giovedì 29 settembre 2011

RESISTENZA INTERNAZIONALE CONTRO LA LEGGE BAVAGLIO
Aderiamo all'iniziativa di "Repubblica"

Gli aggiornamenti delle rubriche di "Resistenza Internazionale"

The City of London
"Rastani e le scomode verità"
Ora si dice che Rastani non e' un vero trader e che le sue sono parole in liberta'. Ma lo sono davvero? Non e' forse vero che la recessione sta arrivando e cancellera' i risparmi di milioni di persone? E forse non sappiamo che in questo momento il mercato e' governato dalla paura, così come nel passato era l'entusiasmo irrazionale ad aver creato le bolle degli anni 90 e 2000?...leggi tutto l'articolo

La drag queen con la kippah
Di Simone Rossi

Quando si affronta la questione della politica dei governi di Israele e dell'occupazione di quello stato dimezzato conosciuto come Palestina si finisce con la polarizzazione tra "pro" e "contro", perdendone di vista gli aspetti concreti. Sopratutto i più intransigenti sostenitori "senza se e senza ma" delle politiche israeliane tendono ad evidenziare i progressi in campo dei diritti civili effettuati in Israele nel corso dei decenni, ponendoli a confronto con la situazione dei Paesi confinanti. Si innesca così una trappola, tendenzialmente settaria, in cui di volta in volta ogni categoria "a rischio", ogni minoranza viene intruppata nelle file dei filo-israeliani, mentre chi ha dubbi o incertezze deve ricredersi al più presto, pena il marchio di traditore della propria causa.

In anni recenti l'irreggimentazione è toccata ad omosessuali e transessuali, cittadini che per alcuni secoli hanno patito discriminazioni e vessazioni per il proprio orientamento sessuale e la propria identità di genere. Profondi cambiamenti, verso una cultura e legislazioni non discriminatorie, sono stati introdotti in vari Paesi del mondo, principalmente europei ed americani e poche eccezioni negli altri continenti, tra cui Israele. Nel Paese mediorientale, che ha ereditato dal Regno Unito un codice penalizzante l'omosessualità, fin dagli anni '70 le istituzioni hanno introdotto progressive aperture per quanto concerne la lotta alla discriminazione ed il riconoscimento di diritti civili agli individui omosessuali e transessuali. Soprattutto nelle città più laiche del Paese le locali organizzazioni LGBT, acronimo per LeasbianGayBisexualTransgender, hanno promosso le annuali marce del GayPride e si sono sviluppate attività commerciali rivolte a consumatori omosessuali e transessuali o comunque offrono un ambiente in cui potersi esprimere liberamente, come accade nelle maggiori città del cosiddetto Occidente. In virtù di questa situazione frequentemente individui ed associazioni LGBT italiane ed occidentali in genere hanno sentito il dovere di sostenere le politiche israeliane in toto, a prescindere da altre considerazioni di merito; non solo i liberali, collocati a destra, ma anche organizzazioni che si rifanno alla Sinistra autoproclamatasi moderna e responsabile.

In una “guerra tra poveri” i diritti degli omosessuali sono stati presi in ostaggio nel tentativo di sminuire i popoli arabi e, per contrasto, di porre Israele ed i suoi governi sotto un'aura di indiscutibilità. Un gioco pericoloso, che non tiene conto del fatto che i diritti o sono universali o divengono un privilegio, una concessione che crea dipendenza e sudditanza verso il signore di turno. Non giova alla lotta verso il rispetto universale degli/delle omosessuali e dei/delle transessuali forzare la mano e sanare le colpe dei governi di un Paese che da oltre quarant'anni occupa del terre di un altro popolo nonostante condanne e risoluzioni di quell'ONU cui si ricorre solo più per giustificare le guerre. Serve empatia verso quelle centinaia di migliaia di famiglie espulse dalle loro terre, cui è negato l'accesso al lavoro e l'esercizio di diritti basilari come quello all'istruzione ed alla salute. Le associazioni del movimento LGBT devono rifiutare queste strumentalizzazioni e collocare la propria azione in un contesto universale, come dovrebbero esser i diritti: di tutti.

Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete

mercoledì 28 settembre 2011

Gli aggiornamenti delle rubriche di "Resistenza Internazionale"

The City of London
"Tobin tax"
Ed ora anche la UE si accorge che la Tobin Tax e' una misura di buon senso e non una proposta demagogica di pochi (e cattivi) comunisti. Barroso la da gia' come cosa fatta, putroppo tra il dire ed il fare... .
Come funzionerebbe la TT e che effetti avrebbe?...leggi tutto l'articolo

Serenissima
"L.O.V.E."
Maurizio Cattelan è uno che attraverso le sue opere smentisce quel fastidioso luogo comune che vorrebbe (no)i veneti privi di senso dell'umorismo. In realtà ce ne vuole a iosa per raffigurare Wojtyla schiacciato dall' enorme calcolo renale di Maciel e di tutti i Legionari (l'interpretazione è mia), o per convincere il suo gallerista a travestirsi da fallo rosa per un mese...leggi tutto l'articolo

Rassegna stampa
Processo per il pestaggio di Bonsu:
il pm chiede per i vigili fino a 9 anni di carcere...leggi tutto l'articolo

Altro giro, altro regalo. Alle banche
Di Nicola Melloni

da "Liberazione" del 28/09/2011

Di fronte alla crisi dell’Euro che sta per travolgere, nuovamente, il sistema bancario internazionale, Banca Centrale Europea, Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale non sanno far altro che riproporre le stesse stantie ( e devastanti) ricette di quattro anni fa. Nuovamente si tratta di ricapitalizzare le banche i cui asset si sono drasticamente deprezzati a causa della forte esposizione che hanno nel mercato dei titoli pubblici – quello greco, in primis ma, naturalmente, anche il nostro. Nuovamente si tratta di creare nuovo debito, questa volta attraverso l’Efsf, per rimettere in sesto i vecchi debiti ormai impagabili. Già nel 2007 si salvarono le banche sommerse dai subprime, trasformando il debito privato in debito pubblico, che ha poi causato la crisi attuale. Ora si ritenta un’operazione simile, con l’Efsf che viene rimodellato, in pratica, come il fondo salva-banche istituito da Bush nel 2007. Con quale credibilità?

Quattro anni fa la misura salva banche – anche se non la sua successiva applicazione – pareva una misura di buon senso e necessaria per evitare un tracollo che avrebbe polverizzato l’intero sistema finanziario e con esso i risparmi delle famiglie e il finanziamento all’industria. Ma il salvataggio avrebbe dovuto essere accompagnato da precise regolamentazioni che evitassero l’esposizione delle banche nel futuro e che, soprattutto, non mettessero nuovamente gli Stati davanti ad una situazione senza via d’uscita, obbligandoli a salvare nuovamente le banche incapaci di governare in maniera efficiente il loro rischio. Ed invece nulla di tutto ciò è stato fatto. Nel montare della crisi bancaria del 2007 le banche erano convinte di non poter fallire, sapevano che gli Stati avrebbero fatto carte false per aiutarle, ed in effetti fu così. Erano too big to fail (troppo grandi per fallire) e questo le incentivò ad intraprendere attività rischiose, consapevoli che in caso di successo avrebbero goduto dei profitti, ed in caso di fallimento sarebbero state salvate dai governi occidentali. Ora i titoli tossici non sono più i mutui subprime, ma i titoli del tesoro di paesi europei in crisi. Nell’ultimo decennio, illudendosi che l’euro rappresentasse una garanzia a prova di bomba, linee di credito senza fondo sono state aperte verso i paesi meridionali dell’Unione, generando un massiccio innalzamento del debito pubblico, in alcuni casi (in Grecia, ad esempio), e di quello privato in altri (come in Spagna). Ed ora questi debiti non possono essere pagati.

A dispetto delle promesse fatte da Obama durante la sua campagna elettorale e dai vari G20, nulla è stato fatto in questi anni per rimettere ordine nel sistema bancario. Prima dell’estate l’Unione Europea dotava l’Efsf di risorse per risolvere la crisi greca, ma gli eventi hanno preceduto la politica ed ora si vuole innalzare la dotazione del fondo ad almeno 3000 miliardi di Euro, perchè anche Italia e Spagna sono a rischio. Non sono fondi per salvare gli Stati, i cui insostenibili debiti rimangono, ma soprattutto per evitare un altro collasso bancario. Non bisogna però farsi illusioni, l’Efsf viene creato per guadagnare tempo: dare un pò di fiato al mercato, mettere per il momento in sicurezza il sistema bancario, fermare gli attacchi speculativi, tenere artificialmente in vita un sistema già morto da quattro anni.

Intanto, i problemi di struttura rimangono. Le economie occidentali continuano a rimanere ostaggio dell’industria finanziaria e devono continuamente trovare le risorse, indebitandosi, per organizzare bail-out (salvataggi) sempre più grandi. L’Unione Europea, e soprattutto la sua componente nord-europea, continua a vedere come fumo negli occhi l’unione fiscale, non rendedosi conto che l’impalcatura istituzionale della Ue è insostenibile, che non può esistere una valuta senza un governo che abbia in mano tutti gli strumenti di politica economica. La debolezza politica e la divisione all’interno dell’Unione non può che aggravare le cose. Si va avanti di riunione in riunione, tra dubbi e discussioni, e sembra drammaticamente evidente che la sola preoccupazione sia salvare la propria baracca. Da una parte si rifinanziano le banche greche insieme a quelle tedesche per evitare l’effetto contagio tra istituti finanziari. Ma dall’altra non si fa veramente nulla per l’economia greca, anzi la si affossa con ricette economiche recessive, interessate solo al pagamento dei conti in scadenza e non alla sostenibilità di un medio periodo comunque troppo lungo per i vili interessi di bottega della finanza e della politica europea.

Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete

lunedì 26 settembre 2011

La Spagna, più vicina ad una soluzione pacifica e democratica della lotta all'ETA
Di Monica Bedana


E' trascorso un anno da quando buona parte della sinistra radicale basca rese pubblico l'accordo di Gernika, che determinava la possibilità di incanalare il conflitto politico e la confrontazione violenta verso uno scenario di pace e soluzioni democratiche. In altri termini, iniziava a prender forma la possibilità di rinuncia dell'ETA alle armi. Nel documento si annunciava una tregua permanente della lotta armata da parte dell'ETA, unilaterale e verificabile dalla comunità internazionale. Il Governo di Zapatero, impegnato a fondo fino a dicembre del 2006 in un dialogo con ETA -che saltò per aria nell'attentato dell'aeroporto di Barajas insieme alla precedente dichiarazione di “tregua permanente della lotta armata”-, non battè ciglio davanti agli accordi di Gernika. La conferma ufficiale della tregua arrivò quattro mesi dopo e tutte le forze politiche, all'unanimità, sia nel Governo nazionale che in quello basco, la ritennero deludente e insufficiente, in quanto non vi compariva l'attesa rinuncia definitiva alle armi.

Un anno dopo, quella stessa sinistra abertzale governa in 116 comuni dei Paesi Baschi dopo le amministrative dello scorso maggio e aspetta una conferma, da parte della società basca, di questo risultato nelle prossime elezioni generali del 20 novembre. E un anno dopo l'accordo di Gernika arriva anche, tramite comunicato ufficiale, la notizia che la maggioranza dei detenuti dell'ETA sottoscrive l'accordo e rinuncia alla soluzione armata per appoggiare la via della politica.

Anche in questo caso il Governo, scaduto tecnicamente qualche giorno fa in termini di legislatura, non batte ciglio o quasi, limitandosi a definire il fatto come “inedito”. La società spagnola e quella basca tuttavia non possono rimanere indifferenti alla portata di questa notizia, per l'enorme importanza che i detenuti dell'ETA hanno sempre avuto nello scacchiere delle relazioni tra Governo e banda armata. E i detenuti, pur nella loro diaspora nelle carceri spagnole più lontane dai Paesi Baschi e nel loro regime speciale di detenzione, diventano ora, di fatto, il più poderoso portavoce a reclamare all'ETA non solo la rinuncia definitiva alle armi e la scelta della via politica ma anche, finalmente, la necessità riconoscere, riconciliare e riparare tutte le vittime, di iniziare quindi a cicatrizzare le profonde ferite di questa società.

Si spera che anche il prossimo Governo, di qualsiasi segno esso sia, dimostri di avere sempre, come negli ultimi sette anni, non solo un “piano B” sulla questione basca e sull'ETA, ma anche la stessa, profonda capacità di interpretazione delle aspirazioni di una società che esige da tempo, a tutte le parti in causa, la riconciliazione in un pulito ambito democratico. Una soluzione che rispetti ogni vittima e che tuteli un'identità storica indiscutibile.

Per approfondimenti sull'argomento, leggi i commenti al post.

Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete

Voci dal cielo
Di Simone Rossi

Da sabato 10 settembre due immigrati in attesa di regolarizzazione sono sulla ciminiera della centrale termica che serve le case popolari di piazza Selinunte, nel quartiere San Siro a Milano. Oggetto della loro protesta il mancato ottenimento del permesso di soggiorno dopo la sanatoria del 2009 (legge 102/09). La sanatoria avrebbe dovuto permettere a decine di migliaia di lavoratori di emergere dal lavoro nero e dall'irregolarità, ma due anni di distanza molti di loro sono ancora in attesa del permesso di soggiorno. Lo stesso 10 settembre alcune organizzazioni di immigrati hanno organizzato un presidio presso la Prefettura di Milano per porre l'attenzione sul problema e chiedere una risoluzione.

Secondo la Confederazione Unitaria di Base, CUB, di Milano la sanatoria è stata nei fatti una truffa che ha spinto migliaia di immigrati irregolari a spendere soldi nella speranza di un permesso di soggiorno mai emesso, mentre ha ingrassato lo furono truffati lo Stato e gli intermediari tra contributi INPS e costi, gonfiati, per le pratiche di regolarizzazione. Dopo analoghe proteste da parte di immigrati esasperati a Brescia ed a Milano lo scorso anno, le prefetture, su pressione di alcune sigle sindacali e partiti, presero l'impegno a trovare una soluzione. Tuttavia nulla è cambiato da allora ed il silenzio è caduto sulla gestione scandalosa della sanatoria, ragion per cui la protesta è ripresa, con l'occupazione della torre.

La situazione di precarietà in cui questi lavoratori vivono rende loro difficile se non impossibile poter svolgere una vita normale, cercare un lavoro regolare e dignitoso. Nuovamente le istituzioni italiane mostrano di non aver alcun reale interesse verso la lotta al lavoro nero ed al contrasto dello sfruttamento di manodopera per lo più straniera. Evidentemente la sanatoria ha rappresentato più un momento per rimpolpare le casse pubbliche e per coltivare vecchie e nuove clientele sulle spalle dei lavoratori, anziché per sottrarre all'irregolarità manodopera altrimenti sfruttata e ricattabile.

Maggiori informazioni sulla protesta al sito:

http://immigratimilano.blogspot.com/2011/09/tutti-in-piazza-selinunte-zona-s-siro.html


Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete

Gli aggiornamenti delle rubriche di "Resistenza Internazionale"

The City of London
"Le ricette sbagliate di Scalfari"
Ieri su Repubblica, Scalfari ha illustrato i problemi dell'economia italiana, accusando il governo di incapacita', e su questo indubbiamente non gli si puo' dare torto. Ma le ricette che propone Scalfari sono miopi, acciecate dalla polemica politica e con una prospettiva storica sbagliata che non tiene conto dei problemi di struttura dell'economia italiana - e di quella occidentale - che hanno portato alla crisi stessa, ben al di la' delle colpe di Berlusconi...leggi tutto l'articolo

Serenissima
"Polvere"
Un documentario molto premiato che in pochi conoscono.
Una sentenza prevista per il mese prossimo, che senz'altro farà storia ma che non la chiuderà.

“Polvere” racconta il dramma dell'amianto a Casale Monferrato, una tragedia iniziata in quel dopoguerra che cercava il benessere... leggi tutto l'articolo

sabato 24 settembre 2011

Gli aggiornamenti delle rubriche di "Resistenza Internazionale"



Oggi, nella nostra rassegna stampa, una selezione speciale dedicata al riconoscimento dello Stato palestinese all'ONU.
Tutti gli articoli sono disponibili cliccando QUI.
Altre novità della rassegna stampa QUI.
Buona lettura.

La politica, l'economia ed il fallimento del mercato
Di Nicola Melloni

Da "Liberazione" del 23/09/2011

Passo dopo passo Italia ed Europa si stanno avvicinando sempre più pericolosamente all'orlo del precipizio. Negli ultimi giorni abbiamo avuto una nuova brusca accellerata, prima a livello di stati, con il downgrading del debito pubblico italiano e le interminabili ed inutili discussioni tra il governo greco ed il Fondo Monetario Internazionale sull'ennesimo pacchetto di salvataggio per Atene. Poi il panico si è propagato al settore privato: la settimana scorsa Moody's ha tagliato il rating di Credit Agricole e Societe Generale, due delle più grandi banche francesi. Ed ora Standard&Poor's ha abbassato il rating di ben sette banche italiane. Una situazione esplosiva, con la Siemens che ha ritirato 500 milioni di euro da una delle due banche francesi e li ha depositati presso la Banca Centrale Europea, dimostrando poca fiducia nella tenuta del sistema bancario privato. In un continuo e perverso rimpallarsi di responsabilità, il rischio continua a passare di mano tra settore pubblico e privato. Nel 2007 il fallimento del sistema finanziario globale è stato evitato dall'intervento statale, provocando però la crisi dei debiti sovrani iniziata l'anno scorso in Grecia ed Irlanda ed estesasi poi ad Italia e Spagna. Ora però il rischio sembra tornare verso le banche che hanno il portafoglio pieno di titoli pubblici, greci, spagnoli ed italiani che, in caso di default, si trasformerebbero in carta straccia. Non a caso la Germania sta già organizzando una ricapitilizzazione delle sue banche che rischiano di essere travolte da fallimenti a catena.
Esiste certamente un problema di fondamentali economici che stanno scatenando questa tempesta perfetta non solo sui mercati finanziari, ma sull'economia occidentale tutta. Il deficit di Atene è insostenibile e la dinamica del debito fuori controllo - la Grecia è già di fatto fallita anche se nessuno lo vuole ammettere. Il debito italiano è altrettanto insostenibile, soprattutto in presenza di crescita zero. Ed i bilanci di molte banche europee sono pericolosamente in rosso, anche se artifici contabili cercano di dimostrare il contrario. Questi problemi sono sotto gli occhi di tutti e devono essere risolti se vogliamo uscire dall'imbuto in cui ci siamo infilati.

La soluzione, però, può venire solo dalla politica, drammaticamente assente in tutta Europa, mentre in Italia al danno aggiungiamo la beffa con un governo clownesco, preoccupato solo dei mandati di arresto e della satiriasi di Berlusconi: uno scenario da basso impero, a metà tra Gli ultimi giorni di Pompei e Salò o le 120 giornate di Sodoma. Una situazione talmente tragica che addirittura Confindustria si è messa in netta opposizione al governo del capitale, un fatto inusitato. La pantomima berlusconiana ha ovviamente un riflesso sulla perdita di fiducia dell'Italia, come testimoniato dal rapporto di Standard&Poor's che, per giustificare il downgrading del nostro debito pubblico, ha parlato di un governo incapace di affrontare la crisi e di una maggioranza divisa e senza un serio programma economico.

Purtroppo però il problema non è solo Berlusconi. L'assurda finanziaria italiana, al netto del patetico balletto su cifre e provenienza di maggiori entrate e minori uscite, è costruita sulla stessa filosofia che si tenta in questi giorni di applicare alla Grecia e che si è, più in generale, adottata tanto in Europa quanto negli Stati Uniti negli ultimi anni. La priorità è rimettere in ordine i conti di breve periodo, a qualsiasi costo. La dipendenza dai mercati finanziari, in larga parte speculativi e dunque interessati solo al profitto immediato, ha trasformato la politica in contabilità ed i governi in consigli di amministrazione che non riescono ad avere nessuna visione complessa e di lungo periodo della società e dell'economia. Così il problema di governance delle aziende dirette da manager senza capacità industriali, alla Marchionne per intenderci, si sta trasferendo ai governi, con risultati drammatici. Quello che chiedono i mercati è il pareggio di bilancio oggi, che poi questo comporti il fallimento domani sembra importare poco.

