realtà scivola e ci sentiamo al riparo dal sibilo delle palle di gomma sui precari e sui pensionati. Questi sconosciuti. E facinorosi.
Mentre in Spagna Il Governo nega l'evidenza dei brutali attacchi della polizia e le fa i complimenti per la performance, qui la (minima) differenza punti di spread genera indifferenza verso i punti di sutura degli altri. Secondo Rajoy la gentaccia che ieri ha cercato di accerchiare il Parlamento chiedendo le dimissioni in blocco di chi ci sta dentro e ci tiene in ostaggio la sovranità popolare, avrebbe approntato un manuale su "come provocare i poliziotti e sembrare vittime". Qui, al massimo, riusciremmo a scrivere una carta d'intenti sull'argomento. E visto che il sembrare ci piace sempre più dell'essere, forse ci siamo già appropriati del ruolo di "sembrare vittime": più comodo che esserlo davvero, perché ci esime da ogni sforzo per recuperare l'etica democratica che vada più in là dall'indignarsi davanti alla tivù per sperperi di ostriche. Ostici invece i diritti ingollati dalla protezione ad oltranza della finanza: il diritto al lavoro, all'educazione, alla sanità, alla dignità ed il diritto stesso a manifestare per reclamare i precedenti.
Alle 19.00 di stasera, a Madrid, un'altra concentrazione pacifica. E sabato un'altra ancora davanti al Parlamento. Gli organizzatori chiedono alla gente di andare a viso scoperto per arginare l'azione di gruppi violenti, mentre si parla di agenti di polizia infiltrati nella manifestazione di ieri. Questo, a noi, dovrebbe ricordare qualcosa per cui nemmeno allora ci indignammo abbastanza: Genova 2001, per esempio.
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Mi stavo rendendo conto che sui media italiani ci stavamo guardando l'ombelico fiorito da una settimana, indifferenti alle manganellate che piovevano sugli spagnoli "a casa loro". Casa loro intesa come Parlamento e come posto che sta al di là delle Alpi e non ci tange. "Tanto noi non siamo messi cosí male", "abbiamo Monti che va da Obama, ci dà credibilità". E sulla patina della credibilità, un concetto molto liquido, la realtà scivola e ci sentiamo al riparo dal sibilo delle palle di gomma sui precari e sui pensionati. Questi sconosciuti. E facinorosi.
Mentre in Spagna Il Governo nega l'evidenza dei brutali attacchi della polizia e le fa i complimenti per la performance, qui la (minima) differenza punti di spread genera indifferenza verso i punti di sutura degli altri. Secondo Rajoy la gentaccia che ieri ha cercato di accerchiare il Parlamento chiedendo le dimissioni in blocco di chi ci sta dentro e ci tiene in ostaggio la sovranità popolare, avrebbe approntato un manuale su "come provocare i poliziotti e sembrare vittime". Qui, al massimo, riusciremmo a scrivere una carta d'intenti sull'argomento. E visto che il sembrare ci piace sempre più dell'essere, forse ci siamo già appropriati del ruolo di "sembrare vittime": più comodo che esserlo davvero, perché ci esime da ogni sforzo per recuperare l'etica democratica che vada più in là dall'indignarsi davanti alla tivù per sperperi di ostriche. Ostici invece i diritti ingollati dalla protezione ad oltranza della finanza: il diritto al lavoro, all'educazione, alla sanità, alla dignità ed il diritto stesso a manifestare per reclamare i precedenti.
Alle 19.00 di stasera, a Madrid, un'altra concentrazione pacifica. E sabato un'altra ancora davanti al Parlamento. Gli organizzatori chiedono alla gente di andare a viso scoperto per arginare l'azione di gruppi violenti, mentre si parla di agenti di polizia infiltrati nella manifestazione di ieri. Questo, a noi, dovrebbe ricordare qualcosa per cui nemmeno allora ci indignammo abbastanza: Genova 2001, per esempio.
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martedì 25 settembre 2012
Le rubriche di RI, 25 settembre 2012
The City of London:
Fenomenologia di Marchionne
Personaggio sempre intrigante questo Marchionne. Per un paio d'anni ci ha rintronato con la retorica sulla modernità, lui ci metteva la faccia, voleva investire - addirittura! - 20 miliardi, non chiedeva aiuti di Stato, voleva solo che i lavoratori rinunciassero ad un po' di diritti per riempire le tasche degli azionisti FIAT.
E va beh, dici, il classico manager americano, uno sfruttatore ma porta un po' di sano (mica tanto)...leggi tutto l'articolo
Serenissima:
Valdastico sud, l'autostrada tossica
Ne avevo già parlato qui l'inverno scorso.
Purtroppo il primo tratto della Valdastico-sud, l'autostrada tossica, è già stato inaugurato e va da Vicenza a Longare, dove ieri il comitato vicentino "No ecomafie" ha indetto una manifestazione di protesta che verrà puntualmente ignorata dalle Istituzioni...leggi tutto l'articolo
Fenomenologia di Marchionne
Personaggio sempre intrigante questo Marchionne. Per un paio d'anni ci ha rintronato con la retorica sulla modernità, lui ci metteva la faccia, voleva investire - addirittura! - 20 miliardi, non chiedeva aiuti di Stato, voleva solo che i lavoratori rinunciassero ad un po' di diritti per riempire le tasche degli azionisti FIAT.
E va beh, dici, il classico manager americano, uno sfruttatore ma porta un po' di sano (mica tanto)...leggi tutto l'articolo
Serenissima:
Valdastico sud, l'autostrada tossica
Ne avevo già parlato qui l'inverno scorso.
Purtroppo il primo tratto della Valdastico-sud, l'autostrada tossica, è già stato inaugurato e va da Vicenza a Longare, dove ieri il comitato vicentino "No ecomafie" ha indetto una manifestazione di protesta che verrà puntualmente ignorata dalle Istituzioni...leggi tutto l'articolo
Lisbona insegna
Di Monica Bedana
Il Portogallo, commissariato dalla troika da maggio del 2011, rilancia a sorpresa la propria sovranità nazionale: non c'è imposizione di barriera di contenimento del debito che tenga davanti all'esasperazione dei cittadini, che per due settimane consecutive son stati in piazza in massa a ricordare al Governo (conservatore) che il lavoro dipendente non è carne da macello.
Risultato: Passos Coelho convoca tutte le parti sociali, ma proprio tutte (sindacati, confindustria, opposizione, associazioni civili) per studiare un'alternativa all'ultima tassa destinata ad aumentare ulteriormente il carico fiscale sui lavoratori e ad alleggerirlo alle aziende. Non piaceva nemmeno agli impresari perché avrebbe indebolito ulteriormente il consumo interno, già agonizzante.
Una grande lezione di coesione nazionale in faccia all'Europa delle divisioni, le incertezze, il tutto contro tutti, la mancanza di solidarietà ed equità in ogni sua espressione.
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Il Portogallo, commissariato dalla troika da maggio del 2011, rilancia a sorpresa la propria sovranità nazionale: non c'è imposizione di barriera di contenimento del debito che tenga davanti all'esasperazione dei cittadini, che per due settimane consecutive son stati in piazza in massa a ricordare al Governo (conservatore) che il lavoro dipendente non è carne da macello.
Risultato: Passos Coelho convoca tutte le parti sociali, ma proprio tutte (sindacati, confindustria, opposizione, associazioni civili) per studiare un'alternativa all'ultima tassa destinata ad aumentare ulteriormente il carico fiscale sui lavoratori e ad alleggerirlo alle aziende. Non piaceva nemmeno agli impresari perché avrebbe indebolito ulteriormente il consumo interno, già agonizzante.
Una grande lezione di coesione nazionale in faccia all'Europa delle divisioni, le incertezze, il tutto contro tutti, la mancanza di solidarietà ed equità in ogni sua espressione.
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venerdì 21 settembre 2012
L'abbuffata continua. Sulla salute del cittadino
Di Simone Rossi
In campagna elettorale l'attuale Primo Ministro britannico David Cameron rassicurò i cittadini che un governo conservatore avrebbe protetto il servizio sanitario pubblico, NHS, da tagli e privatizzazioni, affermando che dopo la prematura morte di uno dei suoi figli aveva compreso l'importanza di questo pilastro della società britannica.
Fedelmente al detto "passata la festa gabbato lo santo" che è un po' la cifra della democrazia occidentale contemporanea, il governo di coalizione guidato da Cameron ha avviato un processo di privatizzazione dei servizi di base ed ospedalieri, che nel lungo periodo trasformerà il NHS in un contenitore attraverso cui le aziende private faranno affari. A conferma di ciò il rapporto recentemente pubblicato dall'azienda di consulenze finanziarie Catalyst, in cui si mettono in evidenza le opportunità di profitto per cii riuscirà ad accaparrarsi i contratti e gli appalti del NHS. Secondo gli esperti di Catalyst le aziende del settore sanitario potranno spartirsi circa venti miliardi di sterline per la fornitura di servizi sino ad ora gestiti dal servizio sanitario nazionale e dagli ambulatori dei medici di base.
