L’inizio del secondo mandato di Obama non sarà certo
dei più facili. I Democratici hanno mantenuto il controllo del Senato ma
i Repubblicani sono ancora in maggioranza al Congresso e questo vuol
dire che, una volta di più, che il Presidente dovrà trovare un
compromesso con il Great Old Party per far passare i suoi provvedimenti.
Ed il primo test sarà il tanto temuto
fiscal cliff.
La politica e il debito in America
Vediamo
l’antefatto: un anno e mezzo fa, nell’estate del 2011, il debito
americano veniva affossato da Standard&Poor’s che toglieva la tripla
A agli Stati Uniti. In effetti i conti macro-economici sembravano,
almeno in parte, fuori controllo ed erano diventati terreno di scontro
politico. Il problema è che in America il debito ha un tetto determinato
per legge e solo una votazione di Congresso e Senato può aumentare lo
stock di debito esistente, cosa ben diversa dalla situazione europea (o
giapponese, tanto per dire) dove il debito, come ben sappiamo, può
crescere
ad libitum. Nel passato i legislatori americani avevano alzato il tetto massimo senza particolari problemi, ma durante il primo
term
di Obama le cose furono ben diverse, con i Repubblicani decisi alla
guerra totale contro un presidente che, ai loro occhi, cercava di
trasformare l’America in una socialdemocrazia europea
[i], soprattutto alla luce del piano sanitario nazionale che era divenuto il provvedimento simbolo della politica di Obama.
E
dunque i Repubblicani, travolti dal successo dei Tea Party che avevano
dominato le mid-term elections, si fecero portavoci di una intransigenza
fiscale mai vista prima di allora. Anche perché negli ultimi 30 anni
era proprio stato il partito dei Reagan e dei Bush a dimostrare
indisciplina fiscale, soprattutto con i tagli alle tasse, mirati
soprattutto alle classi più agiate, accompagnati da una spesa pubblica
in continua crescita, soprattutto per guerre (Bush junior) ed armamenti
(Reagan). Mentre il debito di Obama era invece frutto di una situazione
contingente, la crisi che aveva messo in moto tutti gli ammortizzatori
sociali del caso a fronte di una ovvia frenata nelle entrate dovuta alla
recessione.
Il fiscal cliff e le sue conseguenze
La
situazione nell’estate del 2011 era di stallo. Entrambi gli schieramenti
riconoscevano l’importanza di ridurre, almeno in termini relativi, il
debito, ma le strade che volevano seguire erano opposte. Dalla parte
democratica si volevano cancellare i Bush tax cuts, cioè le esenzioni
per i più ricchi, da parte Repubblicana, invece, si chiedevano
sostanziali tagli nella spesa sociale. Pressati dalla necessità di
votare, in ogni caso, un innalzamento del tetto del debito, pena
l’impossibilità per il governo federale di pagare i propri debiti, i
contendenti raggiunsero una sorta di accordo di mutua distruzione. A
cominciare dal Gennaio 2013 sarebbero entrati in vigore sia i tagli che
le tasse maggiori – il tanto temuto burrone fiscale.
Un recente studio di Bank of America – Merrill Lynch quantifica il
fiscal cliff come segue:
Fonte: The Cliff, the Economy and Capital Markets, p.7. www.washingtonpost.com
Ovviamente
una manovra di questo genere avrebbe effetti devastanti sull’economia
americana, che entrerebbe rapidamente in recessione, e, di conseguenza,
su quella mondiale. Le stime dell’effetto cumulativo variano tra 600 e
800 miliardi, con un impatto sul PIL fino al 6% ed una recessione
prevista nell’ordine dell’1%.
Nonostante il
fiscal cliff
sia stato fondamentalmente assente dalla campagna elettorale per le
presidenziali americane, la preoccupazione tra gli investitori è salita
esponenzialmente negli ultimi mesi, superando addirittura la crisi
europea. Molte imprese, infatti, vedranno tagliati i fondi governativi
che hanno ricevuto in questi anni. Sanità e difesa saranno i settori più
colpiti (quasi il 75% dei tagli saranno rivolti a queste industrie) con
un calo diretto di quasi il 10% delle entrate
[ii].
Altri settori cruciali, come l’energia e soprattutto l’educazione (con
oltre 180 mila bambini che rischiano di perdere l’accesso a programmi
come Head Start e Child Care Assistance) soffriranno per i tagli.
Anche lavoratori e consumatori saranno colpiti dal
fiscal cliff.
In particolare espirerà l’estensione dell’assicurazione per i
disoccupati, misura particolarmente penalizzante in una America dove la
disoccupazione è ancora quasi all’8% (ed il 40% di questa è di lungo
periodo). E le tasse si alzeranno non solo per i ricchi ma anche per la
middle class
che in America è ormai in continua riduzione. L’incremento fiscale
colpirà in assoluto più i ricchi che i poveri – una crescita del 5.8%
contro il 3.7%. Ma le tasche dei poveri saranno molto più leggere: il
reddito per il 20% più povero si ridurrà del 2% mentre per il 40% più
benestante il reddito disponibile calerà di solo lo 0.1%
[iii].