L'adattarsi alle esigenze del mercato è il vizio originario del neo-liberismo che da trent'anni impone riforme lacrime e sangue che dovrebbero rilanciare la crescita, ma aumentano solo i profitti. Ora il Fondo Monetario Internazionale rispolvera addirittura la formula della shock therapy per la Grecia, come già l'utilizzò per la Russia post-Sovietica e per l'Europa orientale. Di fronte al fallimento del piano di salvataggio per Atene - con l'economia che crolla, le entrate che diminuiscono a causa della recessione ed i conti pubblici che peggiorano invece di migliorare - l'Imf, per bocca del suo inviato ad Atene Bob Traa, propone una soluzione innovativa: non più tagli diluiti nel tempo, meglio licenziare subito tutti i dipendenti pubblici in sovrannumero! Meglio uno shock violento e ridotto nel tempo che metta l'opposizione di fronte ad un fatto compiuto. Una follia: licenziare gli impiegati pubblici diminuirà sicuramente le spese dello stato, ma la recessione diventerà ancora più acuta, le entrate fiscali diminuiranno ulteriormente e lo stato si troverà, infine, con un deficit di bilancio ancora più in rosso. Quello che gli economisti del Fondo sperano è che il mercato, ritrovata la fiducia nella Grecia, faccia ripartire l'economia reale, ma non c'è nessuna base reale che sostenga questo ragionamento. Lo shock non funzionò in Russia vent'anni fa, i tagli alla spesa pubblica non stanno funzionando oggi in Grecia ed in Italia e nemmeno nel Regno Unito dove i licenziamenti in massa dei civil servants hanno affossato qualsiasi speranza di ripresa economica.

Gli economisti neo-liberali non sembrano avere nessun'altro riferimento culturale e capacità intellettuale a parte i loro modelli economici che vengono smentiti, giorno dopo giorno, dalla dura realtà dei fatti. In realtà non è nemmeno il loro compito proporre soluzioni di largo respiro, cosa che spetterebbe ai politici. Se solo ne avessimo.

Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete

venerdì 23 settembre 2011

Vámonos




Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete

Gli aggiornamenti delle rubriche di "Resistenza Internazionale"

The City of London:
"Troppo poco, troppo tardi"
E cosi' la UE ha deciso di aumentare i fondi nella disponibilita' dell'Efsf....
Sicuramente e' una decisione giusta, l'Efsf potra' comprare titoli del debito pubblico dei paesi in difficolta', contentendo lo spread e le tensione speculative sul mercato finanziario.
Al contempo, per l'ennesima volta, la BCE garantira' liquidita' agli istituti di credito in crisi...leggi tutto l'articolo

Serenissima:
"Questione d'autunno"
Finferlo o gallinaccio. Galletto o giallarello. Gialletto, garitola...leggi tutto l'articolo

Stampa:
Ustica, i giudici: “Fu un missile”. Giovanardi: “Sentenza da romanzo”
Le motivazioni della sentenza che ha riconosciuto il risarcimento alle famiglie delle vittime esclude l'ipotesi che Giovanardi ha sempre tentato di accreditare: quella di una bomba a bordo del Dc9 dell'Itavia. Per la prima volta i giudici parlano di una guerra nei cieli italianI...leggi tutto l'articolo

Pescara, organizza protesta su Fb Denunciato per manifestazione non autorizzata
reminder elettorale:
- rifondazione ha manifestato per bloccare il tour della padania
- ora un suo consigliere manifesta contro fede
Fatti, non parole.

Il consigliere regionale di Rifondazione Maurizio Acerbo aveva fondato il gruppo "Non vogliamo Fede" contro la presenza del giornalista nella giuria di Miss Gran Prix. In 200 si sono ritrovati in piazza, ieri la convocazione in questura...leggi tutto l'articolo

Etat palestinien : "la politique américaine reste un obstacle à une paix durable"
L'historien Rashid Khalidi, titulaire de la chaire Edward Said d'études arabes à l'université Columbia à New York, a été le conseiller de la délégation palestinienne à Madrid et Washington de 1991 à 1993. Il a enseigné à Chicago où il était un ami personnel de Barack Obama.

Votre réaction au discours du président Obama à l'ONU ?

Il a été déprimant d'entendre le président chanter les libertés nouvelles des peuples...leggi tutto l'articolo

giovedì 22 settembre 2011

Una terra con un popolo per un popolo senza Stato
la Palestina all'ONU, istruzioni per l'uso
Di Simone Giovetti

Il fatto
Il prossimo 23 settembre Mahmud Abbas, presidente dell'Olp e dell'Autorità Palestinese, chiederà al Consiglio di Sicurezza dell'ONU il riconoscimento della Palestina come Paese indipendente e come Stato membro, con pieni diritti e doveri. Si apre così, con un gesto politico forte, il vaso di Pandora degli equilibri geopolitici di tutto il Medio Oriente. Potrà quest’azione  contrastare la politica dello status quo che da sempre domina la Regione?

La richiesta di riconoscimento presso l'ONU e i suoi meccanismi
La decisione finale sull’ammissione della Palestina alle Nazioni Unite spetta al Consiglio di Sicurezza e dunque, visti i datati meccanismi che regolano il palazzo di vetro, il già annunciato veto che opporranno gli Stati Uniti sarà sufficiente ad impedire l'entrata della Palestina all’ONU. La forza effettiva di questo veto potrebbe però essere simbolicamente bilanciata da un eventuale voto favorevole della Russia e soprattutto della Francia. Un voto francese favorevole potrebbe avere ripercussioni di peso in Europa, sulla sua reticente posizione in merito alla questione; marcherebbe una rottura importante e rilancerebbe le speranze di una "politica europea nuova" in direzione del mondo arabo. Anche se l’ammissione all’ONU non fosse possibile, l’autorità palestinese potrebbe comunque ottenere il riconoscimento bilaterale (Stato a Stato) della Palestina, com è successo per il Kosovo o per Taiwan, riconosciute come Stati ma, per ragioni geopolitiche non come membri dell’ONU. Questo tipo di riconoscimento, molto più importante perché ridefinisce in modo radicale le relazioni diplomatiche tra due Paesi, fa parte di una seconda fase del progetto; un percorso già cominciato dall’Autorità Palestinese verso i singoli Stati della comunità internazionale, soprattutto quelli della vecchia Europa che restano paradossalmente tra i più reticenti insieme agli USA. Ovviamente il riconoscimento della Palestina come paese indipendente da parte dell’Assemblea Generale rafforzerebbe la traiettoria di tale processo.

Il voto in Assemblea Generale si limiterà quindi a riconoscere la Palestina come Stato Osservatore presso l'ONU e non come membro "a pieno titolo" di tale organismo sebbe questo atto non abbia n  il valore di un riconoscimento esplicito dello Stato palestinese ai fini della sua esistenza formale. 



Ci si potrebbe chiedere se la Palestina disponga o no dei requisiti necessari per essere uno Stato. La risposta non è semplice: da un lato l’Autorità Nazionale Palestinese ha potuto dimostrare la sua completa capacità di rendere operative le istituzioni di un futuro Stato (sicurezza interna, trasparenza delle finanze, viabilità economica…); dall'altro, l’occupazione d’Israele sta privando la Palestina di un controllo delle proprie frontiere, impedendo per esempio sia la libertà di circolazione di merci e persone all’interno dei territori palestinesi, sia la facoltà della Palestina di disporre di un esercito (entrambi requisiti che contribuiscono a determinare cosa sia uno Stato). Sulla base di tali considerazioni, il quid della questione è: se Israele si ritirasse sulle frontiere del ‘67 e lasciasse la Palestina libera di gestire il suo destino, questo Stato diventerebbe o meno pienamente sovrano? L'esempio del Kosovo dimostra che uno Stato può anche esistere ed essere riconosciuto senza che ciò rappresenti una prova reale della sua capacità di funzionare in modo autonomo; si tratta insomma di una questione puramente politica, di una scelta motivata da interessi.

L'ammissione tra i membri a pieno titolo dell'ONU dimostrerebbe sicuramente l'esistenza di uno Stato palestinese; anche il riconoscimento della Palestina da parte di quasi tutti i Paesi del mondo avrebbe lo stesso effetto, rendendo a quel punto vacuo, cioè privo di significato, di conseguenze effettive, il veto americano inteso ad impedire il riconoscimento di una realtà di fatto. Tale realtà di fatto corrisponde al diritto inalienabile del popolo palestinese ad autogestirsi sul territorio riconosciutogli dalla comunità internazionale, un diritto accettato dalla quasi totalità delle nazioni del mondo.

Il riconoscimento pubblico in Assemblea Generale è dunque importante per i palestinesi, perché a fronte di un voto di oltre i due terzi dei paesi del mondo, molti altri paesi che ancora dubitano sul da farsi, avranno un motivo in più o qualche problema politico in meno nel riconoscere la Palestina. Non per niente quasi tutti quelli che voteranno a favore hanno promesso che seguirà il riconoscimento. Il riconoscimento massiccio della Palestina all’Assemblea Generale potrebbe dunque incoraggiare altri Stati più reticenti.


