lunedì 30 gennaio 2012

La sfida di vivere con solo 100 cose
Di Monica Bedana

Se qualcosa non può andar male, lo farà lo stesso
(Sunto dei corollari di Schnatterly)


Consumare, di per sé, non è un gran verbo.
Implica, al tempo stesso, voracità e spegnimento.
Eppure ci dicono che la crescita si riattiverà solo se riprendiamo a consumare.

Ma ora, davanti al baratro delle disuguaglianze e allo spettro della povertà, vogliamo ancora continuare a consumare ciò che in realtà non possiamo permetterci? 
Si è frantumato lo specchietto per allodole del credito facile, accessibile a tutti, a prova di ogni desiderio. E non c'è Stato che ci protegga dall'insaziabile mercato che ci ha resi tutti consumatori, annullandoci come cittadini e come persone. Anzi, ne è complice asservito; e mentre il capitale rimane impunito, è al lavoro che si chiede di pagare i cocci rotti. Li stiamo pagando sotto forma di tasse e di smantellamento dello stato sociale, di democrazia svuotata del proprio valore perché anch'essa ridotta a merce. Una merce quotidianamente svilita, che vale poco o vale ancor meno in funzione del debito pubblico, della percezione che il mercato ha della nostra capacità di ridurlo e ripagarlo.

Il sistema non si rassegna e continua a vederci e volerci consumatori. 
Se cosí è, disponiamo di un'arma potentissima per cambiare le cose radicalmente, dal basso: iniziare a consumare in modo diverso. Con coscienza. Nella consapevolezza che la popolazione mondiale cresce a ritmi vertiginosi mentre le risorse del pianeta si esauriscono inesorabilmente. Imparando che non sempre è necessario possedere per usufruire, che si può condividere. Dicendo no con discernimento all'eccesso dell'offerta, che rende tutto vecchio e superato in tempi brevissimi e ci impone il superfluo.
E' questo il primo passo per affrancarsi in modo personale dalla schiavitù del mercato: smettere di essere consumatori e tornare ad essere uomini e donne che decidono di non lasciare alle generazioni future solo i miseri avanzi del nostro banchetto.

Negli Stati Uniti imperversa  "100 thing challange" di Dave Bruno, la sfida di vivere con solo 100 cose, né più né meno. E moltissima gente ha iniziato a vuotare soffitte e cantine, disfarsi (anche vendendo o barattando, non necessariamente gettando via) di tutto ciò che in un passato recente sembrava loro indispensabile e che presto è diventato inutile perché soppiantato velocemente dal nuovo.

E' solo questione di riconoscere, finalmente, che abbiamo abbastanza. E' questione sociale, politica ed etica; i tre vincoli -sempre più fragili- da cui il mercato vorrebbe sganciarsi definitivamente. Dipende anche da noi, dalle nostre scelte di vita quotidiana, impedirlo.


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mercoledì 25 gennaio 2012

La morale del Grillo

Prima o poi i nodi vengono al pettine, è inevitabile. In questi ultimi anni il Movimento a 5 stelle ha acquistato un notevole consenso tra la popolazione, lo ha acquistato soprattutto in virtù delle pecche vergognose della politica tradizionale, sempre più chiusa nel Palazzo, sempre più sorda ai bisogni della gente. Con la sensazione sempre più diffusa, a torto o ragione, che tra destra e sinistra - pdl e pd senza l, per usare l'espressione di Grillo - non ci sia più differenza. In questo vuoto, in questa situazione di crisi della politica rappresentativa si è inserito con efficacia il Movimento a 5 stelle.
Si tratta di un percorso classico, molto simile a quello di altri movimenti populisti, a cominciare dalla Lega, l'anti-casta originale, con parole d'ordine chiare e facilmente comprensibili a tutti. Con un leader carismatico, dotato di grande verve e forza comunicativa. E, come tutti i movimenti populisti, con la semplificazione eccessiva di problemi complessi.
Come avevo già scritto qualche tempo fa , il Movimento a 5 stelle è straordinariamente efficace perchè basa il suo programma su micro interventi, legati soprattutto al senso comune più che ad una proposta politica coerente. E quindi no-Tav, meno inquinamento, attenzione alle nuove energie, etc. etc. Tutto giusto, io credo. Se non che al mondo ci si confronta anche con problemi complessi che si fa fatica a ridurre a banalizzazioni. Lo si è fatto contro la casta, con successo. Ed ora Grillo prova a farlo con l'Europa - usciamo dalla UE - e soprattutto con l'immigrazione: no allo ius soli, i figli di immigrati, nati e cresciuti in Italia non devono diventare italiani. E perbacco! Quello dell'immigrazione, per Grillo, sarebbe un falso problema e la cosa non sorprende. Senza una idea del mondo, non è possibile spiegare tematiche complesse. Grilo è un ignorante urlatore, che come tutti i populisti fa leva su odio e paura, insulto e settarismo quasi religioso, il più puro di tutti, anzi l'unico puro. E con una concezione del mondo che se ascoltassimo lui, ci porterebbe indietro di secoli: frontiere chiuse, immigrati fuori, Europa dissolta, e politica all'Americana, accessibile solo a chi dispone di ingenti mezzi finanziari. Ribadisco quello già detto: un mix tra leghismo e berlusconimo che puzza tanto di fascismo prima maniera.
Al netto dei sacrosanti interventi per l'energia pulita, quello che ci prospetta è un mondo da incubo. 

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lunedì 23 gennaio 2012

Radicchio, polenta e cromo
Di Monica Bedana

L'urgenza varia inversamente all'importanza.
(IV legge di Frothingham)

La stagione del radicchio tardivo è al suo culmine.

E' un pensiero che mi riscalda cuore e pancia se non fosse perché in realtà da Milano a Venezia, lungo il tracciato del tristemente famoso “corridoio 5” di direttrice europea, non sappiamo che tipo di porcheria nasconda la nostra terra ad appena un metro di profondità.

Dagli anni '80 si continuano a mescolare milioni di tonnellate di residui industriali inerti ad altri potenzialmente tossici e poi li si usa per l'edilizia, per le infrastrutture o li si seppellisce sotto i campi (quando non si riesce a mandarli al sud). E cosí le lobbies del cemento risparmiano le astronomiche cifre dello smaltimento legale e ci regalano ponti, cavalcavia, strade e perfino parchi, avvelenati. “C'è un pezzo di Marghera in ogni strada del Veneto”, dice Felice Casson; ma non c'è mai tempo sufficiente per indagare, i delitti contro l'ambiente cadono in prescrizione dopo appena 4 anni.

Lungo il “corridoio 5” le ruspe non si fermano mai. Sempre indisturbate quelle del "Gruppo Locatelli", già processato per riciclaggio di scorie, collusione con la mafia, mazzette varie; affiancate però dai mezzi della "Serenissima Costruzioni", che dispone di capitale pubblico e dell'appoggio incondizionato delle istituzioni leghiste lambite dal tracciato. La Lega sbraita "no alla macelleria padana" ; c'è forse macelleria peggiore di quella che ti finisce dentro di soppiatto con la benedizione delle autorità e di Banca Intesa (che non manca quasi mai di reggere le sorti dei grovigli e i capitali delle autostrade del nord)?

La nuova Valdastico sud, che unirà Vicenza e Rovigo, pare sia adagiata su un mare di scarti di materiali industriali provenienti soprattutto da acciaierie e che si stia riversando cromo nei canali di irrigazione, quelli che vanno direttamente alla campagna circostante e, da lí, alla catena alimentare. 
La procura Antimafia di Venezia sta indagando; quando ci accorgeremo che la fetta di polenta che avremo nel piatto avrà un bel colore giallo cromo sarà, come sempre, troppo tardi.

P.S.: Un anno dopo, noi stiamo sempre con la Fiom, la vogliamo in Fiat e come lei siamo al lavoro per la democrazia. Firma anche tu, sulla nostra colonna laterale.