Molto semplicemente i risparmi governativi si tradurranno in un minor
reddito disponibile per i lavoratori più poveri, affossando l’economia
reale.
Crisi e deficit del settore pubblico
Il primo
term di Obama ha avuto il merito di rifiutare, seppur non
in toto,
la logica dell’austerity che sta affondando il Vecchio Continente. La
maggior spesa pubblica ha tenuto a galla l’economia americana. In
realtà, come dicevamo in precedenza, la maggior spesa pubblica è dovuta
soprattutto agli
automatic stabilizers ed al ciclo economico. Come spiegato dal capo economista di Nomura, Richard Koo
[iv], e ripreso dall’autorevole giornalista del Financial Times, Martin Wolf
[v], la crisi ha avuto come prima ed ovvia conseguenza una “
balance sheet recession”, cioè le imprese hanno cominciato a vendere assets (
de-leveraging) per rientrare delle perdite incorse e per riaggiustare le decisioni di investimento secondo le aspettative modificate dal
meltdown
finanziario. Ma nel sistema economico tutti i conti devono pareggiarsi
(le spese sono uguali al reddito) e un surplus (risparmio) del settore
privato viene equilibrato da un deficit del settore pubblico.
Fonte: http://blogs.ft.com
Nella
figura soprastante si può notare come la linea blu (il bilancio del
settore privato) e rosa (il bilancio del settore pubblico) si muovano
sempre in direzione opposta. Ed il settore pubblico è normalmente attore
passivo in questi movimenti. Durante i periodi di boom crescono
investimenti, profitti ed impiego e, così facendo, anche le tasse. Nei
periodi di crisi avviene esattamente l’esatto contrario, muovendo il
bilancio del settore pubblico verso il deficit. Il problema quindi è
tutto interno al settore privato che ha modificato aspettative e
decisioni di investimento. Non a causa della stretta monetaria – il
famoso
credit crunch – quanto piuttosto perché un mercato in
contrazione riduce le opportunità di profitto. Per sconfiggere la
recessione non possono dunque bastare politica monetaria e
quantitative easing, che possono avere al massimo un effetto palliativo.
Quello
che invece ha tenuto in piedi l’economia americana è stata proprio la
politica fiscale espansiva – anzi, in maniera ancora più esplicita ed
usando la cosiddetta equazione di Kalecki per i profitti possiamo
approssimativamente dire che in una situazione di investimenti
stagnanti, consumi in picchiata e bilancia commerciale negativa è stato
proprio il deficit federale a finanziare i profitti delle imprese
private
[vi].
La logica perversa dell’austerity
Se
il trend è questo – ed è questo, in America come in Europa – allora
l’austerity, cioè i risparmi forzati del settore pubblico quando si
espandono
by default, diventa una politica restrittiva
pro-ciclica. Non meglio, anzi, per molti versi peggiore, di una spesa
pubblica impazzita anche durante i periodi di boom. In quel caso gli
economisti liberali parlano di populismo economico, ma l’austerity ha
conseguenze molto simili, spostare l’economia reale dal suo percorso
naturale di crescita, e quindi dal suo potenziale. Anche in questo caso è
il potere delle lobby a forzare la mano dei governi. Se i liberisti
accusano sindacati, lavoratori e partiti di sinistra di stare dietro al
populismo, nel caso dell’austerity le forze sociali al lavoro sono la
comunità finanziaria e le
rating agencies[vii],
soprattutto, e partiti di destra che vedono nell’austerity la
possibilità di smontare beni e servizi pubblici, diritti sindacali e
garanzie ambientali.
Le giustificazioni, economiche, sociali e
storiche dell’austerity ammiccano al senso comune ma sono essenzialmente
fuorvianti. In materia economica si dice: quando una famiglia ha troppi
debiti e poche entrate deve stringere la cinghia. Non occorre aderire
alla
Modern Monetary Theory per sapere che lo stato non è una famiglia e lo stato le sue entrate le può creare
by fiat
– cioè può stampare moneta. Lo stato, per definizione, non è un attore
economico “normale” perché non può fallire, a meno che non lo voglia.
L’esempio del Giappone, in questo caso, è più che istruttivo, con un
debito pubblico oltre il 200% del PIL e tassi di interesse comunque
molto bassi a testimoniare la fiducia dei mercati.