La posizione della Palestina nel discorso del Presidente Abbas ed il futuro dell'Autorità Palestinese
In un discorso molto attento a riconoscere la legittimità d’Israele, in cui dichiara di non volere isolare Israele ma le sue politiche, il presidente Abbas e la Palestina provano ad uscire definitivamente dalla trappola, vecchia di 18 anni, che rappresentavano gli accordi di Oslo. Gli accordi di Oslo hanno permesso all’OLP e a all’Autorità Palestinese (AP) di rientrare dall’esilio di Tunisi e d’installarsi in Palestina ma non in uno Stato. L’AP è rientrata in patria con un’autonomia limitata su una piccolissima porzione di territorio. I territori palestinesi sono stati divisi in tre zone A, B,C. La zona A, che include le principali città dove risiede la maggior parte dei palestinesi, è passata sotto il controllo dell’AP, mentre le altre (zone B, e C), le più fertili e strategiche, sotto controllo totale d’Israele che col passare degli anni le ha progressivamente annesse o occupate. Nella zona B, la sicurezza militare è nelle mani d’Israele mentre l’autorità amministrativa spetta ai palestinesi; nella zona C vige il totale controllo d’Israele, che continua ad occuparla militarmente e con le proprie colonie. Con gli accordi di Oslo le responsabilità internazionali d’Israele come potenza occupante sono dunque state passate di fatto ai palestinesi mentre il controllo del Territorio è rimasto nelle mani di Israele a costi ridotti, perché condivisi con la communità internazionale che, per appoggiare il processo di pace si é assunta la responsabilità economica dei palestinesi. La Palestina è passata di fatto sotto la tutela economica della comunità cnternazionale (Europa e USA) mentre la prospettiva politica della costruzione di uno Stato è stata prorogata all'infinito.
Abbas invita oggi i palestinesi a non cedere alla tentazione della violenza ma rivendica tutta la portata del bagaglio politico dell'OLP: uno Stato palestinese senza limitazioni di sovranità, all'interno delle frontiere stabilite dall'armistizio del 1967, con Gerusalemme Est come capitale ed il diritto dei rifugiati a ritornare. I sondaggi indicano che sono tra il 60% e l'80% i palestinesi che appoggiano il tentativo di riconoscimento all'Onu.


Quali alternative o altre azioni potrebbero essere prese in caso di un rifiuto del Consiglio di sicurezza?
Da qualche tempo aleggia sulla Palestina un’ipotesi non del tutto avventata, nonostante rappresenti una scelta estrema: l'Autorità Palestinese potrebbe decidere di andare in esilio, abbandonando completamente i propri territori occupati alla  gestione di Israele. Di tale gestione, militare, politica ed economica, gli israeliani non potrebbero mantenere i costi ma vi sarebbero obbligati dal diritto internazionale. In qualità di potenza occupante, la giurisdizione umanitaria prevede per il governo di Israele diritti e doveri ben definiti, tra i quali il divieto di imporre punizioni collettive e di costruire insediamenti. Gli accordi di Oslo non hanno modificato la situazione, come ribadito il 7 ottobre 2000 dal Consiglio di Sicurezza, che ha definito Israele “potenza occupante tenuta ad attenersi scrupolosamente ai propri doveri e alle proprie responsabilità secondo la Quarta Convenzione di Ginevra”. Questa opzione potrebbe essere valida anche se lo Stato palestinese fosse riconosciuto dall'Onu ma sul terreno continuasse di fatto l’occupazione.


La situazione della Palestina occupata
Più di 500.000 coloni sparpagliati nella West Bank e a Gerusalemme est paralizzano di fatto ogni tentativo serio di arrivare ad un compromesso accettabile, un accordo di pace. Ma su questo punto il governo israeliano non sembra disposto ad alcun compromesso e l’occupazione non si ferma; anzi, non ha fatto che aumentare, dagli accordi di Oslo in poi.
Nel testo che Tony Blair, delegato del quartetto (Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Onu) ha fatto giungere ad Abbas nei giorni scorsi, nel tentativo di disinnescare la richiesta all'Onu e riaprire la via del negoziato, non si menziona la paralizzazione della costruzione di colonie israeliane nei territori occupati, che continua imperterrita. Non c'è il minimo accenno, nel testo, alle colonie; solo un vago riferimento a “cambiamenti demografici”. Obbligare Obama ad assumersi agli occhi del mondo la responsabilità delle conseguenze  del suo veto e, in sostanza, di una politica incoerente non solo verso la Palestina ma in tutto il Medio Oriente, sarebbe un grossissimo rischio per i palestinesi, destinati senz'altro a subire sia il taglio degli aiuti americani che una feroce rappresaglia israeliana.


Le posizioni del resto del mondo
Gli Stati Uniti eserciteranno il loro diritto di veto presso il Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Un portavoce del Dipartimento di Stato americano ha definito addirittura “controproducente” il gesto di Abbas. Una parte dell’Europa segue a ruota le posizioni americane. L'Unione Europea, preoccupata di non presentarsi divisa alla votazione dell'Assemblea Generale, chiede ad Abbas di accettare per il momento il non riconoscimento bilaterale delle relazioni diplomatiche e di impegnarsi a riprendere quanto prima i negoziati con Israele. Tra gli Stati più reticenti troviamo la Germania, l'Italia ed il Regno Unito, mentre la Spagna si è espressa pubblicamente a favore del riconoscimento dello Stato palestinese. La Francia potrebbe optare per un riconoscimento bilaterale, essendo impegnata da mesi in una campagna di pressione su Israele, anche in funzione del peso che l'elettorato arabo ha attualmente sul suo territorio e soprattuto della recente “campagna d’Africa “ francese in Libia.
Perchè Israele e gli Stati Uniti non vogliono il riconoscimento dello stato di Palestina, nonostante l'amministrazione USA abbia sempre detto di volere due stati e nonostante Israele abbia sempre detto di essere pronto a vivere in pace accanto a uno stato palestinese? Perché i paesi dell'UE, che a più riprese hanno accusato Israele di sabotare il processo di pace e hanno espresso condanne per le aggressioni al Libano e Gaza, dovrebbero accodarsi?
Perché, se si deve arrivare a "due stati per due popoli", il riconoscimento del secondo stato è  etichettato come un problema o addirittura una minaccia alla pace o alla sicurezza dell'area? Perché se lo stato palestinese è già previsto e accettato da Israele con gli accordi di Oslo e da molte risoluzioni dell'ONU, il suo riconoscimento è presentato come uno scandalo una minaccia? Perché Israele strilla all'attacco nei suoi confronti? Cosa teme Israele dal riconoscimento di uno stato palestinese? Perché l'esercizio di un diritto da parte dei palestinesi viene tradotto in un atto di guerra?
Il motivo si ritrova ad esempio nelle parole di Eviatar Manor, che, in un telegramma ad ambasciatori e rappresentanti israeliani, consiglia di:

"... avvertire gli interlocutori che dare ai palestinesi lo status di paese osservatore, permetterà loro anche di associarsi ad organizzazioni internazionali e firmare convenzioni internazionali, che potrebbero usare per censurare Israele in diversi consessi, come al Tribunale Penale Internazionale de L'AJA ( The Hague, Den Haag). Potrebbero anche usare il nuovo status per imporre misure di sovranità nella West Bank.

Non c'è un solo motivo per il quale i fautori della soluzione dei due stati possano vedere una minaccia nella proclamazione dello stato palestinese, almeno in teoria. Ce ne sono invece parecchi se il riconoscimento di uno stato palestinese determina (come determinerà) un drastico cambiamento dello scenario legale, che fino ad ora ha consentito nella sua (relativa) incertezza di proseguire con la colonizzazione della West Bank e di Gerusalemme Est e di avere mano libera nei confronti dei palestinesi, per lo più appellandosi ai sofismi e alla protezione americana per affossare il processo di pace e scatenare utili rappresaglie

L'isteria che scuote Israele non è quella di chi vede minacciata la propria esistenza, ma quella di chi vede messi a rischio una serie di privilegi sui quali si è fondata la sua politica negli ultimi anni. È la paura di finire sul banco degli imputati che impedisce ad Israele di unirsi agli altri paesi nel riconoscere esplicitamente la Palestina e votare per la sua ammissione all'ONU. La paura di chi trova limiti improvvisi alla propria onnipotenza nei confronti dei palestinesi e non sa bene cosa fare, perché non ha mai avuto un "piano B" e perché l'impunità di cui da anni gode, ha creato un'incredibile arroganza e la presunzione che tale situazione di privilegio fosse destinata a durare in eterno.

Con un riconoscimento dello Stato palestinese cadrebbero le premesse tecnico-legali del perpetuarsi dell'oppressione israeliana. La Palestina apparirebbe agli occhi del mondo con i diritti di uno Stato, una nazione riconosciuta nei confini del '67, quelli che in tutta evidenza i governi israeliani hanno rifiutato, dimostrando con i fatti di volere un'Israele più grande a spese dei palestinesi.

Ad Israele piace definirsi come l'unica democrazia del Medio Oriente. Ed è difficile credere che Netanyahu, che continua ad approvare la creazione di nuove colonie nei territori palestinesi occupati, possa seriamente riaprire la via dei negoziati e rinunciare all'appoggio dei propri elettori a favore di un dialogo inter pares con la Palestina. Mantenere una società militarista con la scusa di difendere la propria sicurezza da chi in realtà è stato soggiogato da tempo, obbliga ad applicare controlli sociali strettissimi, che riducono ai minimi termini i diritti individuali. E quindi ad Israele non resta che passare come sempre all'attacco e dichiarare che se l'ONU riconosce l'esistenza dello Stato palestinese gli accordi di Oslo, il processo di pace e la stessa Autorità Palestinese perderanno ogni valore. In forte conflitto diplomatico con la Turchia, l'Egitto e la Giordania e vittima del suo stesso affanno di sicurezza, Israele inizia a pagare i costi sociali della propria “teocrazia” militarizzata. Israele vuole essere uno stato democratico per tutti i suoi cittadini o uno stato solo per il popolo ebraico? L' attuale governo sembra avere le idee chiare in proposito, giacché il suo ministro degli esteri ha più volte annunciato il suo desiderio di espellere il milione di arabi israeliani cittadini d’Israele. E non sono un caso le tensioni sociali che stanno emergendo  con forza in uno Stato con un'economia in buona crescita ma  con un divario sempre più profondo tra ricchi e poveri, dove tutto è stato  privatizzato e per una grande maggioranza di  cittadini la sanità e l'educazione sono diventati beni di lusso. Se da domani Israele non avesse più nulla da temere da parte dei palestinesi e dal mondo arabo in generale, trasformare lo Stato isreaeliano, attrezzato per la guerra permamente, in un paese normale, significherebbe imponenti cambiamenti nell'economia e nell'assetto politico e sociale del Paese.