I detrattori dell'apertura della sanità pubblica ai privati sostengono che la concorrenza permetterà di introdurre efficienza e funzionalità. Tuttavia non serve necessariamente guardare agli USA, dove la sanità privata ha costi elevati e ha prodotto un bacino di decine di milioni di persone senza copertura alcuna per mettere in dubbio queste certezze granitiche; è sufficiente valutare l'esito del ricorso alle Private Finance Initiative, PFI, nel settore sanitario. Le PFI sono strumenti contrattuali introdotti dal governo conservatore nel 1992, e largamente impiegate dai governi laburisti, con cui l'ente pubblico affida ai privati la costruzione e la gestione di infrastrutture o la fornitura di servizi. I governi di Blair e Brown hanno ricorso alle PFI nella realizzazione o nell'ammodernamento di strutture ospedaliere, con un aggravio di costi sulla casse pubbliche superiore a quello che sarebbe stato richiesto da una gestione interamente pubblica. Secondo dati forniti in luglio dal Ministero del Tesoro, infatti, per contratti della durata di trenta anni alcune aziende sanitarie locali pagheranno fino a dodici volte il valore iniziale dell'opera o del servizio. A titolo di esempio la ricostruzione del Calderdale Royal Hospital nello Yorkshire costerà all'azienda locale complessivamente 773 milioni di sterline a fronte di un costo di realizzazione di poco inferiore ai 65 milioni. Ciò non potrà che produrre effetti negativi sul servizio al cittadino, sottraendo risorse che potrebbero effettivamente essere impiegate per migliorarne la qualità. Non si tratta di scenari remoti, già quest'anno l'azienda sanitaria South London Healthcare Trust è stata posta sotto amministrazione perché in difficoltà finanziarie a seguito degli alti costi della PFI sottoscritta precedentemente.
Niente di nuovo sotto il sole dell'austerità neoliberista; qualcosa di nuovo, invece, lo attenderemmo dal partito laburista, che sembra aver imparato poco dalla lunga esperienza di un governo "pro-business" e fatica a denunciare chiaramente i dogmi che dalla Thatcher in poi hanno orientato le politiche economiche e sociali di questo paese.Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete
giovedì 20 settembre 2012
La rassegna stampa di R.I.
Uomini e no
La Fiat sa fare soldi, non più automobili
Di Marco Revelli
da "Il manifesto" del 19/9/2012
(articolo segnalato da Simone Rossi)
Non è un problema tecnico. Non c'era bisogno di particolari competenze ingegneristiche o finanziarie per capire, fin dal 21 aprile di due anni fa, quando al Lingotto fu presentato in pompa magna, che il piano «Fabbrica Italia» stava sulle nuvole. Anche un bambino si sarebbe reso conto che quella produzione da aumentare dalle 650.000 auto del 2009 al milione e 400mila del 2014, quel milione di veicoli destinati all'esportazione di cui «300.000 per gli Stati Uniti» (sic!), quel raddoppio o poco meno delle unità commerciali leggere (dalle 150 alle 250mila) in meno di quattro anni, erano numeri sparati a caso. Così come quei 20 miliardi di euro d'investimenti in Italia (i due terzi dell'intero volume mondiale del Gruppo Fiat!), senza uno straccio d'indicazione sulla loro provenienza, senza un piano finanziario serio e trasparente, erano un gigantesco buio gettato sul tavolo verde.
Non è nemmeno un problema politico. O meglio, non è solo un problema politico. I pochi - pochissimi! - che annusarono il bluff e lo dissero o lo scrissero, non lo fecero perché «ideologicamente » ostili alla Fiat, o all'« impresa», o al «capitale». Se gli uomini della Fiom, unica organizzazione nell'intero panorama sindacale, capirono al volo che quel patto leonino proposto da Sergio Marchionne - sacrifici operai subito in cambio di una chimera lontana - era una trappola mortale, non lo fecero perché politicamente schierati contro. Lo fecero perché, appunto, erano «uomini», non marionette. Ben radicati nella realtà di fabbrica, spalla a spalla con altri uomini e donne con cui condividevano difficoltà, sentimenti e interessi.
Forse sta tutta qui la soluzione dell'arcano del «caso Marchionne». In una questione di «antropologia»: nella materialità di una condizione umana e di un sistema di relazioni su cui è passata come un rullo compressore una drammatica «apocalisse culturale ». È sicuramente il prodotto di un'apocalisse culturale l'anti-eroe eponimo della vicenda, l'AD Sergio Marchionne, svizzero fiscalmente, americano aziendalmente, apolide moralmente. Così come lo sono i variopinti eredi della famiglia Agnelli - i «furbetti cosmopoliti» di cui parla Della Valle - figure ormai abissalmente distanti dal tipo umano dell'imprenditore del primo e anche del secondo capitalismo. Feroce, certo, spregiudicato e «creativamente distruttore », calcolatore e cinico, ma non incorporeo, sradicato e irresponsabile. Non avulso da ogni terra e da ogni luogo come sono i nuovi manager globali e la nuova proprietà finanziarizzata, la cui parola vale l'éspace d'un matin, e la cui appartenenza è sconosciuta («Siamo qui. Anzi io sono a Detroit, ma sto proprio partendo per l'Italia», ha detto l'a.d. Fiat a Ezio Mauro nell'intervista pubblicata proprio ieri da Repubblica, erettasi per l'occasione a informale tramite tra Impresa e Governo).
Marchionne non è un imprenditore in senso stretto. Non sa «fare macchine» - macchine le fanno ancora i tedeschi, come la Volkswagen che ne produce 8 milioni all'anno e veleggia verso i 10 milioni, e che investe in ricerca e sviluppo quasi 7 miliardi di euro, mentre lui va poco sopra i 2 per lo più finanziati dalle banche italiane e impegnati per trasferire oltre oceano la tecnologia Fiat.
Marchionne sa fare soldi: nel solo 2010, l'anno di Fabbrica Italia, ha provocato la più severa caduta sul mercato europeo mai registrata (la Fiat è scesa ad appena il 6,7%) ma in compenso ha portato il proprio gruppo a guidare la classifica della redditività per gli azionisti, «con un ritorno sul capitale del 33%»!
Vale per lui quanto scritto da Richard Sennett sui manager globalizzati di ultima generazione nel suo ultimo volume su "La cultura del nuovo capitalismo"¬: gente che vive strutturalmente - in forza della distanza abissale, di reddito e di stile di vita, che li separa dai luoghi e dalle figure del lavoro - la divaricazione tra guida e responsabilità. Ambivalenti per ruolo e natura. Specializzati nel pensare per «tempi brevi», sul raggio della prossima trimestrale, e a muoversi per improvvisazioni più che per programmazione e pianificazione. Gente, diciamolo, di cui non fidarsi!
Ma prodotto di un'apocalisse culturale sono anche gli altri.Quelli che dovrebbero stare di fronte a Marchionne, e che invece gli stanno dietro (o sotto): i Bonanni, gli Angeletti, buona parte della politica, quasi tutta l'amministrazione. Che cosa ha portato il capo della Cisl Raffaele Bonanni, nell'aprile del 2010 a «brindare alla salute di Fabbrica Italia», definendola «una minirivoluzione che potrebbe riportare l'Italia ai vertici produttivi di un tempo»? E ancora l'anno successivo a dichiarare: «Sarà brusco, sarà crudo, ma Marchionne è stato una fortuna per gli azionisti e i lavoratori della Fiat.Grazie a Dio c'è un abruzzese come Marchionne». Che cosa ha spinto il segretario della Cisl torinese Nanni Tosco - che pure dovrebbe essere un po' più vicino ai luoghi della produzione - a sbilanciarsi definendo il piano di Marchionne «un'opportunità irripetibile per il sindacato e assolutamente da cogliere, evitando di infilarsi tra le ombre del 'piano B'»? E il futuro sindaco Fassino, alla vigilia del famigerato referendum sull'accordo a Mirafiori, a dichiarare senza esitazione che se fosse stato un operaio Fiat (sic) avrebbe votato sì? Ma è pressoché tutto il mondo politico ad aver assistito ai preparativi della fuga di Marchionne - come ha scritto Loris Campetti - «con il cappello in mano, spellandosi lemani ad applaudire le prodezze di un avventuriero». Perché?
Non erano così gli uomini di «prima». Non dico i Pugno (il leggendario segretario della Camera del lavoro di Torino venuto dagli anni duri),ma nemmeno i Cesare Delpiano, gli Adriano Serafino, i Pierre Carniti, i responsabili della Cisl piemontese e nazionale che guidarono la riscossa operaia. Gente che sapeva conoscere e valutare gli uomini che aveva di fronte, perché conosceva e rispettava gli uomini di cui aveva la responsabilità. E non erano così i Berlinguer, i Novelli, i Damico, ma nemmeno il democristiano Donat Cattin e persino il vecchio sindaco Giuseppe GrossoŠ In mezzo, tra questi due diversi «tipi umani» - tra queste opposte antropologie - è passata, come un vomere, la lama di una sconfitta storica del mondo del lavoro. Di un arretramento epocale nelle condizioni materiali del lavoro, nel livello delle remunerazioni e dei salari dei lavoratori, e insieme nel ruolo stesso che il lavoro gioca nello spazio sociale, nella sua capacità di parola e di presenza.