A livello
mediatico-propagandistico le cose non vanno meglio. I temi più
ricorrenti sono: “meno stato più mercato” e “non possiamo far pagare i
nostri debiti ai nostri nipoti”. Ma sono slogan senza senso. Lo stato
che spende, lo abbiamo appena visto, è figlio della crisi e non certo di
politiche economiche “socialiste”; e per quanto riguarda il non far
pagare i nostri debiti ai nostri nipoti, non si capisce allora perché
farlo pagare ai nostri figli. Ma fuor di polemica, i nostri nipoti
potranno pagare i nostri debiti con facilità se gli lasceremo una
economia in espansione – che in automatico genererà quel surplus dovuto
del settore pubblico – mentre continueranno a pagare i nostri debiti se
lasceremo loro un’economia artificialmente compressa, con meno
opportunità di investimento e lavoro (e non ultimo con meno diritti,
costringendoli dunque ad una vita più grama di quella che, nel passato,
conducevamo noi).
Ma quel che più conta è che i risultati
dell’austerity in Europa sono stati miseri. D’altronde anche l’IMF
nell’appena uscito World Economic Outlook rivede criticamente le proprie
politiche, spiegando che l’impostazione iniziale su cui erano calcolate
le misure di austerity erano erronee poichè si era previsto un
moltiplicatore molto più basso di quello che in effetti era – vale a
dire che i tagli inducono l’economia in una spirale recessiva molto più
ampia di quello inizialmente immaginata
[viii].
E quindi il fiscal cliff….
L’impatto
del fiscal cliff rischia dunque di essere devastante. Meno entrate e
dunque meno profitti per le imprese, minor consumo, peggioramento delle
condizioni di vita, nuovo avvitamento dell’economia che porterebbe a
minori investimenti. In una parola, recessione. Una scelta di politica
economica di questo genere non ha precedenti nella storia degli Stati
Uniti, e un aggiustamento fiscale di questo genere si registrò solo nel
1969-70 (una politica fiscale restrittiva nell’ordine del 3.5%) ma in
presenza di una economia in piena espansione e quindi surriscaldata.
Per evitare di cadere nel burrone fiscale Obama propone dunque un
Grand Bargain, un grande accordo tra Repubblicani e Democratici. Ma non è semplice.
La
destra sembra voler giocare pesante per poter ricattare il presidente. I
repubblicani hanno preso di mira i servizi sociali ed in particolare la
Social Security, Medicare and Medicaid. Ed allo stesso tempo vogliono
salvare i
tax cuts di Bush, inclusi, ovviamente, quelli per i più ricchi. E’ un classico
leit-motif
repubblicano, recentemente supportato da Alesina, Favero e Giavazzi
secondo cui un innalzamento delle tasse ha effetti meno recessivi di
tagli di spesa
[ix].
Ma
un accordo su queste basi sarebbe folle e contraddirebbe il responso
del voto che ha appena ri-eletto Obama. Innalzare le tasse per le fasce
più agiate, dato l’impatto minimo sul reddito disponibile, è sicuramente
la strada maestra, senza dimenticare che entro il 2019 i
tax cuts
e le spese legate alle guerre in Iraq e Afghanistan costituiranno quasi
il 50% del debito totale (9 mila miliardi di US$ su 18). Per di più,
come mostrato da un recente rapporto del Congressional Research Service
non esiste nessuna evidenza storica che tasse minori (soprattutto per i
ricchi) accelerino la crescita economica
[x].
Gli
altri provvedimenti, invece, dovrebbero essere cadenzati nel tempo e
legati all’andamento dei conti economici. Ed i tagli di spesa dovrebbero
entrare in funzione solamente quando il settore privato registrerà una
crescita sostenuta e continuata, cioè quando il
de-leveraging sarà finito e ricominceranno spese ed investimenti. Come d’altronde sosteneva già Keynes, “
the boom, not the slump, is the right time for austerity at the Treasury”.
[i] Un argomento simile è stato recentemente ribadito da
Alberto Alesina sulle colonne del Corriere della Sera
[ii]The Cliff, the Economy and Capital Markets, p.11.
[iii]www.thenation.com
[iv] Koo, R. (2009), The Holy Grail of Macroeconomics: Lessons from Japan's Great Recession, R. Wiley and Sons.
[v]http://blogs.ft.com
[vi] Per una semplice stilizzazione dell’equazione di Kalecki è possibile consultare la figura al seguente sito:
www.economonitor.com
[vii] Non a caso Moody’s ha già minacciato un downgrading se non fosse applicata una buona dose di austerity:
www.reuters.com
[viii] A questo riguardo vedi anche:
http://resistenzainternazionalenmcityoflondo.blogspot.co.uk
http://resistenzainternazionalenmcityoflondo.blogspot.co.uk/2012/11/ancora-sullausterity-e-sui-calcolo.html
[ix] Alesina, A., Favero, G., Giavazzi, F., ,
The Output Effect of Fiscal Austerity
fonte: http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Fiscal-cliff-l-economia-Usa-sull-orlo-del-burrone-15452