Le conclusioni
I tempi sono maturi per il riconoscimento ufficiale del diritto inalienabile di un popolo, quello di vivere nella propria terra e di organizzarsi in uno Stato. Frustrare questa legittima aspirazione equivarrebbe a dichiarare la vacuità di tutto il sistema su cui si basa il mondo occidentale, e del diritto internazionale in prima istanza.
La Palestina ha scelto la via del diritto e delle istituzioni internazionali per difendere le proprie prerogative e la propria esistenza, per attirare l'attenzione internazionale la sua agonia, il suo essere inerme e in balìa dell'occupante e dei suoi alleati. Non c'è niente di criticabile in questo, non c'è nessuna minaccia nell'affermare il proprio diritto ad essere riconosciuta come Stato e non c'è nessun motivo valido, che non sia l'interesse israeliano sopra ricordato, a sconsigliarlo.


Infine, un veto alla Palestina favorirà la prospettiva di pace con Israele e in Medio Oriente più del riconoscimento di uno Stato palestinese?
Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete

Restiamo umani?
la testimonianza di Silvia


Restiamo Umani - Stay Human

"Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere. Credo che apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, alla stessa famiglia, che è la famiglia umana".

"I do not believe in borders, in barriers, in flags. I think that we all belong, independently of latitude and longitude, to the same family, the human family".

Vittorio Arrigoni, Besana Brianza 4/2/1975 - Gaza Strip 14/4/2011
Atterro al famigerato aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv un pomeriggio di febbraio 2008. La responsabile della ONG con cui sto andando a fare uno stage mi ha istruito perfettamente su cosa devo dire al controllo passaporti. Innanzi tutto, non devo assolutamente dire che sto andando a fare del volontariato in Palestina. È per questo che mi ha preparato una lettera dove si dice che ho un incarico per studi di fattibilità per progetti di sviluppo nella West Bank. Agli israeliani non piace sentirsi dire che stai andando ad aiutare i palestinesi gratuitamente. Non devo poi neanche dire che sono diretta a Ramallah una volta uscita dall’aeroporto, ma che andrò a Gerusalemme dove vivrò e lavorerò. E soprattutto che non mi salti in mente di dire che le due cooperanti che lavorano là mi sono venute a prendere altrimenti anche loro rischiano un interrogatorio! Con me ho anche una lettera della delegazione della Commissione Europea nei Territori Palestinesi occupati che invita i controlli di sicurezza aeroportuali (leggi ventenni più o meno convinti di quello che stanno facendo nei tre anni del loro servizio militare) a facilitare il mio ingresso in Israele più una copia della registrazione ufficiale in Israele della ONG. Così equipaggiata non mi sembra proprio di essere atterrata sul suolo dell’unica democrazia in medio oriente. La stessa sensazione di disagio che provo da subito appena atterrata la proverò ogni volta che mi troverò in territorio israeliano durante i tre mesi della mia permanenza.

Nel tragitto dall’aeroporto a Ramallah passiamo attraverso i paesaggi occidentali di Israele per arrivare poi a quelli medio orientali della Palestina. Subito mi stupisco di come mi senta più a mio agio in una realtà (apparentemente) diversa da quella a cui sono sempre stata abituata. E subito realizzo anche che la Palestina è molto diversa da quello che mi immaginavo: non è un paese in via di sviluppo. Le settimane successive mi faranno poi capire che la cooperazione allo sviluppo in Palestina non ha senso. Questo è un territorio sotto occupazione e la soluzione dei suoi problemi, anche quelli a prima vista legati alle dinamiche del sottosviluppo come l’assenza di infrastrutture mediche, è solo ed esclusivamente politica. Non mancano le capacità tecniche ai medici e agli architetti palestinesi, molti dei quali hanno studiato in Italia e parlano italiano molto meglio di quanto parlino inglese; quello che manca loro sono le apparecchiature con cui lavorare perché Israele ne controlla e limita l’entrata che è possibile solo attraverso progetti di sviluppo internazionali.

Quella stessa sera andiamo al supermercato di Ramallah, vendono la pasta Barilla e il caffè Lavazza (come del resto in ogni piccolo alimentari in centro), non è decisamente un paese in via di sviluppo e io mi sento a casa (ma ancora di più mi sentirò a casa quando in un supermercato di Hebron troverò il Grana Padano e nella nuova zona commerciale di Ramallah che stanno finendo di costruire mi imbatterò nell’immancabile United Colors of Benetton).
Indubbiamente quella palestinese è una realtà diversa da quella occidentale entro cui ho vissuto tutta la mia vita fino a questo momento, ma qui sento una familiarità che nelle strade della moderna Tel Aviv non riesco a sentire. C’è qualcosa di surreale in quelle strade. Pezzi di occidente incollati in medio oriente. Bocche che parlano lingue occidentali, francese, inglese americano con la perfezione del madrelingua. Sono Ebrei che hanno fatto l’Alyia, che è la pratica di immigrare nello stato d’Israele e prenderne la nazionalità. La perfezione con cui parlano la loro lingua madre rivela la loro estraneità a questa terra. Pezzi di occidente incollati in medio oriente. Israeliani nati a New York da genitori a loro volta nati a New York che non hanno un solo singolo parente sul territorio israeliano. E allora tutte le volte che mi trovo in Israele e sono circondata da occidentali che fanno le cose che facciamo noi occidentali, come bere vino e andare in discoteca, mi sento come se fossi su Marte e anni luce lontana da casa.

Poi per fortuna ritorno tra le case bianche fatte a scatola di Ramallah, tutte con le parabole sui tetti per prendere tutti i canali televisivi possibili e immaginabili, un modo per ingannare l’occupazione. Le case bianche e la polvere delle strade di Palestina. Quando gli amici dall’Europa mi contattano su skype o su Facebook e mi chiedono come sia la Palestina, rispondo sempre “ondulata, polverosa e profumata”. E sarà questo che mi porterò a casa al mio rientro in Italia, insieme alle immagini dei checkpoint e dei palestinesi costretti a scendere dall’autobus per attraversare a piedi i controlli mentre io, internazionale, posso rimanere seduta. Insieme ai racconti dell’assedio del
2002 e alle immagini delle scuole di Yatta, nel distretto di Hebron, che non hanno computer e il cui laboratorio di scienze sta dentro ad un piccolo armadio, insieme a questi racconti e immagini mi porterò a casa l’odore dello zaatar e scarpe impolverate (che mia madre poi mi costringerà a buttare via perché, dirà lei, impresentabili). E ancora, insieme alle fotografie scattate nella città vecchia di Hebron dove una manciata di coloni israeliani getta pietre e immondizia varia sui commercianti palestinesi costringendoli a chiudere le proprie attività, insieme a queste fotografie e all’incontro con un colono di non più di dieci anni che, indicandomi un cimitero, mi dice che là ci sono gli arabi buoni, insieme a questo mi porterò a casa la sensazione di pace che l’ondulato paesaggio palestinese sa regalare. Insieme alle fotografie dei bambini del campo profughi Al Amari alle porte di Ramallah che dormono in salotto perché le camere da letto sono per i fratelli maggiori e le loro mogli e figli, mi porterò a casa l’odore del tè alla salvia che le loro mamme mi offrono quando vado a far loro visita per aggiornare le schede dei bambini e mandarle poi ai donatori in Italia.


Mi porterò a casa l’immagine di un popolo che ha imparato a condurre una vita normale anche se deve passare attraverso un checkpoint per andare a pregare in moschea. Mi porterò a casa un misto di odori che diverranno per me il “profumo della Palestina” anche se so che è il profumo di tutto il medio oriente, ma che per me sarà sempre il “profumo della Palestina” e che oggi, di tanto in tanto, vado a respirare al supermercato mediorientale di Edgware Road in centro a Londra. E soprattutto mi porterò a casa due convinzioni nuove, la prima che è facile fare i pacifisti stando in Europa e che la vera impresa è, invece, tornare da quella terra e continuare a credere nella non violenza, la seconda che la parola equidistanza non ha nessun valore, nessun diritto di esistere nella “questione” israelo-palestinese.

Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete

Gli aggiornamenti delle rubriche di "Resistenza Internazionale"

The City Of London:
"Shock therapy...again?"
Dunque..... shock therapy, all over again.
Bob Traa (IMF):
"If you can do it (staff cuts) up front, you get over it much more quickly. Whether society can support that is a different issue. Our experience is that...leggi tutto l'articolo

Serenissima:
Oggi a cura di Carla Gagliardini, "Urbino":

Mamma mia che freddo inizia a fare in quest’isola bagnata dal mare del nord e
dall’oceano atlantico. Che voglia di tuffarmi per una settimana nel caldo, che una volta
giudicavo insopportabile, del Bel Paese...leggi tutto l'articolo

mercoledì 21 settembre 2011

Gli aggiornamenti delle rubriche di "Resistenza Internazionale"

The City of London:
"Chicken game":
La situazione, drammatica, in Grecia, si riassume benissimo con il cosiddetto chicken game...leggi tutto l'articolo

Stampa
"Il peggio può arrivare":
«L'economia mondiale sta diventando sempre più ingiusta e insostenibile: uccide più delle bombe». «Quest'ingiustizia affonda le radici in un neoliberismo che non sa rispondere ai veri bisogni delle persone» e cresce in un'economia che privilegia «le rendite finanziarie e i guadagni speculativi anziché la produzione, la crescita quantitativa anzichè la qualità, lo sfruttamento della natura e dell'ambiente anziché la loro protezione », e in Italia ? ...Leggi tutto l'articolo

"Progressives Vow to Challenge Obama in Democratic Primaries":
Finalmente la sinistra americana si sveglia e cerca di andare oltre obama. Gia' sicura la reazione: come nel 2001, il Nader di turno fara' vincere il Bush di turno. Ma e' davvero cosi'? Bisogna tenersi Obama con tutta la sua incapacita' e tutti i suoi disastri? Bisogna sempre votare per il meno peggio o provare finalmente a dare una risposta ai veri problemi che affliggono gli USA e tutto il mondo occidentale?...leggi tutto l'articolo

martedì 20 settembre 2011

Gli aggiornamenti delle rubriche di "Resistenza Internazionale"

The City of London:
S&P'ha ragione
D'altronde, si tratta di economia elementare. Il problema del debito non e' il debito in assoluto ma il suo peso relativo rispetto al PIL. Il dato che ci interessa, dunque e' il rapporto Debito/PIL. Ora e' ovvio che la manovra del governo taglia il deficit e dunque riduce, parzialmente la componente debito - non ci saranno nuove spese superiori alle nuove entrate. Questo...leggi tutto l'articolo

Serenissima:
Incontinenti
Il luogo in cui fu ucciso Peppino Impastato è diventato una discarica.
Ci dovrebbe sorprendere? No, se...leggi tutto l'articolo



lunedì 19 settembre 2011

Gli indignados occupano la Borsa di Madrid
(ma non troppo)
Di Monica Bedana


Il 15-M si è simbolicamente unito a Occupy Wall Street con un metaforico abbraccio stritolante alla Borsa di Madrid. Ci ha pensato il solito, esagerato spiegamento di forze di polizia ad avvertire che era il caso di contenere l'affetto e di non avvicinarsi troppo alla casa dell'Ibex35, ragion per cui i circa 200 indignados hanno organizzato il loro meeting in un parco lí vicino. 