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domenica 22 gennaio 2012

Lettura domenicale:
Giacomo: il bambino che sognava la tuta blu

Da "La Stampa" 22 gennaio 2012

L'attore tra i ricordi del lavoro in fabbrica e i timori per gli eccessi di finanza e consumi

GIACOMO PORETTI

Sono nato nello stesso paese, Villa Cortese, dove è nato un certo Franco Tosi. Lui è venuto al mondo nel 1850, io un secolo dopo. Lui ha fondato un’azienda pionieristica che negli Anni 70 impiegava 6000 lavoratori. Mio nonno, mio papà, il fratello di mio papà ed io, abbiamo tanto desiderato di essere assunti alla Franco Tosi negli stabilimenti di Legnano, a 15 minuti di bicicletta dal nostro cortile. Perché se venivi assunto alla Tosi la tua vita prendeva la strada della sicurezza: 13 mensilità assicurate, due tute blu all’anno e la colonia marina sull’Adriatico per i figli. A Legnano c’è stato un periodo che il Curato fungeva da ufficio di collocamento, e se proprio non gli eri antipatico, al Curato, un posto alla Tosi saltava fuori. Benché mio padre cantasse nel coro della parrocchia, lo zio pure e il nonno non avesse mai mancato una messa domenicale delle 11, nessuno della mia famiglia è mai stato assunto alla Franco Tosi.

Niente di personale, pura casualità; mio nonno ha poi fatto lo stradino, teneva pulite le strade e le aiuole del paese, mio papà e mio zio sono stati assunti in un’altra fabbrica che faceva macchine da cucire per l’industria: la Rimoldi, poi Rockwell, 1100 dipendenti a 18 minuti di bicicletta, 13 mensilità, due tute blu all’anno e colonia marina in Liguria e in Valle Imagna. Ho odiato entrambi i posti, le colonie intendo, in particolare quella di Pietra Ligure. Ma se non era per gente come i Tosi e i Rimoldi, milioni di bambini in quegli anni non avrebbero mai visto il mare. C’è stato un periodo che Legnano era solo un’enorme estensione di fabbriche. Tu nascevi e quando ti battezzavano il prete era in grado di indicarti il tuo destino: Cotonificio Cantoni, officine Pensotti, De Angeli Frua. Il prete mi guardò, poi guardò mia madre e disse: suo figlio ha la faccia da terziario, mi piace poco...

La prima volta che ho conosciuto la fabbrica è stato intorno ai quattro anni. Mamma e papà erano operai. La mamma lavorava alla Giulini & Ratti, tra i telai: gliene avevano affidati 25, tra il primo e il venticinquesimo c’erano 60 metri di distanza e per poterli governare le avevano dato una bicicletta. La mamma mi diceva che la cosa brutta della tessitura non era la fatica, ma il rumore assordante. La mamma dopo quasi 30 anni di rumore non ci sentiva tanto bene, è andata da diversi dottori e adesso ogni due mesi riceve 280 euro, si chiama pensione parziale di invalidità. Il papà invece faceva l’operaio metalmeccanico. Era un fresatore e per otto ore al giorno dava forma ad un pezzetto di ferro, lo ha fatto per 35 anni, sempre la stessa forma. Lui diceva che in quella fabbrica si stava bene, non c’era rumore ma in compenso in mensa si mangiava male.

Quando mamma e papà dovevano fare il turno dalle 6 fino alle 14, allora ci svegliavano a me e a mia sorella, ci vestivano, e poi mia sorella veniva sistemata nel seggiolino ancorato al manubrio della bicicletta della mamma, io invece mi sedevo su quello sistemato sopra la ruota posteriore: abbracciavo i fianchi della mamma e appoggiavo la guancia sulla sua schiena e così riuscivo a dormire ancora un pochino mentre la mamma pedalava fino alla casa di una delle nonne e lì stavamo fino a che non veniva a prenderci il papà a fine turno.

Quando io e mia sorella eravamo piccoli non c’erano le tate e le badanti, quindi i bambini quando i genitori andavano in fabbrica stavano con i nonni. Per cinque giorni della settimana io chiedevo sempre alla mamma perché ci si svegliava così presto, lei diceva «perché dobbiamo andare in fabbrica», «anch’io mamma ci devo andare?», «no, tu non andrai mai in fabbrica, tu devi andare in banca!», «adesso mamma ci devo andare in banca? Ma io ho sonno», «non adesso, andrai in banca quando sarai cresciuto!». Mi sono sempre chiesto se non sono cresciuto per paura di finire in banca, o perché mi svegliavo troppo presto al mattino.

La seconda volta che ho conosciuto la fabbrica avevo finito da poco terza media e sono andato a lavorare in un capannone dove facevano delle pesantissime cancellate in ferro. I miei genitori per un mese non mi hanno rivolto parola: il preside aveva detto che ero un allievo dotato e che sarei stato un bravo avvocato. Io semplicemente mi vergognavo: nessuno nella mia famiglia era andato oltre la quinta elementare, qualcuno ci era arrivato con fatica, qualcun altro si era fermato in terza, ed io che dovevo fare? Istituto per geometri o ragionieri? Siii, imploravano gli occhi della mamma, neanche per sogno dissi io, fabbrica e al massimo scuole serali! C’è stato un periodo in cui indossare quella tuta blu sporca di olio e di grasso, tornarsene a casa alla sera esausto e cercare di lavarsi le mani che non venivano mai pulite per davvero, avere quelle mani ancora sporche di nero anche il sabato e la domenica, era un segno di orgoglio, un orgoglio che nasceva dalla povertà e che chiedeva dignità e risarcimento. Quell’orgoglio di indossare la tuta blu chiedeva alla vita di essere risarciti per averci fatti partire un quarto d’ora dopo il via. Dopo due settimane che lavoravo in quella fabbrichetta (tre padroni e quattro operai di cui due apprendisti), mi ero già pentito: non si poteva parlare, se smettevo di battere il martello sulla lamiera il principale mi chiedeva se ero stato colto da una paralisi, io in silenzio lo mandavo a quel paese e mi dicevo che prima o poi sarei andato a lavorare in una fabbrica seria.

A volte la vita in fabbrica era dura, tornavo a casa alla sera e mi dicevo che dovevo inventarmi qualche cosa per rendermi autonomo, avere un’idea. Una volta ho pensato di fare il calzolaio: avrei risuolato le scarpe al vicino, in cambio della riparazione del carburatore del motorino, visto che lui faceva il meccanico. Poi sarei andato a scambiare una cotoletta dal macellaio in cambio della sostituzione dei tacchi delle scarpe della moglie. Ma poi iniziavano i problemi: se mi viene voglia di mangiare un gelato al pistacchio e il gelataio non ha scarpe da risuolare? Quanti tacchi devo cambiare per avere in cambio un televisore Lcd da 42 pollici? Per almeno due-tre anni ho aspettato che arrivasse una lettera dalla Tosi, ma niente, anzi cominciavano a non assumere più nessuno e a proporre i prepensionamenti, non solo alla Tosi ma in tutte le fabbriche del Legnanese.

E in quel momento è come se fosse iniziata una nuova fase in cui il lavoro manuale dava fastidio, era meglio farlo fare all’estero, in quei Paesi dove costava tutto meno, noi eravamo stanchi di fare i soliti lavori e finalmente, liberandoci della fatica della fabbrica, avremmo vissuto di alto valore aggiunto nei servizi, avremmo tutti fatto dei lavori fighissimi: dall’account, al chief manager, all’executive assistant to president, fino all’executive assistant to drink to president, passando dal make up artist to wife of president, al vice boy lift to president, all’assistant buyer e tra un happy hour, un lunch, un brunch e un punch qualcuno sarebbe diventato un Supreme Superior Super President.

Non ci sono più le fabbriche di una volta, così come non ci sono più i comandanti di navi di una volta; una volta c’erano le fabbriche che facevano gli oggetti, ora ci sono quelle che fanno la finanza; una volta prendevi una nave per andare in America, adesso prenoti una nave lunga 200 metri e ti portano a vedere la luna sugli scogli.

Una volta la classe operaia pensava al suo orgoglio e a come riscattarsi e gli imprenditori con i loro capitali e la loro creatività avevano come compito quello di dare ad ogni famiglia il frigorifero, la tivù, la lavatrice e il benessere. Ora che l’operaio ha gli stessi iPhone del suo datore di lavoro, come la mettiamo? Adesso abbiamo l’ossessione del Pil, dei consumi che non possono diminuire altrimenti il Paese va a rotoli. Nel 2002 siamo andati a N.Y. per girare un film e sui taxi a Manhattan Bloomberg aveva fatto affiggere una targhetta che diceva: spendete i vostri soldi, il Paese è in recessione. Mio padre avrebbe detto: risparmia i tuoi soldi, domani potresti averne bisogno. Chi ha ragione, il sindaco di N.Y. o mio padre?