Luciano Gallino, nel suo splendido "La lotta di classe dopo la lotta di classe" calcola che nel corso del ventennio a cavallo tra il Novecento e il nuovo secolo lo spostamento di ricchezza dal monte salari al monte profitti sfiori i 250 miliardi di euro all'anno: l'equivalente di numerose manovre finanziarie lacrime e sangue. E' la misura della perdita di potere del lavoro, che è stata anche sua «privatizzazione». Espulsione del lavoro dalla sfera pubblica (quella in cui l'aveva riconosciuto anche formalmente l'art. 1 della nostra Costituzione), e suo confinamento nella dimensione privata, senza voce e senza forza, regolata da rapporti di comando-obbedienza individuali e irrimediabilmente asimmetrici. Di questa dimensione pubblica del lavoro sono orfani, di questa sua privatizzazione (a cui hanno assistito passivamente e collusivamente) sono figli, gli attuali politici maggioritari e i sindacalisti in ginocchio davanti al Marchionne di turno. L'insostenibile leggerezza del loro essere è il riflesso di una strutturale perdita di terreno. L'evaporare della politica e della rappresentanza in generale (istituzionale o sindacale) nella nuvola eterea dei sistematici luoghi comuni che avvolgono ormai la comunicazione pubblica come un involucro asfissiante (la «cattura cognitiva» di cui parla Gallino), riflette questa liquefazione.
Ora, se questa massa liquida cui si è ridotta la politica nazionale e buona parte dello schieramento sindacale viene chiamata a misurarsi, nelle forme ultimative che la crisi impone, con la dimensione gassosa della nuova imprenditoria globale - con il Marchionne di turno - il risultato è scontato: essa è destinata ad esserne dissolta e fagocitata irrimediabilmente, con la comune rovina di se stessa e di noi tutti. Dovrebbe farci pensare il fatto che gli unici a confrontarsi, con durezza, con Marchionne sono i «forti», altri «padroni» come lui, mentre ministri, politici e sindacalisti di regime emettono flebili vagiti e si rimettono, come dice Giorgio Airaudo, «alla clemenza della corte». Se una speranza è data vedere, se una possibilità di rinascita si può immaginare, essa consiste nei punti di resistenza di ciò che ha saputo restare «solido» nel generale processo di dissolvimento. Mantenere un rapporto col proprio suolo, culturale, sociale, produttivo. Per questo tanta ammirazione - anche al di fuori del campo ristretto delle tradizionali sinistre - avevano saputo suscitare quel 40% di «inattuali » che a Pomigliano avevano avuto il coraggio di dire NO, e quel quasi 50% di Mirafiori. Per senso di dignità, prima che per calcolo di utilità. Sapendo di giocare una partita disperata (perché il ricatto di Marchionne lasciava solo l'alternativa tra «arrendersi o perire»). Oggi sappiamo che vedevano più lontano degli altrettanto disperati operai che votarono Sì.
Come vedeva lontano la Fiom, a cui andrebbe fatto un monumento per aver saputo mantenere aperto un varco, attraverso cui tentare di passare oltre. Di esistere ancora, nel mondo che verrà.Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete
da "Il manifesto" del 19/9/2012
(articolo segnalato da Simone Rossi)
Non è un problema tecnico. Non c'era bisogno di particolari competenze ingegneristiche o finanziarie per capire, fin dal 21 aprile di due anni fa, quando al Lingotto fu presentato in pompa magna, che il piano «Fabbrica Italia» stava sulle nuvole. Anche un bambino si sarebbe reso conto che quella produzione da aumentare dalle 650.000 auto del 2009 al milione e 400mila del 2014, quel milione di veicoli destinati all'esportazione di cui «300.000 per gli Stati Uniti» (sic!), quel raddoppio o poco meno delle unità commerciali leggere (dalle 150 alle 250mila) in meno di quattro anni, erano numeri sparati a caso. Così come quei 20 miliardi di euro d'investimenti in Italia (i due terzi dell'intero volume mondiale del Gruppo Fiat!), senza uno straccio d'indicazione sulla loro provenienza, senza un piano finanziario serio e trasparente, erano un gigantesco buio gettato sul tavolo verde.
Non è nemmeno un problema politico. O meglio, non è solo un problema politico. I pochi - pochissimi! - che annusarono il bluff e lo dissero o lo scrissero, non lo fecero perché «ideologicamente » ostili alla Fiat, o all'« impresa», o al «capitale». Se gli uomini della Fiom, unica organizzazione nell'intero panorama sindacale, capirono al volo che quel patto leonino proposto da Sergio Marchionne - sacrifici operai subito in cambio di una chimera lontana - era una trappola mortale, non lo fecero perché politicamente schierati contro. Lo fecero perché, appunto, erano «uomini», non marionette. Ben radicati nella realtà di fabbrica, spalla a spalla con altri uomini e donne con cui condividevano difficoltà, sentimenti e interessi.
Forse sta tutta qui la soluzione dell'arcano del «caso Marchionne». In una questione di «antropologia»: nella materialità di una condizione umana e di un sistema di relazioni su cui è passata come un rullo compressore una drammatica «apocalisse culturale ». È sicuramente il prodotto di un'apocalisse culturale l'anti-eroe eponimo della vicenda, l'AD Sergio Marchionne, svizzero fiscalmente, americano aziendalmente, apolide moralmente. Così come lo sono i variopinti eredi della famiglia Agnelli - i «furbetti cosmopoliti» di cui parla Della Valle - figure ormai abissalmente distanti dal tipo umano dell'imprenditore del primo e anche del secondo capitalismo. Feroce, certo, spregiudicato e «creativamente distruttore », calcolatore e cinico, ma non incorporeo, sradicato e irresponsabile. Non avulso da ogni terra e da ogni luogo come sono i nuovi manager globali e la nuova proprietà finanziarizzata, la cui parola vale l'éspace d'un matin, e la cui appartenenza è sconosciuta («Siamo qui. Anzi io sono a Detroit, ma sto proprio partendo per l'Italia», ha detto l'a.d. Fiat a Ezio Mauro nell'intervista pubblicata proprio ieri da Repubblica, erettasi per l'occasione a informale tramite tra Impresa e Governo).
Marchionne non è un imprenditore in senso stretto. Non sa «fare macchine» - macchine le fanno ancora i tedeschi, come la Volkswagen che ne produce 8 milioni all'anno e veleggia verso i 10 milioni, e che investe in ricerca e sviluppo quasi 7 miliardi di euro, mentre lui va poco sopra i 2 per lo più finanziati dalle banche italiane e impegnati per trasferire oltre oceano la tecnologia Fiat.
Marchionne sa fare soldi: nel solo 2010, l'anno di Fabbrica Italia, ha provocato la più severa caduta sul mercato europeo mai registrata (la Fiat è scesa ad appena il 6,7%) ma in compenso ha portato il proprio gruppo a guidare la classifica della redditività per gli azionisti, «con un ritorno sul capitale del 33%»!
Vale per lui quanto scritto da Richard Sennett sui manager globalizzati di ultima generazione nel suo ultimo volume su "La cultura del nuovo capitalismo"¬: gente che vive strutturalmente - in forza della distanza abissale, di reddito e di stile di vita, che li separa dai luoghi e dalle figure del lavoro - la divaricazione tra guida e responsabilità. Ambivalenti per ruolo e natura. Specializzati nel pensare per «tempi brevi», sul raggio della prossima trimestrale, e a muoversi per improvvisazioni più che per programmazione e pianificazione. Gente, diciamolo, di cui non fidarsi!
Ma prodotto di un'apocalisse culturale sono anche gli altri.Quelli che dovrebbero stare di fronte a Marchionne, e che invece gli stanno dietro (o sotto): i Bonanni, gli Angeletti, buona parte della politica, quasi tutta l'amministrazione. Che cosa ha portato il capo della Cisl Raffaele Bonanni, nell'aprile del 2010 a «brindare alla salute di Fabbrica Italia», definendola «una minirivoluzione che potrebbe riportare l'Italia ai vertici produttivi di un tempo»? E ancora l'anno successivo a dichiarare: «Sarà brusco, sarà crudo, ma Marchionne è stato una fortuna per gli azionisti e i lavoratori della Fiat.Grazie a Dio c'è un abruzzese come Marchionne». Che cosa ha spinto il segretario della Cisl torinese Nanni Tosco - che pure dovrebbe essere un po' più vicino ai luoghi della produzione - a sbilanciarsi definendo il piano di Marchionne «un'opportunità irripetibile per il sindacato e assolutamente da cogliere, evitando di infilarsi tra le ombre del 'piano B'»? E il futuro sindaco Fassino, alla vigilia del famigerato referendum sull'accordo a Mirafiori, a dichiarare senza esitazione che se fosse stato un operaio Fiat (sic) avrebbe votato sì? Ma è pressoché tutto il mondo politico ad aver assistito ai preparativi della fuga di Marchionne - come ha scritto Loris Campetti - «con il cappello in mano, spellandosi lemani ad applaudire le prodezze di un avventuriero». Perché?