Un programma intenso per un caldo sabato di settembre, sabato 17, in cui cattedratici, professori ed esperti di economia hanno spiegato alla gente, a piedi nudi nel parco, la differenza tra economia reale ed economia speculativa, il ruolo degli oligopoli nella crisi, la mancanza di crescita dell'economia ed i problemi derivanti dalla crisi energetica. E chi non c'era, ha potuto seguire il dibattito in diretta su internet .

Le posizioni degli indignados sulla crisi globale, semplici ed espresse in modo efficace fin dalle prime proteste di primavera alla Puerta del Sol, in questa occasione sono state fermamente ribadite: che c'è necessità impellente di una banca etica, che si muova non in base al rendimento immediato del denaro, bensí per il suo rendimento sociale. E che la banca di cui stiamo tutti pagando il debito dovrebbe sedersi sul banco degli imputati; e che nessuno ricorda di aver votato, alle ultime elezioni, quei banchieri che ora decidono per i cittadini al posto della democrazia.

Il 15-M non ha intenzione di accamparsi presso la Borsa di Madrid, come ha annunciato di voler fare Occupy Wall Street per i prossimi due mesi. Dal cartello degli indignati americani spuntano orecchie da somaro, segno evidente che l'oligopolio economico mondiale è stato catalogato a priori come impreparato. Gli spagnoli invece hanno già proclamato da tempo che  el FMI nos jode a tod@s, no solo a las camareras*.

(*uno dei motti più geniali dei cartelli della Puerta del Sol di maggio, il FMI ci fotte tutti, non solo le cameriere ).


Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete

domenica 18 settembre 2011

Mari e monti

Un contributo di Carla Gagliardini:

In una recente puntata di "In Onda" su La7 Don Gallo racconta di aver incontrato un ragazzo in Via del Campo (quanto ci manchi De Andre'!) il quale gli dice:
"Don Gallo io ho una definizione per l'Italia. L'Italia e' un bel paese bagnato da tre mari e prosciugato da TREMONTI".

Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete

venerdì 16 settembre 2011

Domenico Gallo:
In principio era l'attacco alla giustizia

Il link all'articolo, segnalatoci da Carla e tratto dal sito www.giuristi democratici.it è disponibile cliccando QUI

Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete

"Io, sindacalista Cgil espulso per aver contestato Giro di Padania"



"Deve fare riflettere l'espulsione decisa dal sindacato nonostante ci siano video che dimostrano come siano andati realmente i fatti". Non ho rimorsi e non ho colpe. Ecco l'accorata lettera di Mauro Caffo

di MAURO CAFFO
"Sono il funzionario CGIL coinvolto nei tafferugli dello scorso 08 settembre a Salsomaggiore. La mia vicenda, balzata agli onori della cronaca nazionale come un qualcosa di fuori dal comune, e che ha lasciato tutti basiti, ha creato un terremoto mediatico durato poche ore. Come è noto la vicenda in sè per sé quasi banale, è stata riportata su quasi tutti i quotidiani nazionali. Perché? La risposta è semplice e scontata: Un funzionario della CGIL non può permettersi di esporsi in questo modo, ne va l'immagine dell'organizzazione. Fortunatamente la dinamica dei fatti accaduti quel pomeriggio, è molto chiara, anche grazie alle registrazioni video, facilmente reperibili anche su internet. Quel giorno insieme ad altri compagni ci siamo ritrovati per attuare un'azione pacifica di dissenso nei confronti di una manifestazione che aveva ben poco di sportivo e molto di mera propaganda politica, a tal proposito ci tengo a specificare che i partecipanti alla competizione sono vittime come tutti, ma anche complici, in quanto avevano comunque la possibilità di rifiutarsi di partecipare.  La protesta si stava risolvendo come nel più classico dei modi, come spesso avviene nelle manifestazioni non violente, quando un gruppo di persone non identificate, ha preso parte allo sgombro del presidio, e con insulti e violenza fisica, ha cominciato a creare disordine e tensione, sotto lo sguardo compiacente delle forze dell'ordine presenti, e reputate a mantenere l'ordine pubblico.

Tutto ciò è durato pochi, ma molto concitati attimi, sinché mi sono sentito strattonare e sono caduto a terra, con un uomo dell'arma. Immediatamente dopo, senza nemmeno avere il tempo di realizzare ciò che era accaduto, mi sono ritrovato afferrato da due uomini in borghese che, senza essersi identificati, pretendevano di portarmi via. Vengo strattonato e trattato come un pericoloso criminale, tutto ciò sotto l'occhio vigile delle telecamere e dei fotografi, con le conseguenze mediatiche e "politiche" a tutti note con grave compromissione della mia immagine, sia pubblica che privata. Ci tengo a specificare che attualmente a mio carico non esite alcuna imputazione, attendo a riguardo l'esito degli eventi, ed eventuali notifiche da parte degli organi preposti.

Quello che credo sia importante sottolineare in questa mia vicenda, e che spero faccia riflettere, è il comportamento adottato da parte della CGIL nei miei confronti. Come è noto, è stato immediatamente emanato un comunicato stampa in cui il sindacato si diceva completamente estraneo alla vicenda accaduta, tutto ciò senza nemmeno avermi dato la possibilità di chiarire l'accaduto, confrontandomi con i compagni per fornire la mia versione dei fatti. Non ho alcun rimorso rispetto a quanto accaduto, in quanto penso sia palese che io non abbia colpe, ma come esponente di un sindacato, in special modo della CGIL la cui storia è di lotta attiva, per la difesa dei diritti dei lavoratori e come militante del Partito Comunista dei Lavoratori è per me un dovere nei confronti di chi, prima di me non ha esitato ad esporsi, a lottare anche a rischio di perdere la libertà e di trovarsi isolato, intraprendere azioni che siano di rottura con il servilismo di chi invece di difendere i nostri diritti è schiavo e servo della classe dirigente ed economica di questo nostro povero e martoriato Paese.

La mancanza di democrazia all'interno della CGIL è ormai evidente, la sudditanza di questo sindacato nei confronti delle scellerate azioni antisindacali di questo governo, (non ultimi gli articoli contro il diritto del lavoro inseriti nella manovra economica appena varata) anch'esso ha contribuito a darmi la forza e il coraggio di intraprendere la mia azione. Si tenta in tutti i modi di mettere a tacere la voce del dissenso, di far finta che non esista, quando al contrario è sempre più forte e chiede una spaccatura nell'attuale sistema, e proprio ciò che è accaduto lo scorso 8 settembre a Salsomaggiore in occasione dell'iniziativa di propaganda, attuata dalla Lega Nord col "giro di padania" ha fornito l'occasione di portare alla luce un conflitto sociale, economico e politico che ormai da tempo cova all'interno della nostra società.
Manifestazioni sportive organizzate con l'unico scopo di distogliere l'attenzione dalle condizioni socioeconomiche del nostro paese, per cercare di rilanciare l'immagine di un partito che negli ultimi 15 anni ha contribuito ad impoverire il popolo italiano, sostenendo il governo Berlusconi, lanciando da sempre proclami razzisti e di divisione sociale, mi hanno dato l'occasione per far venire alla luce la voce di chi, ha ancora il coraggio di dire NO!!!!"

*ex sindacalista Cgil

LA REPLICA DEL SINDACATO - La Cgil di Parma risponde a Mauro Caffo: "A proposito di quanto successo a seguito dei fatti occorsi in occasione del Giro della Padania a Salsomaggiore lo scorso 8 settembre, Cgil e FP Cgil di Parma ritengono necessario rimarcare la propria presa di distanza dalle modalità della protesta, che ha visto coinvolto inopportunamente un funzionario della categoria del pubblico impiego. Mauro Caffo, lavoratore di una cooperativa sociale in distacco temporaneo alla FP Cgil provinciale, in prova dal 1° luglio al 31 dicembre 2011, non è stato licenziato, contrariamente a quanto lui stesso afferma. Egli conserva infatti (art. 31 �" L.300/70) il proprio posto di lavoro presso lazienda di provenienza, ma la categoria, daccordo con la Cgil, ha ritenuto necessario revocare il distacco sindacale valutando il suo comportamento non coerente alle regole e ai valori definiti dallo Statuto dellorganizzazione e quindi sono venuti meno i presupposti che avevano motivato il distacco. La decisione di revoca del distacco è avvenuta il 12 settembre dopo aver ascoltato più volte il lavoratore. Un sindacato responsabile come la Cgil con tutte le sue categorie, attua forme di protesta anche dure, come occupazioni di aziende o blocchi stradali, qualora ritenga messi in discussione posti di lavoro, occupazione o diritti, ma sempre nel rispetto delle leggi. Chi, stando dentro la Cgil, decide di non rispettare questi orientamenti, non può che assumersene la responsabilità e accettarne le conseguenze. Questo non vuol dire mancanza di democrazia, ma esattamente il contrario. Sono le grandi battaglie a fianco dei lavoratori, compreso lultimo sciopero del 6 settembre che attestano quanto tutta la Cgil sia un sindacato libero e democratico senza alcuna sudditanza ne nei confronti di poteri forti ne dei partiti".





 da Repubblica del 15 settembre.










Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete

giovedì 15 settembre 2011

Proviamoci sul serio. Con la Patrimoniale.
Di Nicola Melloni
da "Liberazione" del 14/09/2011

Ci risiamo. Di nuovo la Grecia, di nuovo l'Italia. L'Europa, ormai agonizzante, ripropone ogni mese gli stessi problemi che solo qualche giorno addietro aveva solennemente promesso di aver risolto. Ma come? Con i tagli selvaggi che si erano imposti ad Atene non si era rassicurato che la crisi greca fosse stata definitivamente sconfitta? L'intervento del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria avrebbe dovuto mettere un freno all'allargamento dello spread sui titoli di Atene e l'allungamento temporale dei prestiti doveva risolvere i problemi più urgenti di liquidità. Ed invece nuovamente si parla di bancarotta di Atene. In Italia la situazione è ancora più grottesca. L'Europa approva la manovra di Berlusconi, poi, ancora prima che diventi legge, mette le mani avanti: state pronti ad altri interventi se il gettito fosse insufficiente. Ma che gente è questa qui che pretende di governarci? Non c'è un briciolo di piano strutturale, si continua con balletti di cifre ed interventi, si mette una pezza su ogni buco che si crea senza rendersi conto che ormai il tessuto originario ha ceduto e ogni nuovo intervento crea le condizioni per un nuovo e più largo buco.
La nuova pezza del governo italiano è l'ingresso della Cina sul mercato dei titoli di stato, con Pechino che potrebbe fare quello che sarebbe normale facessero la Bce o il Fesf, cioè acquistare Bot e Btp per abbassare il prezzo ed il rendimento richiesto dagli investitori. Rimane da chiedersi perché dovrebbe essere la Cina a salvare l'Europa mentre le istituzioni comunitarie abbandonano i paesi più in difficoltà. Anche in caso di successo - con che prezzo per la nostra sovranità lo potremo sapere solo dopo - questa soluzione sarebbe solo temporanea. L'altro pilastro della strategia governativa, nonostante si fosse promesso il contrario, è ora l'attacco alle pensioni. Non solo è iniquo, ingiusto ed inaccettabile far pagare le magagne di politiche economiche sbagliate ai più deboli e ai più poveri, ma anche i vantaggi economici dell'operazione-quota 100 sono risibili di fronte ai problemi che ci troviamo ad affrontare, che son di ben altra portata. Ma le questioni di fondo continuano a non essere toccate.
Ovunque si parla di rilanciare la crescita, ma di misure economiche in tal senso non vi è traccia. Eppure a Bruxelles ci dicono che va bene così, mostrando il vero volto, feroce e ignorante, della nomenklatura europea. Ad Atene come a Roma si pretende una immediata messa in sicurezza dei conti senza nessuna valutazione di sostenibilità dell'impianto economico. Sempre e comunque la stessa logica: rassicuriamo i mercati, il resto verrà da sé. Infatti. Il resto sta venendo, ma non è quello che si auguravano dalle parti dell'Unione e della Banca Europea. Lo abbiamo detto e lo continuiamo a ripetere, rimettere a posto i conti senza una strategia più ampia di rilancio dell'economia è solo un futile (e criminale) esercizio di dilazione. Non solo: c'è modo e modo di risanare i conti. Lo si può fare in maniera recessiva - colpendo lavoratori e consumatori, come intende fare Berlusconi - con l'ovvia appendice di successive manovre per rimettere mano ai conti scassinati dalla recessione. O si può intervenire in maniera virtuosa, con la patrimoniale, colpendo i redditi più alti e quindi con una propensione marginale al consumo assai più bassa. Quello che serve, dunque, è una patrimoniale seria, sul modello di quella proposta da Modiano, che, rastrellando fino a 200 miliardi di euro, contribuirebbe in maniera decisiva a ridurre il debito, riconquistare la fiducia dei mercati e, di conseguenza, abbassare in maniera consistente lo spread con i titoli tedeschi. A regime si libererebbero 9 miliardi di euro annui, tre volte il contributo che si spera di ottenere da una contro-riforma pensionistica, denaro utile per rilanciare l'occupazione e il salario (e dunque consumi, crescita ed investimenti) con interventi, ad esempio, sul cuneo fiscale.
Purtroppo una proposta di così tanto buon senso come la patrimoniale viene sostanzialmente ignorata dall'establishment politico di destra e di sinistra e solo Rifondazione Comunista la sostiene con forza. Quest'isolamento non deve però scoraggiarci. La politica, lo sappiamo, non la si fa solo nelle stanze dei partiti, la si fa anche nelle piazze. Una politica onesta e giusta che torni a parlare ai lavoratori perché solo rilanciando (e non penalizzando!) il lavoro potrà arrivare la salvezza della nostra economia.

Il link all'articolo originale è disponibile cliccando QUI



Se ti è piaciuto questo post, clicca sul simbolo della moschina che trovi qui sotto per farlo conoscere alla rete grazie al portale Tze-tze, notizie dalla rete

Rassegna stampa:
La Palestina sfida l'ONU sullo stato promesso
Da "Repubblica" del 15/09/2011

ll 20 settembre Abu Mazen dovrebbe chiedere al Palazzo di Vetro il riconoscimento dello Stato. Scontato il sì dell'Assemblea. Una svolta carica di incognite per il Medio Oriente, che Israele e gli Usa stanno tentando disperatamente di bloccare. Creare un comune denominatore di interessi in un popolo frantumato resta un problema. Il voto però susciterebbe di certo emozioni e rianimerebbe progetti e ideali

di BERNARDO VALLI
Il simbolo della campagna per il riconoscimento all'Onu dello Stato di Palestina
Tra cinque giorni, il 20 settembre, sarà presentata alle Nazioni Unite la candidatura della Palestina come Stato indipendente. L'incertezza sussiste, poiché in queste ore sono in corso frenetiche azioni diplomatiche. C'è chi tenta di impedire (o edulcorare) l'iniziativa; e chi al contrario vuole solennizzarla, darle un carattere storico.

Dopo un periodo di stagnazione e di frustrazione, la questione israelo-palestinese sta per diventare di nuovo dinamica (e incandescente). A 64 anni dalla nascita dello Stato ebraico, il promesso, rifiutato, rivendicato, demonizzato, auspicato Stato palestinese da affiancargli è alla vigilia di un riconoscimento formale da parte della stragrande maggioranza della società internazionale espressa nell'Assemblea generale dell'Onu. Benché questo non significhi che lo Stato ripudiato o invocato stia diventando miracolosamente una realtà, la consacrazione formale segna una svolta non solo in Medio Oriente.

Ron Prozor, rispettato ed esperto ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite, ha comunicato di recente una notizia sgradevole alla coalizione (di centro e di estrema destra) formata da Netanyahu, da Lieberman e da Barak, rispettivamente primo ministro, ministro degli Esteri e della Difesa, al governo a Tel Aviv. Con un telegramma segreto, rivelato dal quotidiano Haaretz, il diplomatico ha fatto sapere che Israele non aveva alcuna possibilità di impedire il riconoscimento dello Stato palestinese. Dopo sessanta e più incontri con i suoi colleghi del Palazzo di Vetro, Prozor ha concluso di poter contare unicamente sull'astensione di alcuni paesi (sui 193 rappresentati) o sull'assenza di altri. Soltanto una manciata di Stati voteranno contro la candidatura palestinese. Nell'Unione europea, secondo Prozor, gli unici sicuri sarebbero la Germania, l'Italia, i Paesi Bassi e la Repubblica ceca. La promozione a Stato della Palestina infliggerà una profonda ferita al governo di Israele.

Per il presidente degli Stati Uniti l'appuntamento del 20 settembre nel Palazzo di vetro di New York è un dilemma diplomatico lacerante. Opporsi a un gesto di autoderminazione dei palestinesi, dopo avere appoggiato apertamente i popoli arabi (in Tunisia, in Egitto e in Libia) a liberarsi dei loro raìs, non appare molto coerente. Ma Barack Obama deve fare i conti con i vecchi legami dell'America con Israele, con l'opposizione al Congresso che minaccia di tagliare gli aiuti ai palestinesi, e anche con la convinzione che la via migliore per arrivare a uno Stato palestinese sia quella dei negoziati. In verità da tempo interrotti per il rifiuto israeliano di congelare gli insediamenti di coloni in Cisgiordania, per la questione di Gerusalemme Est e per il rifiuto palestinese di riconoscere il carattere "ebraico" dello Stato di Israele (che finirebbe con l'escludere i cittadini musulmani di Israele).

Accusato di non essersi impegnato in tempo per disinnescare l'appuntamento del 20 settembre, Obama ha spedito d'urgenza i suoi inviati in tutte le direzioni: a Ramallah da Mahmud Abbas (detto Abu Mazen), a Gerusalemme da Benjamin Netanyahu, e in tante capitali mediorientali. L'opposizione americana al riconoscimento di uno Stato palestinese, o in tutti i casi i tentativi di limitarne la portata, rischiano di riaccendere l'antiamericanismo, finora del tutto assente dalle piazze tunisine, egiziane e libiche della "primavera araba".

Non sarà agevole convincere Mahmud Abbas, presidente dell'Autorità Palestinese, a non presentare la candidatura, o ad alleggerirla al punto da limitarne il significato. Tuttavia la minaccia del Congresso americano di sospendere gli aiuti non può lasciarlo indifferente. La Cisgiordania vive un boom economico senza precedenti nei quarantaquattro anni di occupazione israeliana e le sovvenzioni provenienti dagli Stati Uniti vi hanno contribuito. Ma è difficile che Abbas possa rimangiarsi quel che i leader mediorientali hanno ormai acquisito come una parola d'ordine. Nabil el-Araby, segretario della Lega araba, sottolinea in queste ore l'ovvietà dell'iniziativa all'Assemblea generale dell'Onu; e Recep Tayyip Erdogan, il primo ministro turco, l'ex alleato in aperta polemica con Israele, insiste dicendo che il riconoscimento dello Stato palestinese "non è una scelta ma un obbligo".

Il voto dell'Assemblea generale darebbe alla Palestina lo status di osservatore permanente delle Nazioni Unite, come "Stato non membro". La stessa situazione del Vaticano. O per lunghi anni della Svizzera. Adesso la Palestina è una semplice "entità". Per diventare il 194esimo membro a pieno titolo dell'Onu essa avrebbe bisogno del voto del Consiglio di Sicurezza. Ma là l'aspetta il veto degli Stati Uniti. Ed è assai probabile che dopo il riconoscimento formale dell'Assemblea non si vada oltre. Anche se il presidente Abbas sostiene, con una calma non più tanto remissiva, che i palestinesi ricorreranno fino al Consiglio di Sicurezza per ottenere la piena appartenenza alle Nazioni Unite.