Mi spiego: per liberismo, secondo me che non ho fatto studi in economia e potrei sbagliarmi, è da intendersi quella visione del mondo per cui il Mercato deve essere libero di agire, non deve avere eccessivi vincoli, anzi nessun vincolo. La Libertà d’impresa deve essere appunto libera di creare. Anche se, per caso, le venisse voglia di elargire dei mutui a centinaia di migliaia di persone, che hanno scarsissime probabilità di rimborsare il debito, anzi nessuna possibilità di rimborsare il debito, in molti casi uguale al 102% del valore della loro casa.

Sì, perché le banche del Liberismo sono generose e, oltre alla casa, sanno che avrai bisogno delle tende a pacchetto e del parquet in rovere naturale e loro, le banche generose, ti finanziano anche quello perché ti vogliono felice nella casa che hai appena comperato. Se alle banche viene voglia di dare una bella casa a tutti gli americani, anzi ad alcuni una bellissima casa con piscina e alla maggior parte una casa con l’ipoteca, ecco, le banche devono poterlo fare. Se poi a quelle banche venisse voglia di girare ad altre banche quei mutui sotto forma di obbligazioni e di venderle ai clienti garantendo che sono investimenti redditizi e sicuri, se questo è il desiderio delle banche devono poterlo fare. Perché al Liberismo sta a cuore, come dice la parola stessa, la Libertà.

Se poi, per ragioni oscure, ai guru di Wall Street, i proprietari delle case nel Missouri o del Tennessee, i famosi intestatari dei mutui al 102%, scoprono non solo di non possedere denaro sufficiente per pagare la tinteggiatura, ma nemmeno la metà del necessario per coprire la prima rata di interessi, alcuni proprietari di mutui, anzi tutti i proprietari di mutui, vanno in banca e dicono di non poter pagare, che succede? Don’t worry, be happy: l’impiegato di banca ritira il mutuo e consegna all’insolvente un kit di sopravvivenza composto da tenda ad igloo color verde speranza e un sandwich vegetariano, perché le banche si preoccupano della salute dei propri clienti. Poi l’impiegato, dopo essersi licenziato da solo, telefona al Direttore, ma trovando la segreteria telefonica lascia questo messaggio: «Ve lo avevo detto che questi mutui erano una pirlata...».

Ora che un sacco di persone vivono in tende color verde speranza, che molti impiegati di banca si sono licenziati e che molti Direttori, anzi quasi nessuno, ha perso il posto, possiamo tirare la morale: il Mercato deve essere libero, anche di sbagliare. E quand’anche sbagliasse e molte banche in giro per il mondo (sì, perché i mutui del Tennessee e del Kansas sono finiti in tutto il pianeta) fallissero in ragione della libertà e della creatività d’impresa, le banche fallite dovrebbero avere la Libertà di chiedere allo Stato di rifinanziare il disastro. E lo Stato non può rifiutarsi perché la prerogativa dello Stato non è la Libertà ma il servizio e il soccorso dei cittadini, anzi di alcuni cittadini.

L’unione commercianti di Milano ha fatto proprio uno degli ultimi studi sulla psicologia del compratore: i negozi dovranno avere sempre la porta aperta, anche in inverno, altrimenti la porta chiusa verrebbe vissuta come un ostacolo al desiderio dell’acquisto. Di questo passo l’Associazione dentisti farà promulgare una legge che consentirà al dentista di poter passare una volta ogni sei mesi a casa per casa per effettuare la pulizia dentale; e al tappezziere di rinnovarti la carta da parati di sua iniziativa una volta all’anno perché se dipendesse dal proprietario di casa il Paese piomberebbe in recessione.

Mi vengono in mente le parole di Robert Kennedy, non proprio un nemico del mercato, nel famoso discorso sul Pil, 1968: «Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». Finisco con l’ultima banalità: che nostalgia la Franco Tosi che costruiva le case, le scuole e gli asili per le famiglie degli operai. Certo non tutta, ma quella classe imprenditoriale sentiva dentro sensibilità particolari, la finalità della sua avventura imprenditoriale non si esauriva nel profitto personale ma si estendeva sino ad assumersi responsabilità sociali.
Dal monologo di ieri dell’attore al convegno della Fondazione Italcementi Carlo Pesenti




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venerdì 20 gennaio 2012

I guardiani dell'ordine capitalista
Di Nicola Melloni

Il downgrading di Francia, Italia e, più recentemente pure dell'Efsf ha scatenato una ridda di reazioni sdegnate. Sarkozy ha usato parole durissime, Draghi ha spiegato che bisogna imparare a fare a meno delle agenzie di rating e che il loro potere va ridotto. Il commissario agli affari economici Olli Rehn è andato oltre, ed ha addirittura accusato le agenzie di rating di essere al servizio degli Stati Uniti. Tutte cose che a dirle fino a poco tempo fa si era tacciati irremediabilmente di vetero-comunismo e di anti-americanismo ideologico.

Anche Obama la scorsa estate aveva attaccato duramente Standard&Poor's dopo che anche gli Stati Uniti avevano perso la tripla A. Più in generale il ruolo delle agenzie di rating è in discussione quantomeno dall'inizio della crisi finanziaria globale. Quelle che per anni erano state descritte come gli oracoli dei mercati avevano fallito miseramente nel dare un giudizio serio del rischio connesso agli investimenti azionari, basti pensare che fino al giorno prima della bancarotta, Lehman Brothers era valutata come investimento ultra sicuro.

Da allora però, nonostante economisti e politici siano d'accordo sulla necessità di una riforma sostanziale del settore, nulla è stato fatto. Non è sorpredente, considerato che i mercati finanziari nel loro complesso non sono stati toccati ed anzi hanno rinforzato ulteriormente il loro potere ed ogni nuova protesta dei leader occidentali serve solo a dimostrare l'impotenza della politica.

Quando Draghi dice che il giudizio delle agenzie di rating è largamente sopravvalutato ha ovviamente ragione. S&P's, Moody's e Fitch svolgono un lavoro che, nella sostanza, è mediocre ed inutile. Come detto, non sono in grado, e molte volte non vogliono valutare correttamente l'operato di grandi imprese ed istituzioni finanziarie che prendono voti altissimi non meritandoli. Il prezzo delle azioni, in quel caso, schizza in alto, aumentando i capital gains dei grandi investitori – ed i guadagni delle stesse agenzie – fino a che la bolla scoppia, distruggendo i risparmi di tanti piccoli investitori (quelli più grandi nella maggior parte dei casi riescono a trovare una via d'uscita, basti pensare al salvataggio di stato delle banche nel 2007).

Nel caso degli stati, il sistema di rating è ancora più ridicolo, basandosi fondamentalmente su dati parziali, impressioni, interviste. Nella maggior parte dei casi il giudizio delle agenzie è semplicemente una copia carbone di quello già emesso dai movimenti di capitale sul mercato secondario. Il primo downgrading dell'Italia, la scorsa estate, non fu la causa ma più che altro il risultato dell'impennata dello spread contro i titoli tedeschi. E lo stesso si può dire ora per quel che riguarda la Francia. In altri casi, il rating è semplicemente assurdo. Basti pensare che la perdita della tripla A negli Stati Uniti ha portato ad un abbassamento e non ad un innalzamento dei tassi di interesse, come invece ci si sarebbe dovuti attendere. O che il downgrading italiano di due settimane fa è avvenuto immediatamente dopo un asta di titoli pubblici di grande successo. Insomma, i giudizi delle agenzie sono spesso inutili, quando non clamorosamente sbagliati e se il mercato finanziario funzionasse in maniera realmente efficiente la triade del rating sarebbe già abbondantemente sparita.

In realtà S&P's and company, sono strumento essenziale e parte integrante del sistema finanziario internazionale, sono le sentinelle del controllo non solo economico ma soprattutto politico che la comunità finanziaria ha su stati e mercati attorno al globo. Non su tutti, a dire il vero: in Cina, ad esempio, esiste una agenzia di rating autonoma ed il governo cinese, ben protetto dalla sua forza economica, se ne infischia tranquillamente del giudizio dei mercati. Il mondo occidentale, invece, vive come ineluttabile la subalternità della politica alla finanza. Ogni giorno ci vengono chiesti sacrifici in grado di rassicurare gli investitori. Ed allora cosa ha da strillare Olli Rehn? Và in giro per l'Europa ad imporre tagli, austherity e recessione ad uso e consumo del capitale transnazionale, e poi critica le agenzie di rating che fanno lo stesso?