Non erano così gli uomini di «prima». Non dico i Pugno (il leggendario segretario della Camera del lavoro di Torino venuto dagli anni duri),ma nemmeno i Cesare Delpiano, gli Adriano Serafino, i Pierre Carniti, i responsabili della Cisl piemontese e nazionale che guidarono la riscossa operaia. Gente che sapeva conoscere e valutare gli uomini che aveva di fronte, perché conosceva e rispettava gli uomini di cui aveva la responsabilità. E non erano così i Berlinguer, i Novelli, i Damico, ma nemmeno il democristiano Donat Cattin e persino il vecchio sindaco Giuseppe GrossoŠ In mezzo, tra questi due diversi «tipi umani» - tra queste opposte antropologie - è passata, come un vomere, la lama di una sconfitta storica del mondo del lavoro. Di un arretramento epocale nelle condizioni materiali del lavoro, nel livello delle remunerazioni e dei salari dei lavoratori, e insieme nel ruolo stesso che il lavoro gioca nello spazio sociale, nella sua capacità di parola e di presenza.
Luciano Gallino, nel suo splendido "La lotta di classe dopo la lotta di classe" calcola che nel corso del ventennio a cavallo tra il Novecento e il nuovo secolo lo spostamento di ricchezza dal monte salari al monte profitti sfiori i 250 miliardi di euro all'anno: l'equivalente di numerose manovre finanziarie lacrime e sangue. E' la misura della perdita di potere del lavoro, che è stata anche sua «privatizzazione». Espulsione del lavoro dalla sfera pubblica (quella in cui l'aveva riconosciuto anche formalmente l'art. 1 della nostra Costituzione), e suo confinamento nella dimensione privata, senza voce e senza forza, regolata da rapporti di comando-obbedienza individuali e irrimediabilmente asimmetrici. Di questa dimensione pubblica del lavoro sono orfani, di questa sua privatizzazione (a cui hanno assistito passivamente e collusivamente) sono figli, gli attuali politici maggioritari e i sindacalisti in ginocchio davanti al Marchionne di turno. L'insostenibile leggerezza del loro essere è il riflesso di una strutturale perdita di terreno. L'evaporare della politica e della rappresentanza in generale (istituzionale o sindacale) nella nuvola eterea dei sistematici luoghi comuni che avvolgono ormai la comunicazione pubblica come un involucro asfissiante (la «cattura cognitiva» di cui parla Gallino), riflette questa liquefazione.
Ora, se questa massa liquida cui si è ridotta la politica nazionale e buona parte dello schieramento sindacale viene chiamata a misurarsi, nelle forme ultimative che la crisi impone, con la dimensione gassosa della nuova imprenditoria globale - con il Marchionne di turno - il risultato è scontato: essa è destinata ad esserne dissolta e fagocitata irrimediabilmente, con la comune rovina di se stessa e di noi tutti. Dovrebbe farci pensare il fatto che gli unici a confrontarsi, con durezza, con Marchionne sono i «forti», altri «padroni» come lui, mentre ministri, politici e sindacalisti di regime emettono flebili vagiti e si rimettono, come dice Giorgio Airaudo, «alla clemenza della corte». Se una speranza è data vedere, se una possibilità di rinascita si può immaginare, essa consiste nei punti di resistenza di ciò che ha saputo restare «solido» nel generale processo di dissolvimento. Mantenere un rapporto col proprio suolo, culturale, sociale, produttivo. Per questo tanta ammirazione - anche al di fuori del campo ristretto delle tradizionali sinistre - avevano saputo suscitare quel 40% di «inattuali » che a Pomigliano avevano avuto il coraggio di dire NO, e quel quasi 50% di Mirafiori. Per senso di dignità, prima che per calcolo di utilità. Sapendo di giocare una partita disperata (perché il ricatto di Marchionne lasciava solo l'alternativa tra «arrendersi o perire»). Oggi sappiamo che vedevano più lontano degli altrettanto disperati operai che votarono Sì.
Come vedeva lontano la Fiom, a cui andrebbe fatto un monumento per aver saputo mantenere aperto un varco, attraverso cui tentare di passare oltre. Di esistere ancora, nel mondo che verrà.Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete
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mercoledì 19 settembre 2012
Gli aggiornamenti delle rubriche di Resistenza Internazionale
The City of London
Democrazia ed Economia - 3: Le leggi del mercato
In questo caso non sono leggi teoriche, ma vere e proprie normative. Succede in Honduras, posto perfetto per l'ennesimo esperimento social-economico del capitalismo. L'idea è della MKG, una società immobiliare americana che costruirà una città sulle coste del Pacifico, in Honduras. Ma non farà parte dell'Honduras.....[continua la lettura]
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Democrazia ed Economia - 3: Le leggi del mercato
In questo caso non sono leggi teoriche, ma vere e proprie normative. Succede in Honduras, posto perfetto per l'ennesimo esperimento social-economico del capitalismo. L'idea è della MKG, una società immobiliare americana che costruirà una città sulle coste del Pacifico, in Honduras. Ma non farà parte dell'Honduras.....[continua la lettura]
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martedì 18 settembre 2012
Gli aggiornamenti delle rubriche di Resistenza Internazionale
The City of London:
FIOM esclusa
La vicenda FIAT si potrebbe definire una farsa se non finisse per pesare, come sempre, sulla pelle di migliaia di lavoratori che rischiano (eufemismo) di restare a casa mentre Marchionne ingrassa i suoi profitti da evasore in Svizzera....[continua la lettura]
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FIOM esclusa
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lunedì 17 settembre 2012
Senza diritti, senza futuro, non siamo nulla
Di Monica Bedana
A volte la vita corre più veloce del passo di una manifestazione e sabato scorso non ero a Madrid se non col cuore. Per le strade della capitale spagnola oltre un milione di persone a chiedere di potersi esprimere in un referendum contro i tagli imposti dalla liberale austerità e sul paventato salvataggio del Paese da parte dell'Unione Europea.
Non una manifestazione qualunque ma un vero summit sociale che ha riunito, compatti, i sindacati, il settore dell'educazione, dei servizi sociali in generale e, in particolare, coloro che in famiglia o nel pubblico hanno a carico persone dipendenti: i beneficiari di una delle leggi socialmente più sentite dell'epoca Zapatero, completamente cancellata dai tagli. E poi chi lavora nella sanità, nei servizi pubblici in generale e le donne, moltissme donne, motore di una corrente particolarmente attiva all'interno delle sei "maree tematiche" che strutturavano la manifestazione.
C'è poi il Portogallo appiccicato, dove un giovane meno di 48 ore fa si è dato fuoco per protesta; c'è ormai la certezza che la crisi sia una scusa per cambiare profondamente e definitivamente un modello sociale esemplare. 14mila milioni di euro di riduzione della spesa per la protezione contributiva alla disoccupazione fino al 2014 non lasciano dubbi sulla portata antisociale dei provvedimenti presi dal governo Rajoy in meno di un anno. Gli interessi sul debito pubblico spagnolo pagati sulla pelle di quell'1,7 milioni di famiglie che hanno tutti i loro membri disoccupati. E sui 5,7 milioni di disoccupati totali del Paese, secondo il sondaggio sulla popolazione attiva del 2012, 2º trimestre (EPA), ben 2,8 milioni di persone non godono di alcuna protezione pubblica.
La riforma del lavoro, per molti versi parallela a quella italiana in quanto a cancellazione dei diritti, ha reso più facile licenziare, ha emarginato i rappresentanti sindacali spalancando le porte ad uno squilibrio che ora pare incolmabile tra il lavoratore indifeso ed il potere incontrollato delle aziende. In un Paese in cui la pressione fiscale per gli imprenditori è estremamente più bassa rispetto al resto d'Europa.
Si induriscono i requisiti per l'accesso ai sussidi di disoccupazione e, al tempo stesso, si riduce drasticamente la spesa pubblica per le politiche attive dell'impiego.Il lavoratore dipendente viene stretto in una morsa che lo logora soprattutto dal punto di vista umano, facendogli credere di non avere abbastanza capacità per accedere ai diritti, riducendolo all'esclusione, alla povertà, all'emarginazione sociale e a farlo sentire finalmente colpevole della propria situazione. A ciò si oppone con forza la società spagnola: al fatto che un governo incapace di dare risposte socialmente equitative alla crisi, la scarichi sulle fasce più deboli della popolazione convincendole di aver vissuto per anni al di sopra delle proprie possibilità.
Il referendum è uno strumento di consultazione democratica di cui in Spagna non si è certo abusato: dal '76 ad oggi ne sono stati fatti solo 4 ed anche questo fatto sottolinea la straordinaria drammaticità del momento.
C'è necessità impellente di non farsi rubare la democrazia con l'inganno e di scacciare a pedate certi fantasmi della dittatura che rivivono puntualmente quando le disuguaglianze danno una mano a spingere gli estremismi. Nella Spagna di oggi non può esserci più posto per striscioni come questo, apparso durante la manifestazione di sabato.