I vantaggi acquisiti dello Stato palestinese sarebbero comunque consistenti dopo il voto dell'Assemblea. Esso avrebbe ad esempio accesso alla Corte internazionale di Giustizia dell'Aja e a quella penale internazionale, con la facoltà di denunciare Israele per le sue eventuali azioni come forza di occupazione. E potrebbe usufruire delle istituzioni finanziarie, economiche e commerciali. Potrebbe soprattutto esigere di trattare alla pari con lo Stato di Israele, non più nel quadro del Quartetto (Usa, Russia, Europa, Onu), ma in quello dell'Onu e sulla base delle risoluzioni. Sempre ammesso che Israele accetti le regole imposte dal nuovo status della Palestina. Già traumatizzata dai cambiamenti provocati dalla "primavera araba" in Egitto, e dall'accresciuta ostilità della Turchia, non più alleata, la società israeliana risentirà ancor più l'isolamento, dopo il probabile voto all'Assemblea generale che gli Stati Uniti cercano in queste ore di scongiurare. La rinuncia alla candidatura, imposta o ottenuta dagli Stati Uniti, provocherebbe in tutti i modi reazioni in molte capitali del Medio Oriente. Lo stesso riconoscimento incompleto o puramente formale dell'Assemblea generale potrebbe non bastare alle piazze arabe, le quali potrebbero esigere il voto decisivo del Consiglio di Sicurezza.

Le forze centrifughe e la storia hanno frantumato negli anni la Palestina in cinque zone o entità. La prima dell'elenco può essere Gaza, abitata da un milione di uomini e donne che vivono come in un limbo rispetto al resto dei palestinesi. Un limbo non facile, sotto l'autorità intollerante di Hamas, e in una società più islamista, più tradizionalista ed esclusa dal crescente benessere di cui gode la Cisgordania. Isolata, Gaza è rivolta all'Egitto. Seconda zona o entità la West Bank, la Cisgiordania. Là vivono due milioni e seicentomila palestinesi, governati dall'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), oggetto di indulgenza da parte di Israele, i cui soldati occupano una larga porzione del territorio. Una certa sicurezza e un evidente progresso economico hanno creato una stabilità che ha favorito uno status quo, da non pochi osservatori definito prerivoluzionario. Pur godendo di una situazione favorevole rispetto a quella dei connazionali di Gaza, i palestinesi della West Bank non si sentono garantiti da uno stato di diritto. Restano cittadini sotto un'occupazione straniera e non nutrono grande fiducia nei loro corrotti amministratori dell'Olp.
La terza entità palestinese vive a Gerusalemme Est e conta trecentomila uomini e donne. Circa il 38 per cento della popolazione. Gli abitanti non sono cittadini israeliani, ma residenti permanenti costretti a temere notte e giorno la perdita del diritto di residenza. Le barriere imposte nella vita quotidiana aumentano il senso di precarietà. Essi pagano le tasse allo Stato israeliano e usufruiscono, in tono minore, dei diritti all'assistenza sanitaria e alla scuola. In questo sono favoriti rispetto ai palestinesi della West Bank. La quarta entità è la più numerosa. Conta cinque milioni di uomini e donne registrati come profughi. Vivono in cinquantotto campi, diventati grossi borghi, in Giordania, in Siria, in Libano, nella West Bank e a Gaza. Sognano il ritorno in una patria che non c'è più o che è stata dimezzata. Il riconoscimento formale dello Stato palestinese riaccenderà molte speranze.

La quinta e ultima entità palestinese conta un milione e trecentomila persone, con la nazionalità israeliana. Come creare un comun denominatore di interessi e di aspirazioni in un popolo frantumato e represso resta un problema. Ma certo la nascita di uno Stato formalmente riconosciuto susciterà emozioni e rianimerà progetti e ideali.

Il link all'articolo originale è disponibile cliccando QUI

Rassegna stampa
Chrysler, niente accordo sul contratto, Marchionne attacca il sindacato
Da "Repubblica" del 15/09/2011

DETROIT - Il sindacato Uaw, che rappresenta i lavoratori Usa del settore auto, ha prorogato la durata dei suoi contratti con la General Motors e la Chrysler - che riguardano circa 71mila lavoratori statunitensi - dopo che non era stato raggiunto un accordo entro la scadenza della mezzanotte di New York.

In una dura lettera inviata al presidente della Uaw, Bob King, l'amministratore delegato della Chrysler, Sergio Marchionne - riporta il New York Times - ha stigmatizzato il fatto che il sindacalista abbia passato la giornata in trattative con la Gm piuttosto che con la Chrysler dopo che lo stesso top manager italo-canadese era appositamente tornato negli Usa 1 interrompendo l'impegno "istituzionale" al Salone dell'auto di Francoforte. L'accusa al leader dell'Uaw è di non aver mantenuto gli impegni e di non tenere nella giusta considerazione i 26mila dipendenti della Chrysler.

"Sono giunto tardi la scorsa notte da Francoforte - si legge nella lettera pubblicata dal New York Times - per essere qui oggi e perfezionare il dialogo che era stato intrapreso dalle nostre squadre, ma ciò richiedeva la sua presenza e la mia per concludere. Sfortunatamente - scrive Marchionne a King - lei non poteva essere qui, mi dicono, per impegni concorrenti". Marchionne considera un fallimento il non essere riusciti a chiudere il contratto entro la scadenza e si dice disposto a prorogare di una settimana il contratto esistente, per appianare tutte le divergenze, a cominciare da quelle sugli aspetti economici.

Il link all'articolo originale è disponibile cliccando QUI

Rassegna stampa:
"Marchionne ringrazia, articolo 8, quello che ci serviva"
Da "Il Manifesto", 17/09/2011

«Quello che ci serviva ci è stato dato». L'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne incassa quel che di peggio il governo ha fatto nella manovra, l'articolo 8 che fa saltare il contratto nazionale di lavoro, e lo rivendica senza peli sulla lingua. «La mossa che è stata fatta adesso dal ministro Sacconi - dice Marchionne al Salone dell'auto di Francoforte - con l'articolo 8 è importantissima e comincerà a dare non solo alla Fiat, ma a tutti quelli che vogliono investire in Italia la certezza che consente di gestire».

«La manovra di Sacconi ha risolto tantissimi problemi» ed «è di una chiarezza bestiale: se la maggioranza dei lavoratori è d'accordo con una proposta questa va avanti, così riusciamo a gestire qualcosa».
L'ad della Fiat non fa prigionieri, considerando che la manovra è stata pesantemente criticata non solo dall'opposizione, ma anche dalla Confindustria di cui il presidente della Fiat John Elkann è vicepresidente. Marchionne se ne sbatte di tutto e di tutti e la controprova è quanto sta accadendo dall'altra parte dell'Atlantico nella trattativa fra il sindacato dei metalmeccanici Uaw con la sua Chrysler, oltre che con General Motors e Ford. A Detroit, il contratto nazionale scade oggi, non è derogabile per legge perché l'amministrazione Obama non è il governo Berlusconi e va rinnovato entro la mezzanotte di mercoledì (ore 6 di giovedì in Italia). «Non è concluso e non ho un contratto ancora. Non siamo vicini», ha confermato ieri Marchionne, evidenziando lo scontro in atto, in particolare nella Chrysler da lui controllata. Perché il sindacato chiede un aumento di 2 dollari l'ora per gli operai assunti dopo la bancarotta del 2009 che, a parità di lavoro, oggi guadagnano la metà dei loro colleghi con più anzianità di servizio. Questa e altre concessioni (come la rinuncia allo sciopero fino al 2014) erano state firmate da Uaw perché Marchionne potesse provare a salvare la Chrysler. Ora che le cose vanno meglio, il sindacato vorrebbe un segnale da parte dell'azienda, ma il muro è più alto proprio nella Chrysler, dove i neoassunti sono molti.

Il plauso di Marchionne alla manovra e al suo ministro Sacconi hanno spinto il segretario della Fiom, Maurizio Landini, a chiedere al Presidente della repubblica di non firmare questo atto. «L'art. 8 della Finanziaria è un attentato ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori perché consente ai contratti aziendali o territoriali di derogare ai Ccnl e alle leggi», accusa Landini, «è un tentativo eversivo di sconvolgimento del diritto del lavoro e della nostra Costituzione. Presenta anche diversi aspetti di incostituzionalità e per questo è necessario che venga stralciato e non sia convertito in legge». Poi l'appello al Quirinale: «Ci rivolgiamo al Presidente della repubblica affinché, in quanto garante della nostra Carta Costituzionale, non firmi una legge in contrasto con i principi costituzionali».

«L'articolo 8 della manovra è dichiaratamente incostituzionale e rappresenta un palese attacco ai diritti dei lavoratori. È grave, quindi, che Marchionne lo esalti in questa maniera. Quando parla della 'chiarezza bestiale dell'operazione fatta dal governò, l'amministratore delegato della Fiat evidentemente non sa che tutti gli accordi interconfederali dal 2008 ad oggi e tutti i contratti nazionali firmati dal ministro Sacconi, da cui derivano quelli di Mirafiori e Pomigliano, non sono stati votati dai lavoratori», rilancia il responsabile lavoro e welfare dell'Idv, Maurizio Zipponi.

Accusa il senatore Pd, Achille Passoni: «Ha ragione Marchionne: l'articolo 8 è di una chiarezza bestiale - commenta il senatore componente della Commissione lavoro - . Così come ha ragione a ringraziare il governo per la 'marchetta' ricevuta con quella norma. Purtroppo per i lavoratori, che si vedono messi in discussione e forse cancellati diritti giuridicamente acquisiti e tutele sancite in contratti collettivi, e per la stragrande maggioranza delle imprese che vogliono competere in un quadro di regole certe e valide per tutte e non in una situazione di possibile dumping industriale, la realtà non è quella descritta dall'ad di Fiat».

Il link all'articolo originale è disponibile cliccando QUI