Ci si lamenta del peso sproporzionato del rating, ma questo è inevitabile finchè si permette ai mercati di spadroneggiare, di imporre il proprio volere, di speculare senza timori di sorta – non solo sui conti pubblici, ma anche sull'industria privata, ormai serva della leva finanziaria. Si accusano le agenzie di essere organi politici e non super partes, ma non può essere che così, perchè è il mercato tutto ad essere un luogo essenzialmente politico. E dunque, solo una nuova critica dell'economia politica, nel suo complesso e non nelle sue escrescenze, può indicare una via d'uscita dalla crisi.

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mercoledì 18 gennaio 2012

L'arci-italiano
Di Nicola Melloni

Dopo la tragedia del Giglio il web sembra essersi risvegliato sdegnato dal comportamento di Schettino e solidale con l’operato di De Falco, l’ufficiale che esorta il comandante della nave aritornare a bordo. Repubblica prontamente titola: “E' lui l'Italia vera”. Ah si? Mi permetto qui di dubitarne ed anzi vorrei ribaltare il concetto. Schettino è l’Italia vera, altro che. E’l’emblema di un popolo che ha perso qualsiasi parvenza di coscienza civile, di rispetto per il prossimo, di stima vera in sè stessi.

Schettino è il classico parvenu che fa il gradasso con gli amici. Quanti ne avete visti, quanti ne conoscete di quelli che in autostrada fanno la gara solo per dimostrare di essere dei “fighi”? Di vanagloriarsi della loro ignoranza, nella speranza di farsi ammirare da altri, ancora più ignoranti di loro? Vi pare un caso straordinario in un paese in cui un vecchio pervertito si vanta di quante ragazze giovani e giovanissime si scopa in una notte? Soprattutto in un paese che, largamente, ammira il vecchio pervertito e sotto sotto l’invidia!

Schettino è il solito incivile che se ne strabatte delle regole perchè in fondo che sarà mai un piccolo strappetto, ogni tanto. Basta essere furbi, che male si fa? Tanto lo fanno tutti. E poi, ci mancherebbe, sono le regole a essere stupide. Sono le tasse ad essere troppo alte, non gli evasori ad essere ladri. Sono le file a essere troppo lunghe, non siamo noi a saltarle.

Schettino è il tipico personaggio che non ammette di aver sbagliato neppure davanti all’evidenza. Che trova sempre una scusa anche quando è colpa solo sua. Che colto in fallo dà sempre la colpa agli altri. Che se viene multato se la prende con i vigili. O con la sfortuna. Che insulta l’arbitro quando fischia un rigore, sacrosanto, contro.

Schettino è l’emblema della vigliaccheria. I tanti che scappano dopo un incidente. Ma anche i tantissimi che fingono di non vedere, che tirano dritto. Per paura, e per inciviltà. Che non vedono una donna importunata. Che non vedono le violenze che gli capitano sotto il naso. O che magari, semplicemente, non vedono il commerciante che non gli fa lo scontrino, che commette un reato. Ma che in fondo, per comodità, per vigliaccheria sociale, lasciamo fare.

Pensate davvero che Schettino fosse un’eccezione?


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Sempre meno uguali davanti alla giustizia?
Di Monica Bedana

Il giudice Garzón, ieri, durante il processo che gli potrebbe costare l'espulsione dalla Magistratura (foto "El País")


Non esiste il modo giusto per fare una cosa sbagliata
(Legge di Kelly)

“La crisi economica potrebbe fornire un'occasione irripetibile per riformare il sistema giudiziario italiano”. Lo dice il ministro Paola Severino in Parlamento, sottolineando che i ritardi della giustizia italiana ci costano l'1% del Pil.
Non parla di scontro tra toghe e politica il ministro, ma il suo mettere l'accento soprattutto sull'inefficienza del nostro sistema giudiziario e sui suoi costi in termini economici equivale in fondo a dar continuità ad uno dei vari filoni berlusconiani di attacco alla magistratura: giudici sempre lenti, a volte o spesso incapaci, perennemente costosi. Quanto basta per renderli odiosi agli occhi dei cittadini già esasperati da tasse, spese, tagli. Ed equipararli, sottilmente, ad una casta in più da mantenere.

Ancora una volta la politica punta critici riflettori sulla giustizia ed invoca le solite riforme epocali del settore, quando invece ne basterebbero poche, veloci e a costo zero per migliorare di fatto il sistema (le elenca spesso Gian Carlo Caselli: meno “procedure” nei processi, redistribuzione sensata degli uffici giudiziari sul territorio nazionale, riaprire le assunzioni, bloccate da almeno 15 anni, di segretari e cancellieri, personale chiave per lo smaltimento della burocrazia).

La politica che imbriglia la giustizia e la modella ai propri interessi sta offrendo in questi giorni in Spagna lo spettacolo, indegno per la democrazia, del giudice Garzón seduto sul banco degli imputati accusato, da quella politica che ora sta al Governo, di aver applicato la legge.
Questo sí ha un costo insopportabile per la società e per i cittadini: il costo di una giustizia sempre meno uguale per tutti e sempre più legata agli interessi di pochi.

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martedì 17 gennaio 2012

Tetto massimo alla ricchezza

Come ogni sabato, accompagno la mia bimba, dopo un rassicurante corso di inglese per bambini di tre anni (...), a mangiare delle patatine fritte. Andiamo al Mc Donald perché è li attaccato alla scuola. Tutti i sabati vediamo questa vecchietta, sola, che all'apertura delle casse è lì per mangiare un panino con acqua e patate fritte, senza sale.

Questa è la vita questa è il destino che il sistema malato in cui viviamo riserva al genere umano: povertà, solitudine. Coloro che sono responsabili di tale ingiustizia dovrebbero pagare. Coloro che, coscienti di tutto ciò continuano ad arricchirsi sulle spalle degli altri, dovrebbero sentire quanto poco valgono come uomini e quanto vicini sono alle bestie. Dovrebbero provare vergogna e la gente schifo a parlarci a camminare in loro compagnia. Schifo di quello che possiedono, schifo al solo vederli per strada. Una società e uno Stato specchi di un mondo giusto dovrebbero sanzionare tale spazzatura, prevedere limiti a tale arroganza. E questo, badate bene, non solo per il bene dei più, per l'equità e un senso di giustizia, ma anche e soprattuto per il loro bene. Perché la loro coscienza in quanto esseri umani abbia la possibilità di riscattarsi, di salvarsi dal declino dorato nel quale si crogiolano. Tetto massimo ai guadagni dei dirigenti, capi d'impresa, calciatori, tetto massimo alla richezza. Tetto massimo allo spreco. Tetto massimo al consumo.
Questo sarebbe un buon inizio.

Questa non è una poesia.

La dignità umana
è sparita oramai dai radar della coscienza collettiva
milioni e milioni di euro di dollari ville pellicce e lusso con il naso all'insù
e gli occhi bassi
la povertà fa schifo,
e tutto è normale.
arricchirsi sulle spalle degli altri
mangiare, mangiare, mangiare sempre di più
come fanno i maiali all'ingrasso
così fan tutti
così fa la finanza
così fanno coloro che decidono negli Stati Uniti
e altrove
così è questa finanza, l'accumulo, la speculazione
briciole che cadono sulla testa delle gente, bagnate di saliva, la loro
e la dignità dell'uomo ?
cancellata, non è più un valore
così vivono,
fino alla loro morte
incuranti
ignari di aver vissuto come bestie riducendo a bestie i loro simili.




Foto e testo di S.GIOVETTI
Parigi, gennaio 2012


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lunedì 16 gennaio 2012

Questione di classe

Come cambiano i tempi. Il nuovo millennio sembra sempre più simile ai tempi bui di secoli orsono, e dalla ricchezza per tutti che ci era stata promessa dagli entusiasti della globalizzazione, si è tornati velocemente alle differenze di classe, ai poveri contro i ricchi e soprattutto ai ricchi contro i poveri.