L'appuntamento è ora a fine mese con i sindacati europei. Come già detto altre volte, l'indignazione non basta più.Occorre rimettere al più presto il lavoro al centro a livello europeo e senza smagliature. E da lí riprenderci il futuro a cui ogni essere umano ha diritto.
PS:Il titolo del post è quello dello striscione dei funzionari catalani che abbero il coraggio di sfilare sabato a Madrid dopo l'imponente manifestazione per l'indipendenza della Catalogna della scorsa settimana.
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A volte la vita corre più veloce del passo di una manifestazione e sabato scorso non ero a Madrid se non col cuore. Per le strade della capitale spagnola oltre un milione di persone a chiedere di potersi esprimere in un referendum contro i tagli imposti dalla liberale austerità e sul paventato salvataggio del Paese da parte dell'Unione Europea.
Non una manifestazione qualunque ma un vero summit sociale che ha riunito, compatti, i sindacati, il settore dell'educazione, dei servizi sociali in generale e, in particolare, coloro che in famiglia o nel pubblico hanno a carico persone dipendenti: i beneficiari di una delle leggi socialmente più sentite dell'epoca Zapatero, completamente cancellata dai tagli. E poi chi lavora nella sanità, nei servizi pubblici in generale e le donne, moltissme donne, motore di una corrente particolarmente attiva all'interno delle sei "maree tematiche" che strutturavano la manifestazione.
C'è poi il Portogallo appiccicato, dove un giovane meno di 48 ore fa si è dato fuoco per protesta; c'è ormai la certezza che la crisi sia una scusa per cambiare profondamente e definitivamente un modello sociale esemplare. 14mila milioni di euro di riduzione della spesa per la protezione contributiva alla disoccupazione fino al 2014 non lasciano dubbi sulla portata antisociale dei provvedimenti presi dal governo Rajoy in meno di un anno. Gli interessi sul debito pubblico spagnolo pagati sulla pelle di quell'1,7 milioni di famiglie che hanno tutti i loro membri disoccupati. E sui 5,7 milioni di disoccupati totali del Paese, secondo il sondaggio sulla popolazione attiva del 2012, 2º trimestre (EPA), ben 2,8 milioni di persone non godono di alcuna protezione pubblica.
La riforma del lavoro, per molti versi parallela a quella italiana in quanto a cancellazione dei diritti, ha reso più facile licenziare, ha emarginato i rappresentanti sindacali spalancando le porte ad uno squilibrio che ora pare incolmabile tra il lavoratore indifeso ed il potere incontrollato delle aziende. In un Paese in cui la pressione fiscale per gli imprenditori è estremamente più bassa rispetto al resto d'Europa.
Si induriscono i requisiti per l'accesso ai sussidi di disoccupazione e, al tempo stesso, si riduce drasticamente la spesa pubblica per le politiche attive dell'impiego.Il lavoratore dipendente viene stretto in una morsa che lo logora soprattutto dal punto di vista umano, facendogli credere di non avere abbastanza capacità per accedere ai diritti, riducendolo all'esclusione, alla povertà, all'emarginazione sociale e a farlo sentire finalmente colpevole della propria situazione. A ciò si oppone con forza la società spagnola: al fatto che un governo incapace di dare risposte socialmente equitative alla crisi, la scarichi sulle fasce più deboli della popolazione convincendole di aver vissuto per anni al di sopra delle proprie possibilità.
Il referendum è uno strumento di consultazione democratica di cui in Spagna non si è certo abusato: dal '76 ad oggi ne sono stati fatti solo 4 ed anche questo fatto sottolinea la straordinaria drammaticità del momento.
C'è necessità impellente di non farsi rubare la democrazia con l'inganno e di scacciare a pedate certi fantasmi della dittatura che rivivono puntualmente quando le disuguaglianze danno una mano a spingere gli estremismi. Nella Spagna di oggi non può esserci più posto per striscioni come questo, apparso durante la manifestazione di sabato.
L'appuntamento è ora a fine mese con i sindacati europei. Come già detto altre volte, l'indignazione non basta più.Occorre rimettere al più presto il lavoro al centro a livello europeo e senza smagliature. E da lí riprenderci il futuro a cui ogni essere umano ha diritto.
PS:Il titolo del post è quello dello striscione dei funzionari catalani che abbero il coraggio di sfilare sabato a Madrid dopo l'imponente manifestazione per l'indipendenza della Catalogna della scorsa settimana.
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venerdì 14 settembre 2012
La cosa (poco) seria
Ancora non governano - e chissà se lo faranno mai - ma già litigano. Record mica da poco per PD e SEL con Casini a fare da convitato di pietra - e non Di Pietro...
Dal suo atto di nascita - l'ennesima scissione della sinistra su questioni incomprensibili ai più - SEL ha privilegiato il rapporto con il Partito Democratico. Scelta legittima, se fosse politicamente coerente. Certo già qualche anno fa il PD non era proprio un partito di sinistra-sinistra, basta ricordarsi gli elogi sperticati di Chiamparino e Fassino (e non solo di Veltroni) per Marchionne, mentre Vendola marciava in piazza a fianco della FIOM. Ma col passare del tempo la situazione è anche peggiorata. Vendola compiva il suo percorso riformista, sosteneva Hollande invece di Melanchon per accreditarsi come leader responsabile, ma intanto il PD passava da Hollande a Monti. Con tanti mal di pancia, soprattutto del povero Fassina. Ed un pò anche di Bersani, incazzato soprattutto perchè a Palazzo Chigi non c'era lui. Ma i provvedimenti, tutti votati disciplinatamente, a partire dal fiscal compact - mitico quel "è sbagliato ma lo facciamo lo stesso". E nel mezzo, pensionati bastonati, il contrario di quello che fa il moderatissimo (e modestissimo) Hollande, e lavoratori trattati come macchinari da rottamare, manco fossero Veltroni e D'Alema.
Un pò troppo anche per Vendola, che raccoglie le firme per ribaltare la riforma Fornero insieme agli appestati della sinistra - FdS e Di Pietro. Ed ecco che subito partono attacchi dai democratici verso Vendola, e dall'UDC, già promessa sposa per il dopo elezioni, verso il PD. Una cosa poco seria.
D'altronde la politica del potere al posto di quella delle idee è una cosa poco seria per definizione. Perchè PD e SEL insistono per allearsi? SEL per andare al governo, il PD per non scoprirsi a sinistra e perdere troppi voti. Convenienza. Ma il programma? Poca roba, come si vede da quanto detto finora. Si, tutti parlano di centralità del lavoro, e allora? Anche i liberisti lo fanno, bisogna vedere come si intende dare centralità al lavoro. Con le liberalizzazioni o con i diritti? Ma su questo fronte tutto tace, per evitare altri scontri. Insomma, vinciamo insieme, poi iniziano i casini - con la c minuscola o maiuscola, va bene uguale. Invece lavoratori ed elettori avrebbero diritto di sapere per cosa votano veramente: votano per chi si oppone o per chi sostiene la riforma Fornero? O votano per chi si oppone per ritrovarsi con un governo eletto con i loro voti che, per ragioni di maggioranza, sosterrà quella riforma?
La cosa seria, invece, sarebbe fare alleanze con chi la pensa in maniera simile. Ad esempio sui già citati diritti dei lavoratori, fiscal compact, etc etc. Cioè, pare evidente che sui vari punti programmatici Vendola - o almeno il suo elettorato - sia più vicino ai referendari che al PD. Andare invece al voto coi democratici per fare la corrente di minoranza che poi non incide nulla sulle politiche del paese è politicamente inutile, se non opportunista. E' quella vecchia politica che sta nel palazzo e mai accanto alla gente. Che contratta qualche posizione di potere, un posto al sole in cambio di voti. L'unica cosa seria sarebbe lasciarli andare al loro destino.
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Dal suo atto di nascita - l'ennesima scissione della sinistra su questioni incomprensibili ai più - SEL ha privilegiato il rapporto con il Partito Democratico. Scelta legittima, se fosse politicamente coerente. Certo già qualche anno fa il PD non era proprio un partito di sinistra-sinistra, basta ricordarsi gli elogi sperticati di Chiamparino e Fassino (e non solo di Veltroni) per Marchionne, mentre Vendola marciava in piazza a fianco della FIOM. Ma col passare del tempo la situazione è anche peggiorata. Vendola compiva il suo percorso riformista, sosteneva Hollande invece di Melanchon per accreditarsi come leader responsabile, ma intanto il PD passava da Hollande a Monti. Con tanti mal di pancia, soprattutto del povero Fassina. Ed un pò anche di Bersani, incazzato soprattutto perchè a Palazzo Chigi non c'era lui. Ma i provvedimenti, tutti votati disciplinatamente, a partire dal fiscal compact - mitico quel "è sbagliato ma lo facciamo lo stesso". E nel mezzo, pensionati bastonati, il contrario di quello che fa il moderatissimo (e modestissimo) Hollande, e lavoratori trattati come macchinari da rottamare, manco fossero Veltroni e D'Alema.