La scelta di Trenitalia che ha vietato l’accesso alla carrozza ristorante ai passeggeri di classe standard (http://www.corriere.it/cronache/11_dicembre_26/trenitalia-tariffa-standard-carrozze-bloccate_5b47bcbc-2fd1-11e1-9b6d-efefc737f468.shtml) è stata spiegata come una scelta sbagliata di marketing e pertanto ritirata. Ma non può essere una spiegazione convincente. 

Questo errore è in realtà frutto della società in cui viviamo. Una società in cui, nuovamente, la ricchezza disegna una nuova aristocrazia che disprezza il mondo che la circonda. I poveri (relativi, i veri poveri non viaggiano sul FrecciaRossa) devono essere tenuti a distanza di sicurezza e lasciare in pace i ricchi, non disturbarli, non presentarsi al bar e magari costringere qualche facoltoso magnate a fare la fila per il caffè. Ci mancherebbe altro. Meglio quindi confinare i poveri in 3 vagoni sigillati, da cui non si può uscire. A maggior ragione se questi reietti della società che viaggiano in classe economia sono immigrati – i modelli scelti per la campagna pubblicitaria di Trenitalia. Non sia mai! Non ci toccherà mica vedere questi sudici straccioni trascinarsi attraverso le carrozze di prima classe e disturbare il sonno di lor signori.

Appunto, torniamo indietro. Negli anni 60 Pietrangeli cantava Contessa, che raccontava dello stupore di una agiata signora e del suo amico di fronte alle oscene pretese degli operai – vogliono i figli dottori, scherziamo?? E ben spiegava il disprezzo di quei ricconi per chi non fosse un loro pari – protestando gli operai avevano addirittura sporcato di sangue il cortile e le porte. Anni, decenni di lotte avevano cambiato le cose. I ricchi hanno continuato a tenersi ben lontani dai poveri, ma con un qual certo self-containment. Non era elegante mostrarsi sprezzanti coi lavoratori, ed al massimo ci si rifugiava nel tennis club dove questi non potevano entrare. 

Ma il capitalismo rampante degli ultimi decenni ha di nuovo cambiato le carte in tavola. La ricchezza è qualcosa da mostrare con orgoglio ed arroganza, la povertà è diventata di nuovo vergogna. Non sono più i ricchi a dover rintanarsi nei loro club, sono i poveri a dover essere rinchiusi in vagoni sigillati. Solo in quest’ottica si può leggere una scelta di marketing, sbagliata e controproducente ma che nasce in un substrato sociale e culturale ben preciso. Quello che, per restare in ambito ferroviario, ispirava le parole di un’altra canzone che, purtroppo, sembra tornare di grande attualità:
Un treno tutti i giorni passava per la sua stazione,
un treno di lusso, lontana destinazione:
vedeva gente riverita, pensava a quei velluti, agli ori,
pensava al magro giorno della sua gente attorno,
pensava un treno pieno di signori,
pensava un treno pieno di signori,
pensava un treno pieno di signori...

A Trenitalia forse non lo sanno, ma ci sarà sempre una locomotiva lanciata a bomba contro l’ingiustizia.

Nicola Melloni


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Sorvegliare e seppellire
Il caso del "cimitero dei feti" di Roma
Di Francesca Congiu

Mancano solo le urne cinerarie (quelle per i resti combusti dei sacrifici infantili alle divinità Tanit e Baal) e per il resto l’idea del “cimitero dei feti”, sorto a Roma nel Laurentino  ricorda in tutto e per tutto il rituale di sepoltura dei Tofet, i santuari fenicio-punici di Tharros, Sulscis o Cartagine, costruiti in prossimità delle maggiori necropoli e da queste separati. Probabilmente ispirati dall’origine semitica dell’antico popolo fenicio e dai possibili richiami all’universo biblico, facinorosi antiabortisti cattolici con l’appoggio incondizionato e commosso delle autorità locali, hanno inaugurato qualche giorno fa questo macabro luogo di culto con tutto il suo armamentario kitsch deliberatamente volto a commuovere, impietosire, ingannare: le madonne posticce, le ventoline colorate, i cippi di pietra la cui scritta da lontano potrebbe anche indicare una località della Gallura (e non sarebbe strano ritrovarvi tra qualche tempo sacelli e altari).

Come ricorda Angelo d'Orsi in un recente articolo, non si tratta purtroppo dell’unico caso italiano, visto che a Milano Formigoni con un’analoga iniziativa aveva tolto il primato, bruciandolo sul tempo, al “giardino degli angeli” voluto dal sindaco di Roma.

A colpire, nella vicenda del “cimitero dei feti”, non è solo la rappresentazione di pessimo gusto che ci offre, ma soprattutto quella precisazione insistita delle autorità e delle istituzioni: il luogo deve accogliere solo i feti frutto di aborti spontanei o terapeutici. Tale affermazione, infatti, sottintende la distinzione fra gli aborti di necessità e quelli derivati da una scelta, e palesa in negativo la discriminazione ideologica nei confronti delle donne che optano per un’interruzione volontaria della gravidanza. Il “cimitero dei feti ”si pone quindi come ennesimo tassello dell’estremismo cattolico antiabortista, una crociata le cui tappe, non solo italiane, hanno tratti a volte folkloristici (già nel 1997 l’assessore regionale alla Sanità autorizza un’associazione antiabortista di Novara ad organizzare il “funerale dei feti” ogni fine mese), a volte si fanno aggressivi (nel 2000 due sacerdoti irrompono al S. Camillo di Roma e tentano di impedire l’interruzione di gravidanza di una tredicenne, regolarmente ricoverata con l’autorizzazione del giudice tutelare) a volte persecutori (nel 2003 in Nicaragua – e ci spostiamo in America Latina - una bambina di nove anni, stuprata e rimasta incinta, ha potuto essere sottoposta a interruzione di gravidanza solo segretamente; l’arcivescovo di Managua che si era speso in numerose pressioni psicologiche, evidentemente non andate a buon fine, ha chiesto poi l’incarcerazione dei medici abortisti non prima però di aver proceduto alla loro scomunica).

In Italia tali manifestazioni non si pongono soltanto in contrasto con la comunità scientifica che ha negato l’identità fra feto e persona, ma anche contro la legge, ed in particolare contro la 194 del 1978 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza"), con la quale si riconosceva il diritto della donna ad interrompere, gratuitamente e nelle strutture pubbliche, la gravidanza indesiderata. Con la 194 erano venuti a cadere i reati previsti dal titolo X del libro II del codice penale: prima di quella data l'aborto di una donna consenziente era infatti punito con la reclusione da due a cinque anni, comminati sia all'esecutore dell'aborto che alla donna stessa (art. 546).

Unita alla condanna degli strumenti di contraccezione, questa ossessione per la continuità della vita del feto di cui si sbandierano fantomatici diritti (anche qui in totale disaccordo col Codice Civile dove dall’articolo 1 – “La capacità giuridica si acquista al momento della nascita”- consegue che l’acquisto dell’attitudine ad essere titolari di diritti e di doveri è successivo al venire alla luce), porta con sé la subdola condanna alle donne che volontariamente abortiscono, che non abdicano cioè, al proprio diritto di autodeterminazione, al controllo della propria vita e del proprio corpo. Si registra ancora una volta un affronto ai diritti della donna in quanto persona e insieme l’insanabile contrasto fra l’etica della modernità che fa del dominio di sé l’esito e il fine dell’educazione e dell’emancipazione dell’individuo, e la morale cattolica che ha fatto del controllo dell’anima attraverso quello del corpo, un mezzo per raggiungere il potere, privando e punendo gli individui per quello stesso fondamentale dominio di sé.

La definizione di “potere pastorale” data dal filosofo Michel Foucault è sempre valida: un controllo che mira alla costrizione e alla sottomissione. Si ripropone e ritrova validità l’assunto secondo il quale nella vita delle società secolarizzate, in linea di principio emancipate da ogni rapporto con una verità rivelata, continuano a sussistere e ad operare dei tratti aggressivamente religiosi. Non stupisce ma indigna che la “teologia del potere” ottenga ancora l’avallo delle istituzioni, come nel caso del cimitero di Roma: nel momento in cui la politica offre e impone scelte valoriali e collettive dimostra di aver mutuato per sé stessa quelle tecniche di controllo delle coscienze affinate da una lunga tradizione religiosa, ponendosi così al servizio di una morale specifica e rinunciando alla laicità, fondamentale condizione di uguaglianza. Ciò che si rende evidente, inoltre, è la somiglianza tra potere pastorale e potere patriarcale, a livello sociale politico e familiare.

Fenomeni ideologici tuttora operanti nel tessuto culturale italiano, come la colpevolizzazione della donna che abortisce volontariamente e all’opposto le propagande mediatiche per la “martirizzazione con gloria” di quelle donne che in casi di patologie preferiscono morire invece che abortire, denunciano un irrisolto problema di “genere” operante nella società ad ampio spettro. Bisognerebbe infatti misurare con attenzione quanto questo errore ideologico alligni o aumenti in corrispondenza di una scarsa emancipazione femminile e quanto poi quello stesso errore serva a rinfocolare lo squilibrio di genere, uomo/donna. Si tratta di una marcatura maschilista del tutto palese e tuttora pervasiva per cui si giunge al sospetto che addirittura l’apollinea imparzialità della ricerca scientifica ne abbia subito un condizionamento: pensiamo al ritardo nella conoscenza, alla sottovalutazione, alle diagnosi tardive o mancanti per alcune diffusissime patologie femminili. (A tal proposito, che lo European Research Council incoraggi da diversi anni il settore detto “Women Health”, e che questo stesso interesse si stia verificando anche in Italia, è solo un ulteriore conferma della necessità di sanare uno sbilanciamento che anche a livello scientifico si era fatto ormai evidente).

La pacchiana messa in scena del “Tofet cattolico per feti” all’interno del cimitero romano del Laurentino offre quindi lo spunto per una riflessione sul potere e sul controllo delle coscienze. E porta a ribadire la necessità di uno Stato che difenda i diritti dei cittadini e la libertà di scelta ed autodeterminazione degli individui, senza discriminazione di genere. Uno Stato che soprattutto non conceda il suo “placet” ad un’ideologia medievaleggiante che ancora oggi, attraverso la disciplina del corpo (del corpo femminile in particolare) e
il controllo sul funzionamento della sessualità, si dispone al controllo dell’anima. Non è un caso che in un testo dal titolo emblematico “Sorvegliare e punire”, Foucault avesse parlato dell’anima come “effetto e strumento di una anatomia politica”, allo stesso tempo svelando il cascame più evidente del “potere pastorale”, quello dell’anima come “prigione del corpo”.


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venerdì 13 gennaio 2012

L'IMU che depreda la campagna
Di Monica Bedana

Tramonto di campagna a Vescovana, Padova. Una foto di Luca Rigato



Tra i campi di sterminio e lo sterminio dei campi non c'è differenza
Andrea Zanzotto

L'Italia pare aver completamente dimenticato il fatto di possedere anche un patrimonio agricolo. Se ristrutturato da politiche intelligenti, che lo mettessero almeno in parte al riparo dall'instabilità dei mercati, potrebbe essere un'enorme porta aperta sul futuro di un'economia finalmente sostenibile.

Favorire le zone rurali significa da un lato sviluppare il turismo legato a paesaggio, natura ed ambiente; dall'altro significa potenziare quella immensa fonte di cultura che è la gastronomia, strettamente legata alla peculiarità ed eccellenza dei prodotti del nostro territorio. In entrambi i casi ciò si traduce in posti di lavoro. E in una forma di sviluppo economico che rappresenta forse l'unica alternativa pienamente accettabile alla globalizzazione, rispettosa dell'uomo, dell'ambiente, della storia e della cultura.

Invece questo Governo, oltre a quadruplicare le tasse sui terreni agricoli ha deciso che l'IMU va applicata non solo ai fabbricati rurali, ma anche ai frantoi, ai silos, alle stalle, ai fienili, alle cantine...
Il sacrificio che vergognosamente non si richiede ai grandi patrimoni lo si cava dalla terra e dalla forza lavoro, esattamente come ai tempi in cui Cristo si fermava a Eboli. Tempi di cui nessuno dovrebbe aver nostalgia.

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Cantona, Monsieur le Président

Qui L'articolo di Boris Sollazzo da "Liberazione". Eric Cantona presidente della Francia, miracolo umano e politico.

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martedì 10 gennaio 2012

Ecco perché il mercato non si fida del "tecnico"



di Nicola Melloni


Il giro europeo di Monti riporta d'attualità la gestione comunitaria della crisi che va ben al di là dell'operazione di bassa macelleria sociale attuata dal governo sul finire del 2011. Il nostro Primo Ministro ha cominciato un tour che lo porterà nelle principali capitali europee per perorare la causa italiana con un messaggio molto semplice: se non ci aiutate voi, non ci sono finanziarie che tengano. Da soli non ce la facciamo.
Bella scoperta. A fronte di una delle più sanguinose manovre economiche di sempre il mercato ha reagito aumentando ulteriormente lo spread, ormai ai suoi massimi storici - altro che governo tecnico dei miracoli. Ed indubbiamente il mercato, per una volta, ha ragione. Perché dare fiducia ad un paese che si auto-infligge una recessione, diminuendo volontariamente i consumi privati con tasse più alte per i redditi più bassi?
Già, perché? In realtà il governo Monti ha semplicemente ubbidito al diktat tedesco, tagli dopo tagli, perché i paesi indebitati devono pagare sulla propria pelle i propri sbagli. E' la logica del podestà straniero che proprio Monti stigmatizzava quest'estate sulle colonne del Corriere della Sera.
Salvo poi adeguarsi senza colpo ferire una volta preso il posto di Silvio Berlusconi, tanto da giustificare le misure sulle pensioni, e quelle in arrivo sul mercato del lavoro, come obbligate perché richieste dall'Europa. Non è però ben chiaro cosa sia questa Europa in cui ormai una larghissima maggioranza di paesi chiede gli euro-bond senza successo mentre la sola Germania ha il potere di decidere le politiche fiscali di altre nazioni sovrane, o supposte tali.
Qualsiasi persona di buon senso capisce che non è possibile uscire dalla crisi solo con lacrime e sangue. Non è successo in America negli anni '30, non è successo in Grecia negli ultimi due anni. Sono tutti fatti stranoti che Berlino non può certo ignorare ma che vengono usati ad uso e consumo della Germania. Berlino sta semplicementre replicando il modello di egemonia economica americana degli anni '90, quando il Fondo Monetario Internazionale imponeva riforme economiche punitive - e che avvantaggiavano solamente il capitale transnazionale di origine prevalentemente americana - in cambio dell'erogazione di prestiti. Merkel ha fatto lo stesso prima con la Grecia, ed ora con l'Italia, tentando in maniera neanche troppo mascherata un anschluss economico che mina però anche le basi della democrazia.e finanziarie non si fanno più nel rispetto della volontà popolare, non per aiutare l'economia ed il popolo italiano, ma per compiacere le richieste che vengono da Berlino. Si badi bene, alcuni sostanziali cambiamenti di rotta sono necessari. A nostro parere è la scandalosa sperequazione nella distribuzione del reddito a tarpare le ali all'economia italiana. Altri pensano siano le pensioni di anzianità e i contratti di lavoro. Ovviamente non siamo d'accordo, ma questo è il terreno della lotta politica e del confronto democratico; non può essere deciso ex cathedra da Merkel ed imposto per interposta persona.
Il ricatto tedesco rischia però di portare l'intero continente nel baratro, ed ormai se ne stanno accorgendo un pò ovunque. Merkel scommette sulla debolezza dei paesi europei che non sono in grado di tenerle testa ed alza sempre la posta. Dopo aver obbligato Roma ed Atene a lacrime e sangue ancora non permette l'intervento diretto della Bce e la creazione degli euro-bond. A pensar male si potrebbe supporre che tenti di rientrare di tutti i crediti tedeschi facendoli pagare ai popoli dell'Europa del Sud per poi abbandonarli al proprio destino. Una scelta suicida cui Monti ha il dovere di opporsi con tutte le sue forze. Berlino non sembra avere in mente la salvezza ed il futuro dell'Europa, ma solo l'interesse tedesco e sono proprio queste politiche egoistiche che stanno distruggendo il Vecchio Continente.
Se Monti vuole essere diverso da Berlusconi non solo nella forma ma anche nella sostanza deve essere capace di far sentire la propria voce in Europa, non accontentarsi di essere invitato a vertici internazionali inconcludenti che finiscono sempre con il rinvio delle misure di supporto agli stati in difficoltà. Di rinvio in rinvio siamo ormai arrivati ad un punto di non ritorno, con l'Europa meditteranea costretta dal veto tedesco a pagare tassi da usura sui mercati internazionali ed al contempo obbligata dall'Europa tedesca a tagli di spesa. Per uscirne bisogna mettere da parte le politiche miopi e di corto respiro, tornare ad un vero europeismo dei popoli e non dei mercati, di tutti e non dei più forti, una vera Unione in cui tutti i membri abbiano pari dignità. L'alternativa sarebbe una drammatica disintegrazione di cui tutti, ed in primis la Germania, pagherebbero le pesantissime conseguenze.
Da Liberazione 08/01/2012





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Gentile Signora Monti...