Un pò troppo anche per Vendola, che raccoglie le firme per ribaltare la riforma Fornero insieme agli appestati della sinistra - FdS e Di Pietro. Ed ecco che subito partono attacchi dai democratici verso Vendola, e dall'UDC, già promessa sposa per il dopo elezioni, verso il PD. Una cosa poco seria.
D'altronde la politica del potere al posto di quella delle idee è una cosa poco seria per definizione. Perchè PD e SEL insistono per allearsi? SEL per andare al governo, il PD per non scoprirsi a sinistra e perdere troppi voti. Convenienza. Ma il programma? Poca roba, come si vede da quanto detto finora. Si, tutti parlano di centralità del lavoro, e allora? Anche i liberisti lo fanno, bisogna vedere come si intende dare centralità al lavoro. Con le liberalizzazioni o con i diritti? Ma su questo fronte tutto tace, per evitare altri scontri. Insomma, vinciamo insieme, poi iniziano i casini - con la c minuscola o maiuscola, va bene uguale. Invece lavoratori ed elettori avrebbero diritto di sapere per cosa votano veramente: votano per chi si oppone o per chi sostiene la riforma Fornero? O votano per chi si oppone per ritrovarsi con un governo eletto con i loro voti che, per ragioni di maggioranza, sosterrà quella riforma?
La cosa seria, invece, sarebbe fare alleanze con chi la pensa in maniera simile. Ad esempio sui già citati diritti dei lavoratori, fiscal compact, etc etc. Cioè, pare evidente che sui vari punti programmatici Vendola - o almeno il suo elettorato - sia più vicino ai referendari che al PD. Andare invece al voto coi democratici per fare la corrente di minoranza che poi non incide nulla sulle politiche del paese è politicamente inutile, se non opportunista. E' quella vecchia politica che sta nel palazzo e mai accanto alla gente. Che contratta qualche posizione di potere, un posto al sole in cambio di voti. L'unica cosa seria sarebbe lasciarli andare al loro destino.
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mercoledì 12 settembre 2012
Gli aggiornamenti delle rubriche di Resistenza Internazionale
The City of London
Democrazia ed Economia - 2: la trappola d Draghi
La mossa della BCE di comprare titoli di debito sul mercato è un passo nella giusta direzione. Sarebbe dovuto anzi essere introdotto molto tempo fa, si sarebbero risparmiati disagi e problemi per Spagna ed Italia ed anche la Grecia - il cui ammontare di debito è relativamente piccolo - sarebbe potuta essere tratta in salvo....[continua la lettura]
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Democrazia ed Economia - 2: la trappola d Draghi
La mossa della BCE di comprare titoli di debito sul mercato è un passo nella giusta direzione. Sarebbe dovuto anzi essere introdotto molto tempo fa, si sarebbero risparmiati disagi e problemi per Spagna ed Italia ed anche la Grecia - il cui ammontare di debito è relativamente piccolo - sarebbe potuta essere tratta in salvo....[continua la lettura]
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martedì 11 settembre 2012
Due facce, la medesima medaglia
Di Simone Rossi
Con meno clamore mediatico, ma forse con un pathos più autentico, altrove si ricorda un altro 11 settembre, di ventott'anni anteriore a quello di New York e Washington. Quello che diede l'avvio a diciassette anni di una dittatura sanguinaria, assurta al potere con il supporto determinante dei servizi segreti e delle forze armate statunitensi e che operò una pulizia del dissenso e dell'opposizione attraverso rapimenti, sparizioni, torture, stupri e omicidi. Un'operazione preliminare all'introduzione di un modello economico che avrebbe fatto scuola in gran parte del mondo ed avrebbe trovato in Margareth Thatcher e Ronald Reagan due estimatori. Due ricorrenze che in qualche modo dividono, che finiscono per esser contrapposte in una diatriba che perde di vista i morti e la radice comune della questione. Da duecento anni, la nazione che si è autoproclamata faro della democrazia e della libertà, promuove i propri interessi commerciali e geopolitici a suon di golpe, invasioni, guerre, dittature fantoccio spesso e volentieri dal sapore fascista. Una lotta per lo spazio vitale che ha lasciato milioni di morti in tutti i continenti ed ha portato i governi statunitensi a stringere un forte legame con quelle stesse monarchie assolute finanziatrici degli integralisti di ogni risma. Purtroppo non sarà la stampa asservita all'editore di turno, né saranno i governi con le mani sporche a chiudere il cerchio ed a far fare agli statunitensi ed a noi europei i conti con la nostra storia. Con buona pace dei benpensanti.
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Gli aggiornamenti delle rubriche
The City of London:
Democrazia ed Economia-1: Napolitano e le elezioni: Ormai non si sa più cosa dire per commentare le parole del Presidente della Repubblica. Dovrebbe essere al suo posto per garantire la difesa della Costituzione, invece pare sempre più chiaro che siede al Quirinale per garantire un certo tipo di classe politica ed un certo tipo di scelte economiche.... [continua a leggere]
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Democrazia ed Economia-1: Napolitano e le elezioni: Ormai non si sa più cosa dire per commentare le parole del Presidente della Repubblica. Dovrebbe essere al suo posto per garantire la difesa della Costituzione, invece pare sempre più chiaro che siede al Quirinale per garantire un certo tipo di classe politica ed un certo tipo di scelte economiche.... [continua a leggere]
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mercoledì 5 settembre 2012
Risposte reazionarie e la mancanza di una spinta progressita
Sull'Unità di qualche giorno fa Michele Prospero ha azzardato una lettura della storia repubblicana basata sulla comparsa dell'anti-politica ogni qualvolta si era alle porte di un cambiamento epocale. L'anti-politica è stata, a suo parere, la stampella della destra per bloccare l'ascesa al potere della sinistra - dietro le parole anti-establishment si è mirato invece ad una conservazione del sistema politico ormai decadente.
I 3 passaggi storici che Prospero inquadra sono: il 1948 e l'Uomo Qualunque contro Togliatti; il 1977 e i "Movimenti" contro Berlinguer; ed ora Il Fatto, la 7, Libero, Stella e Rizzo, Grillo e Di Pietro contro Bersani ed il PD. Mi pare una lettura assai forzata, tre episodi molto diversi tra loro che poco, forse nulla, hanno in comune.
Ma prendiamo seriamente la tesi di Prospero ed analizziamola. Una comparazione metodologicamente seria richiede soggetti e situazioni comparabili. Prospero sostiene che il populismo conservatore ha sbarrato la strada al progresso del paese. Ma di che tipo di progresso parliamo? Di che genere di proposta politica? E quali forze sociali erano e sono coinvolte?
Nel 48 il PCI, tipico partito di classe, proponeva una netta alternativa e comunque la costruzione di un Paese nuovo dopo la fine del fascismo. Il contesto storico era quello della Guerra Fredda, scelte di campo dirimenti, modelli politici ed economici antitetici. Il PCI si sarebbe accontentato anche di molto meno ed in effetti era disposto a continuare a governare con la DC, finchè non fu cacciato dal Governo non da Giannini ma dal Dipartimento di Stato Americano. Alle elezioni, Giannini si rivelò capace di intercettare una discreta quantità di voti generati dal malcontento. Fu, in questo un alleato della DC? Ammettiamolo pure, anche se la risposta non sembra poi così ovvia. Giannini fu un classico esempio di populismo di destra che sottrasse, forse, voti anche alla sinistra.
Passiamo al '77. L'analisi berlingueriana del golpe cileno portò alle larghe intese ed al sostegno del PCI al governo Andreotti. Sulle basi del progresso sociale? Assolutamente no, come riconosciuto dallo stesso Berlinguer pochi anni più tardi. Il progresso e le riforme erano avvenuti negli anni 60 e ad inizio anni 70 come conseguenza delle lotte sociali di cui la sinistra d'opposizione fu grande protagonista. Fu la forza dei movimenti sociali e non il compromesso politico a portare a quel progresso. Il compromesso politico fu ben altro - per il PCI doveva stabilizzare un quadro politico tumultuoso ma per la DC era semplicemente un diversivo per mantenere il potere - e la DC ebbe buon gioco a menar il can per l'aia, vanificando qualsiasi tentativi progressista. Che ruolo ebbero, dunque, i "Movimenti" del 77? Furono sicuramente anti-sinistra istituzionale e con una componente populista ma si innestarono su un quadro politico di conservazione e non certo di progresso, come invece, in parte, nel 48. Sottolinearono in maniera chiara un limite storico del PCI, l'incapacità di aprirsi a forze sociali non inquadrate nel partito, e che già aveva portato a problemi nel 68, alla normalizzazione dell'ala ingraiana e alla rottura col Manifesto.
E la situazione attuale? Qui l'analisi di Prospero và completamente fuori strada. Intanto sembra, a leggere l'articolo, che i movimenti anti-casta siano frutto di una sottile (ma neanche tanto) propaganda mediatica e non basati su una situazione reale e concreta - d'altronde Prospero parla di casta "immaginaria"! E qui già il nostro sembra dimenticare che proprio il PCI fu, negli anni, portavoce per eccellenza di quel sentimento morale che invocava una politica etica e onesta, anti-casta diremmo oggi - dai Forchettoni alla famosa intervista di Berlinguer. La richiesta di politica pulita non è dunque affatto sinonimo di populismo, come invece sembra dire, semplificando, l'articolo.