...mi faccia una cortesia, da donna a donna: Mario, lo tenga più in casa, soprattutto la sera. 
Glielo chiedo a fin di spread, perché qui in Spagna da quando l'Elvira ha detto a Mariano che si sarebbe trasferita alla Moncloa solo a patto che lui avesse cenato in casa tutte le sere, il nostro differenziale non ha più superato i 320 punti, mentre il vostro è sempre oltre i 500. E questo è senz'altro dovuto all'eccesso di esposizione, non del debito, ma dell'immagine del Presidente. Quest'uomo concede troppe conferenze stampa, va da Vespa, va da Fazio, gli manca solo il lotto alle otto...e più spiegazioni fornisce, più gli italiani s'inquietano.

Qui invece Mariano esce cinque minuti ogni tanto dalla serra in cui ha preso a curare i bonsai che lasciò Felipe e si limita a dichiarare: "Spagnoli, sto lavorando alla fase due, ma ve la spiego il mese prossimo". E, automaticamente, i sondaggi indicano che il 53% degli spagnoli approva le riforme, le considera necessarie ed ha fiducia nell'operato del Presidente invisibile. Vorrà mica che sia perché all'improvviso il Paese della movida è diventato in massa masochista; no, è per la tranquillità e la sicurezza che da sempre infonde l'uomo di poche parole. Nessuna nuova, buona nuova.

Da quando poi ieri abbiamo saputo, grazie ad un dossier del Barclays (parola di un po' po' di banca inglese, mica la cassa di risparmio di Trebaseleghe) che la BCE avrebbe finora comprato 46.000 milioni di debito pubblico spagnolo, ma ben 90.000 di quello italiano, ci sentiamo in una botte di ferro perché ciò in fondo significa che in questo momento gli italiani farebbero in tempo a schiattare due volte, prima che toccasse agli spagnoli. Mariano dorme tra due, anzi tre guanciali. Ed è amato dal popolo quasi quanto lo Zapatero che ritirò le truppe dall'Irak.

Mi dia retta, signora; alla sera, una minestrina, anche di dado -che il cotechino è pesante-, una tisanina e a letto presto. Per la tranquillità di tutti gli italiani.
Cordialmente,
Monica

PS: Le lascio una delle più belle canzoni di tutti i tempi, quella che conferisce dignità a noi PIGS: "Mediterráneo" di Joan Manuel Serrat. La faccia ascoltare a Mario ogni volta che parte per Bruxelles.

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lunedì 9 gennaio 2012

Populismo distruttivo
Di Nicola Melloni

Il movimento 5 stelle è ormai un fenomeno politico rilevante e merita quindi qualche
considerazione. Alcune delle istanze che porta avanti sono condivisibili e, in qualche maniera, si può
pure capire il rifiuto a stringere alleanze, che potrebbe essere un pungolo importante per i partiti del
centro-sinistra: non ci si può più accontentare del meno peggio. Non starò dunque a stigmatizzare
il movimento per le sconfitte del centrosinistra in Piemonte e Molise, anzi. Nè mi soffermerò sulla
parificazione – invero forzatissima – che Grillo fece tra Moratti e Pisapia.

Epperò il movimento 5 stelle non può convincere e rappresenta, a mio parere, dei voti di protesta
fine a sè stessi e dunque, per definizione, deleteri. Partiamo da cosa manca: non una parola su come
uscire dalla crisi. Non può sorprendere da un partito o movimento che si dichiara post-ideologico.
Senza ideologie, cioè visioni del mondo, è difficile saper dare una chiave di lettura a fatti complessi e
dunque trovare le soluzioni. Non a caso il movimento si presenta agguerritissimo su micro-problemi
(che non vuol dire poco importanti!) in cui spesso un pò di buon senso può bastare per dire cose
condivisibili, dalla TAV all’uso delle biciclette. O alla denuncia degli intrighi del grande capitale.
Ottime idee per prendere voti a livello locale, poco o nulla quando si tratta di risolvere i problemi
nazionali, non parliamo di quelli europei.

Per far fronte a questo problema, Grillo si affida al populismo anche piuttosto becero. Semplifica
a spanne grossi problemi senza apprezzare le sfumature che fanno la sostanza delle cose. Insulta
ed aizza la folla. L’ultimo caso è il linciaggio mediatico del consigliere regionale del movimento in
Emilia-Romagna, additato al pubblico ludibrio solo per aver richiesto un aiuto in favore dell’Unità che
rischia di chiudere. Ma non è certo la prima volta, con Grillo che ha ingiuriato tutti quelli che con lui
avevano fatto un pezzo di strada, da Vendola a De Magistris.

D’altronde Grillo si presenta come un duro e puro, e ci puoi essere amico finchè accetti tutto quello
che dice, senza se e senza ma. Appena sgarri sei fuori, col furore tipico dei movimenti oltranzisti. E
come gli oltranzisti viene fatta di tutta l’erba un fascio. Tipico è il caso del finanziamento pubblico a
giornalie partiti. In entrambi i casi ci sono degli insostenibili scandali: si finanziano giornali inesistenti
come l’Avanti di Lavitola e si continuano a rimborsare le spesi folli delle campagne elettorali. Giusto
intervenire. Ma assai ingiusto dire che dati questi scandali vadano soppressi il fondo per l’editoria e
il rimborso elettorale. A Grillo che tanto critica il capitalismo attuale sembra piacere un pò troppo
il mercato selvaggio. Solo i giornali con molta pubblicità possono stare in edicola, solo i partiti con
finanziatori molto danarosi possono presentarsi alle elezioni. Il modello americano nella sua versione
più selvaggia.

Si rendono davvero conto gli elettori di Grillo che senza soldi pubblici solo i ricchi potrebbero farsi
un partito? E che comunque la sproporzione di mezzi comporterebbe che solo i partiti dei ricchi
avrebbero reali potenzialità di vincere le elezioni? Non sarebbe tanto più semplice fissare per legge
un massimo di spese elettorali (rimborsabili) e costringere tutti i partiti ad adeguarsi? E che dire dei
giornali? Pensa Grillo che solo quelli capaci di farsi un blog per i fatti loro debbano avere la possibilità
di parlare?

Se il discorso è questo – sopravvive solo chi è bravo, come ad esempio il Fatto Quotidiano – perchè
non estendere tale principio ad altri campi. Università private finanziate dalla capacità di attrarre
fondi. Ospedali privati con il pubblico pagante che decide quali sono i migliori. E via dicendo. Invece

la società ha dei costi che vanno finanziati pubblicamente e non possono essere lasciati al mercato.
Sanità ed istruzione sono tra questi, ma certo lo è anche la politica, bene pubblico per eccellenza. La
via di Grillo è semplicemente la via per l’oligarchia.

Infine lo stile, che in politica è anche parte della sostanza. Sorvolerò sulla costante camicia nera
degli inizi, sostituita ora da un più sobrio bianco, o sul grido di battaglia “Italiani!”, assai sinistro per
chiunque conosca un pò di storia. Ma è inevitabile stigmatizzare gli insulti rivolti a mezzo mondo
e comunque a tutti quelli che non sono d’accordo con lo stesso Grillo. Un “vaffanculo” può essere
anche catartico in alcuni momenti, ma non può diventare lo slogan principale di un movimento
democratico. Nel frattempo Grillo rifiuta qualsiasi discussione con gli avversari, preferendo
imperversare nel web senza contraddittorio. Quindi rifiuta interviste e confronti pubblici, affidandosi
solo a monologhi. Dove l’avevamo già visto questo comportamento? Ah, già, ad Arcore. Grillo da
ottimo comunicatore mischia un pò di celodurismo leghista con lo stile da piazzista di Berlusconi,
cioè i due fenomeni mediatici degli ultimi 20 anni. Ma per quanto di successo, rimangono due
modelli profondamente reazionari, basati sulla leadership carismatica e non democratica, sul
settarismo e sul populismo. Non proprio il nuovo che avanza.