Ma non è certo questo il punto più problematico. Quali sarebbero gli obiettivi di progresso indicati da Bersani e, in sottordine, da Vendola? Il PD, frustrando forse le illusioni di Prospero, non ha nulla di quel vecchio partito che era il PCI. Non certo una visione di progresso sociale, ma al massimo di onesto governo dell'attuale. Quel paese normale di d'alemiana memoria che riporta al pochissimo fatto dal governo Prodi nei suoi vari periodi a Palazzo Chigi. A meno che, per Prospero, questo progresso non passi SOLAMENTE attraverso la sistemazione dei conti pubblici, da sempre l'alfa e l'omega di PDS, DS e PD.
Dove sarebbe, nel 2012, in piena crisi economica, con una ridefinizione fondamentale dei rapporti di lavoro e di cittadinanza, quel programma di vaste riforme cui l'antipolitica vorrebbe in realtà mettere freno? Difficile saperlo visto che nulla, per ora, è stato annunciato. Nel 48 e nel 77, in momenti di grande tensione sociale - basti pensare alla riforma agraria e agli scontri nelle fabbriche - il PCI stava, senza se e senza ma, in un campo sociale, dalla parte dei lavoratori e questo era rappresentava senza dubbio un pericolo per le classi possidenti. Ed oggi? Se dovessimo giudicare dalle leggi votate in Parlamento dal PD (ma anche, ad esempio, dalle posizioni assunte nelle vertenze FIAT), potremmo forse sospettare che i principali agenti della reazione siano proprio i dirigenti democratici - certo costretti dalla responsabilità storica di salvare l'Italia e l'Euro.
Ma al di fuori della polemica, il punto fondamentale è che i soggetti politici di Prospero non reggono una seria analisi storico-politica. In sintesi: 1)E' assai discutibile la comparazioni dei 3 movimenti d'opionione come forze al servizio della reazione e già 48 e 77 sono due periodi difficilmente comparabili, con l'ultimo che è piuttosto data simbolo della fine di un ciclo di riforme. 2)Come abbiamo visto, non è comparabile il PCI di Togliatti con il PD di Bersani, perchè non sono comparabili le politiche pubbliche che propongono. Ma soprattutto, 3)manca nell'articolo una seria identificazione delle forze reazionarie, che non sono quelle dell'anti-politica, rappresentante come semplici strumenti nelle mani dei vecchi poteri. Nel 48 molto era in gioco, in termini di assetti economici e politici e la stremata borghesia uscita con le mani sporche dal fascismo molto aveva da temere da una vittoria elettorale del PCI ma anche semplicemente da un governo di unità nazionale. Nel 77 molto meno era in discussione ed infatti il rischio non era certo rappresentato dal governo Andreotti ma da una continua avanzata del PCI che continuava ad impaurire una borghesia dal modesto valore culturale e politico. E nel 2012? Perchè la comparazione di Prospero stia in piedi, occorre identificare i soggetti che più hanno da temere da una vittoria della sinistra e cosa questa vittoria comporterebbe. Senza l'identificazione di questo soggetto fondamentale - su cui l'articolo sorvola convenientemente - il discorso di Prospero non ha alcun senso.
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I 3 passaggi storici che Prospero inquadra sono: il 1948 e l'Uomo Qualunque contro Togliatti; il 1977 e i "Movimenti" contro Berlinguer; ed ora Il Fatto, la 7, Libero, Stella e Rizzo, Grillo e Di Pietro contro Bersani ed il PD. Mi pare una lettura assai forzata, tre episodi molto diversi tra loro che poco, forse nulla, hanno in comune.
Ma prendiamo seriamente la tesi di Prospero ed analizziamola. Una comparazione metodologicamente seria richiede soggetti e situazioni comparabili. Prospero sostiene che il populismo conservatore ha sbarrato la strada al progresso del paese. Ma di che tipo di progresso parliamo? Di che genere di proposta politica? E quali forze sociali erano e sono coinvolte?
Nel 48 il PCI, tipico partito di classe, proponeva una netta alternativa e comunque la costruzione di un Paese nuovo dopo la fine del fascismo. Il contesto storico era quello della Guerra Fredda, scelte di campo dirimenti, modelli politici ed economici antitetici. Il PCI si sarebbe accontentato anche di molto meno ed in effetti era disposto a continuare a governare con la DC, finchè non fu cacciato dal Governo non da Giannini ma dal Dipartimento di Stato Americano. Alle elezioni, Giannini si rivelò capace di intercettare una discreta quantità di voti generati dal malcontento. Fu, in questo un alleato della DC? Ammettiamolo pure, anche se la risposta non sembra poi così ovvia. Giannini fu un classico esempio di populismo di destra che sottrasse, forse, voti anche alla sinistra.
Passiamo al '77. L'analisi berlingueriana del golpe cileno portò alle larghe intese ed al sostegno del PCI al governo Andreotti. Sulle basi del progresso sociale? Assolutamente no, come riconosciuto dallo stesso Berlinguer pochi anni più tardi. Il progresso e le riforme erano avvenuti negli anni 60 e ad inizio anni 70 come conseguenza delle lotte sociali di cui la sinistra d'opposizione fu grande protagonista. Fu la forza dei movimenti sociali e non il compromesso politico a portare a quel progresso. Il compromesso politico fu ben altro - per il PCI doveva stabilizzare un quadro politico tumultuoso ma per la DC era semplicemente un diversivo per mantenere il potere - e la DC ebbe buon gioco a menar il can per l'aia, vanificando qualsiasi tentativi progressista. Che ruolo ebbero, dunque, i "Movimenti" del 77? Furono sicuramente anti-sinistra istituzionale e con una componente populista ma si innestarono su un quadro politico di conservazione e non certo di progresso, come invece, in parte, nel 48. Sottolinearono in maniera chiara un limite storico del PCI, l'incapacità di aprirsi a forze sociali non inquadrate nel partito, e che già aveva portato a problemi nel 68, alla normalizzazione dell'ala ingraiana e alla rottura col Manifesto.
E la situazione attuale? Qui l'analisi di Prospero và completamente fuori strada. Intanto sembra, a leggere l'articolo, che i movimenti anti-casta siano frutto di una sottile (ma neanche tanto) propaganda mediatica e non basati su una situazione reale e concreta - d'altronde Prospero parla di casta "immaginaria"! E qui già il nostro sembra dimenticare che proprio il PCI fu, negli anni, portavoce per eccellenza di quel sentimento morale che invocava una politica etica e onesta, anti-casta diremmo oggi - dai Forchettoni alla famosa intervista di Berlinguer. La richiesta di politica pulita non è dunque affatto sinonimo di populismo, come invece sembra dire, semplificando, l'articolo.
Ma non è certo questo il punto più problematico. Quali sarebbero gli obiettivi di progresso indicati da Bersani e, in sottordine, da Vendola? Il PD, frustrando forse le illusioni di Prospero, non ha nulla di quel vecchio partito che era il PCI. Non certo una visione di progresso sociale, ma al massimo di onesto governo dell'attuale. Quel paese normale di d'alemiana memoria che riporta al pochissimo fatto dal governo Prodi nei suoi vari periodi a Palazzo Chigi. A meno che, per Prospero, questo progresso non passi SOLAMENTE attraverso la sistemazione dei conti pubblici, da sempre l'alfa e l'omega di PDS, DS e PD.
Dove sarebbe, nel 2012, in piena crisi economica, con una ridefinizione fondamentale dei rapporti di lavoro e di cittadinanza, quel programma di vaste riforme cui l'antipolitica vorrebbe in realtà mettere freno? Difficile saperlo visto che nulla, per ora, è stato annunciato. Nel 48 e nel 77, in momenti di grande tensione sociale - basti pensare alla riforma agraria e agli scontri nelle fabbriche - il PCI stava, senza se e senza ma, in un campo sociale, dalla parte dei lavoratori e questo era rappresentava senza dubbio un pericolo per le classi possidenti. Ed oggi? Se dovessimo giudicare dalle leggi votate in Parlamento dal PD (ma anche, ad esempio, dalle posizioni assunte nelle vertenze FIAT), potremmo forse sospettare che i principali agenti della reazione siano proprio i dirigenti democratici - certo costretti dalla responsabilità storica di salvare l'Italia e l'Euro.
Ma al di fuori della polemica, il punto fondamentale è che i soggetti politici di Prospero non reggono una seria analisi storico-politica. In sintesi: 1)E' assai discutibile la comparazioni dei 3 movimenti d'opionione come forze al servizio della reazione e già 48 e 77 sono due periodi difficilmente comparabili, con l'ultimo che è piuttosto data simbolo della fine di un ciclo di riforme. 2)Come abbiamo visto, non è comparabile il PCI di Togliatti con il PD di Bersani, perchè non sono comparabili le politiche pubbliche che propongono. Ma soprattutto, 3)manca nell'articolo una seria identificazione delle forze reazionarie, che non sono quelle dell'anti-politica, rappresentante come semplici strumenti nelle mani dei vecchi poteri. Nel 48 molto era in gioco, in termini di assetti economici e politici e la stremata borghesia uscita con le mani sporche dal fascismo molto aveva da temere da una vittoria elettorale del PCI ma anche semplicemente da un governo di unità nazionale. Nel 77 molto meno era in discussione ed infatti il rischio non era certo rappresentato dal governo Andreotti ma da una continua avanzata del PCI che continuava ad impaurire una borghesia dal modesto valore culturale e politico. E nel 2012? Perchè la comparazione di Prospero stia in piedi, occorre identificare i soggetti che più hanno da temere da una vittoria della sinistra e cosa questa vittoria comporterebbe. Senza l'identificazione di questo soggetto fondamentale - su cui l'articolo sorvola convenientemente - il discorso di Prospero non ha alcun senso.
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martedì 4 settembre 2012
Democrazia in pericolo
La politica italiana sembra sempre più allo sbando. Da un anno le scelte economiche vengono dettate dai mercati e recepite supinamente dal Parlamento. Un esecutivo di emergenza nazionale, imposto dal Presidente della Repubblica, governa ma in realtà ubbidisce ai diktat tedeschi che proprio Monti stigmatizzava un anno fa. I partiti si sbriciolano, travolti da uno scandalo dietro l'altro. E lo stesso Presidente della Repubblica apre un conflitto inaudito con la magistratura per cercare di coprire un uso assai disinvolto del telefono attraverso cui parlava di indagini in corso con Nicola Mancino - già presidente del Senato e prima Ministro dell'Interno al tempo delle stragi mafiose e del cosiddetto patto con la Mafia su cui si è dimostrato assai reticente, alcuni potrebbero dire omertoso.
In questo scenario da tregenda si cercano di delineare i futuri equilibri del paese, ancora una volta imposti dall'alto, ancora una volta ideati per ridurre gli spazi democratici. Il Parlamento sembra orientato ad adottare una nuova legge elettora che rischia, incredibili a dirsi, di essere peggiore di quella precedente. Addio premio di coalizione, ecco che arriverebbe un premio (pari al 15% dei seggi) per il Partito con più voti.
Immaginiamoci uno scenario assai realistico: PD primo col 25% dei voti, vedrebbe la sua rappresentanza aumentata del 60% in barba al volere dei cittadini. Mentre con lo sbarramento al 5% molti partiti con un consenso elettorale non proprio minuscolo verrebbero cancellati dalla rappresentanza istituzionale. Insomma, una svolta elettorale che se non ancora autoritaria va sicuramente in direzione opposta alla democrazia. Ma non finisce qui.
Col 40%, come noto, non si governa e molto realisticamente il PD andrebbe alle elezioni in coalizione con SEL - forse, ancora meglio, con una lista unica per esser sicuri di arrivare primi, così chi volesse votare per Fava in Sicilia finirebbe per votare anche Letta visto che le preferenze, se mai ci saranno, verrebbero comunque infilate tutte insieme nel calderone del premio di maggioranza. Ed anche questo appare un obbrobrio.
Ma in tempi procellosi questo non basterebbe ancora, la maggioranza dovrebbe essere solida e quindi più ampia, ed ecco allora che l'UDC - con Montezemolo e Fini, ovviamente - sarebbe il partner di governo scelto da PD e SEL. Già detto e ripetuto da Bersani e Fassina, tanto per esser sicuri. Insomma, voti una coalizione di "sinistra" e ti ritrovi Casini al governo, magari coadiuvato da Monti all'economia o Passera allo sviluppo economico.
Ci dobbiamo sorprendere? Non più di tanto se pensiamo che il PD sta appoggiando un governo tecnico che sta uccidendo l'economia facendo pagare la crisi soltanto ai ceti più deboli. E dunque si manterrebbe coerente con la sua impostazione politica ed economica, moderatamente conservatrice ed in accordo coi vari poteri forti.
Discorso diverso, ma solo in parte, per SEL. Sembra ormai chiaro che l'unico obiettivo politco che si prefigge Vendola sia la conquista del potere, costi quel che costi. Prima, in nome dell'alleanza a prescindere col PD, ha rotto Rifondazione Comuista. Poi, sempre in nome di un posto a tavola, ha rotto con Di Pietro. Ora ci racconta che SEL e UDC non correranno insieme alle elezioni, ma sa benissimo che andranno a braccetto al governo a urne chiuse, tanto per non far venire troppi conati di vomito ai suoi elettori. Nel caso di Vendola la mancanza di coerenza è legata alla pochezza politica e all'opportunismo di chi è disposto a tutto per un pò di potere. Un Vendola che in questi mesi ha detto di opporsi al governo Monti e alle sue ricette economiche, ma cui va benissimo fare programmi di legislatura con chi questo governo sostiene. Un Vendola che ha detto di sostenere la FIOM ma va a governare con chi sostiene Marchionne. E con quale prospettiva? Quella di imporre le sue scelte col 6% che gli attribuiscono i sondaggi, o forse col magro 3% che sono i voti veri che ha preso nelle elezioni finora svolte - quando ancora, per altro, sembrava un candidato ed un partito di rottura?
Insomma, si profila uno scenario da incubo che passa attraverso la riproposizione di un governo semi-oligarchico molto attento ai mercati e molto poco ai lavoratori. Che dietro questo disegno ci sia un partito che si definisce democratico è, in fondo, solo un incidente lessicale.
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In questo scenario da tregenda si cercano di delineare i futuri equilibri del paese, ancora una volta imposti dall'alto, ancora una volta ideati per ridurre gli spazi democratici. Il Parlamento sembra orientato ad adottare una nuova legge elettora che rischia, incredibili a dirsi, di essere peggiore di quella precedente. Addio premio di coalizione, ecco che arriverebbe un premio (pari al 15% dei seggi) per il Partito con più voti.
Immaginiamoci uno scenario assai realistico: PD primo col 25% dei voti, vedrebbe la sua rappresentanza aumentata del 60% in barba al volere dei cittadini. Mentre con lo sbarramento al 5% molti partiti con un consenso elettorale non proprio minuscolo verrebbero cancellati dalla rappresentanza istituzionale. Insomma, una svolta elettorale che se non ancora autoritaria va sicuramente in direzione opposta alla democrazia. Ma non finisce qui.
Col 40%, come noto, non si governa e molto realisticamente il PD andrebbe alle elezioni in coalizione con SEL - forse, ancora meglio, con una lista unica per esser sicuri di arrivare primi, così chi volesse votare per Fava in Sicilia finirebbe per votare anche Letta visto che le preferenze, se mai ci saranno, verrebbero comunque infilate tutte insieme nel calderone del premio di maggioranza. Ed anche questo appare un obbrobrio.
Ma in tempi procellosi questo non basterebbe ancora, la maggioranza dovrebbe essere solida e quindi più ampia, ed ecco allora che l'UDC - con Montezemolo e Fini, ovviamente - sarebbe il partner di governo scelto da PD e SEL. Già detto e ripetuto da Bersani e Fassina, tanto per esser sicuri. Insomma, voti una coalizione di "sinistra" e ti ritrovi Casini al governo, magari coadiuvato da Monti all'economia o Passera allo sviluppo economico.
Ci dobbiamo sorprendere? Non più di tanto se pensiamo che il PD sta appoggiando un governo tecnico che sta uccidendo l'economia facendo pagare la crisi soltanto ai ceti più deboli. E dunque si manterrebbe coerente con la sua impostazione politica ed economica, moderatamente conservatrice ed in accordo coi vari poteri forti.
Discorso diverso, ma solo in parte, per SEL. Sembra ormai chiaro che l'unico obiettivo politco che si prefigge Vendola sia la conquista del potere, costi quel che costi. Prima, in nome dell'alleanza a prescindere col PD, ha rotto Rifondazione Comuista. Poi, sempre in nome di un posto a tavola, ha rotto con Di Pietro. Ora ci racconta che SEL e UDC non correranno insieme alle elezioni, ma sa benissimo che andranno a braccetto al governo a urne chiuse, tanto per non far venire troppi conati di vomito ai suoi elettori. Nel caso di Vendola la mancanza di coerenza è legata alla pochezza politica e all'opportunismo di chi è disposto a tutto per un pò di potere. Un Vendola che in questi mesi ha detto di opporsi al governo Monti e alle sue ricette economiche, ma cui va benissimo fare programmi di legislatura con chi questo governo sostiene. Un Vendola che ha detto di sostenere la FIOM ma va a governare con chi sostiene Marchionne. E con quale prospettiva? Quella di imporre le sue scelte col 6% che gli attribuiscono i sondaggi, o forse col magro 3% che sono i voti veri che ha preso nelle elezioni finora svolte - quando ancora, per altro, sembrava un candidato ed un partito di rottura?
Insomma, si profila uno scenario da incubo che passa attraverso la riproposizione di un governo semi-oligarchico molto attento ai mercati e molto poco ai lavoratori. Che dietro questo disegno ci sia un partito che si definisce democratico è, in fondo, solo un incidente lessicale.
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