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giovedì 5 gennaio 2012

Il treno perso dall'Europa un 6 gennaio
Di Monica Bedana



L'unico modo perché le cose vengano fatte è non tener conto di chi si prenderà il merito.
(Legge di Jowett; è il pensiero del giorno della mia agenda, quella di Murphy)

La vigilia del 6 gennaio dell'anno in cui entrò in vigore l'euro mi colse stipata su un treno quasi merci che da Salonicco tentava di raggiungere Atene in mezzo ad una bufera di neve. Quasi tutta la Grecia era rimasta paralizzata sotto una spessa coltre bianca ed i tessalonicesi davano per scontato, senza scomporsi, che l'aeroporto avrebbe ripreso a funzionare solo al disgelo, in primavera. Per tentare di raggiungere la civiltà non rimaneva che prendere d'assalto l'unico treno in incerta partenza verso sud. Dodici ore di viaggio in condizioni ai limiti della capacità di tolleranza umana, tra sovraffollamento, scomodità di ogni genere, sporcizia, ritardi a catena.

Immersa nel caos generale di un'emergenza relativamente banale, che aveva travolto lo Stato fin dalle prime avvisaglie e di cui toccavo con mano la totale inadeguatezza di ogni mezzo per affrontarla, mentre  percorrevo a fatica il territorio da nord a sud mi chiedevo tra irritazione e stupore come avesse potuto la Grecia entrare in Europa, essere stata ammessa al club dell'euro.
Ero di un Paese che della storia dell'Europa unita aveva scritto i fondamenti; vivevo in un Paese che dell'Europa si stava nutrendo oculatamente e mostrava al mondo i buoni risultati di gestione dei fondi. Erano di sicuro i greci, amministratori incapaci, ad ostinarsi a fare le cose malamente.

Chi avrebbe detto che dieci anni dopo gli  stessi greci sarebbero stati i primi a rimpiangere amaramente di essere diventati europei.
Che io avrei smesso di credere all'idea di Europa come spazio pubblico condiviso in eguaglianza di condizioni da tutti i cittadini, una cittadinanza aggiunta che non rimpicciolisce la cittadinanza nazionale ma le aggiunge valore, come mi raccontava Felipe González.
Che, per questa credulità, ho/abbiamo permesso che dalla sala macchine della costruzione europea fossero esclusi  fin dall'inizio i sindacati. Che ciò ha fatto sí che oggi quegli stessi sindacati abbiano perduto poco a poco ogni loro prerogativa e non dispongano nemmeno di un alito di voce per difendere i lavoratori da questo estremo attacco del capitale ai loro diritti. 
E' conseguenza diretta di quell'esclusione se oggi il sindacato in Italia viene con facilità diviso, gli viene negato un tavolo per negoziare, accede solo a sterili "incontri bilaterali". In Spagna, per identico motivo, baratta invece con disinvoltura l'impiego a tempo pieno per quello a tempo parziale ed accetta con entusiasmo ogni elemosina concessagli dagli industriali.

Chi infine avrebbe detto, dieci anni dopo l'incubo di quel treno greco, che avrei scoperto che sui treni degli italiani -i padri fondatori dell'Europa- , diretti verso il sud si viaggia ogni giorno peggio che su un treno merci e quasi nessuno grida all'emergenza.

Carbone, per il 6 gennaio, a me stessa e a chi, come me, troppo a lungo ha creduto, delegato senza vegliare e continuato a credersi di sinistra.

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Can che abbaia, leghista
Di Simone Rossi

Lo scorso ottobre il Ministro dell'Interno Maroni, in uno dei suoi innumerevoli atti di “cattivismo”, emanò un decreto che prevede l'incremento da €80 a €200 della tassa richiesta per l'emissione, a decorrere dalla fine di gennaio 2012. Un incremento mirato a far cassa sulla pelle dei più deboli, senza peraltro offrire in controparte un miglioramento dei servizi amministrativi rivolti agli immigrati stessi, costretti a lunghe attese prima di vedersi emesso o rinnovato il permesso di soggiorno, talvolta a ridosso della sua scadenza. Si tratta dell'ennesima manifestazione di un atteggiamento vessatorio nei confronti dei cittadini extra-comunitari, a tutto vantaggio della Lega Nord, in grado di soddisfare gli appetiti razzisti del suo elettorato, e di quel blocco sociale che basa la propria fortuna sullo sfruttamento della manodopera immigrata, con lavoro non regolare o con forme di ricatto per giocare al ribasso; blocco che costituisce uno dei riferimenti di Lega Nord e PdL.

È di pochi giorni fa la notizia secondo cui i ministri Cancellieri e Riccardi, rispettivamente a capo dei dicasteri dell'Interno e della Cooperazione Internazionale, intendono rivedere il decreto del predecessore Maroni, mantenendo la tassa ai valori attuali e possibilmente introducendo una forma di progressività legata al reddito ed alla composizione del nucleo familiare. Dopo le riforme e le manovre lacrime e sangue, di cui il ministro Fornero ci ha fornito una dimostrazione in diretta TV (senza sangue, però, perché trasmessa in fascia protetta per i minori), che intaccheranno il tenore di vita di milioni di lavoratori dipendenti e di pensionati, l'Esecutivo guidato da Mario Monti mostra un lato umano, o semplicemente un barlume di buon senso, seppure al momento i due ministri di cui sopra si sono limitati ad un comunicato congiunto.

Ai plausi dei partiti di Centro-sinistra, del PD e del Terzo Polo hanno fatto da contraltare le levate di scudi, forse in taluni casi di circostanza, di PdL e Lega, cui si deve il decreto Maroni. Ad abbaiare più forte sono i parlamentari del Carroccio, in particolare gli ex ministri Marconi e Calderoli, che gridano allo scandalo, con argomentazioni talvolta risibili. Tra queste il fatto che l'importo della tassa sarebbe giustificato dalla complessità amministrativa connessa alle operazioni di rilascio del permesso di soggiorno, scordandosi che essa non è certo dovuta agli immigrati ma alla burocrazia borbonica prevista dalle norme a firma leghista. Per non esser da meno nella gara alla sparata più grossa della settimana, la deputata azzurra Bertolini ha rispolverato quel non-senso che passa sotto il termine di razzismo all'incontrario, secondo cui mantenere la tassa €80 rappresenterebbe una sorta di privilegio garantito agli immigrati a scapito degli italiani che, per contro, non godranno di sconti nel pagamento di bolli e tasse per pratiche amministrative. Come si suol dire: quando la lingua è più rapida del cervello; dal momento che per le medesime pratiche ciascun richiedente, cittadino italiano o straniero residente, paga il medesimo valore.

Se e quando in Italia esisteranno giornalisti al posto degli zerbini del potere, qualcuno chiederà agli “indignati” di Destra dove fossero quando con lo scudo fiscale si consentì ad evasori e delinquenti di pagare un misero 5% sui propri capitali mentre il cittadino onesto paga molto di più in imposte dirette o quando si fecero condoni, fiscali ed immobiliari, strizzando tutti gli occhi possibili ai “furbetti” che fanno dell'Italia quel Paese misero ed immiserito che è sotto gli occhi di tutti.

La notizia è stata riportata dai quotidiani, noi segnaliamo l'articolo apparso sul sito Stranieri in Italia:
http://www.stranieriinitalia.it/attualita-tassa_sui_permessi._il_governo_da_rivedere_14364.html

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martedì 3 gennaio 2012

Grecia, lo specchio del futuro. Cronaca annunciata di una crisi.
Di Nicola Melloni

L'editoriale del 31 dicembre 2011 da "Liberazione"


In questi ultimi due anni Liberazione ha ostinatamente denunciato gli sbagli, le assurdità ed i crimini perpetrati dall'Unione Europea ai danni della Grecia. Ad ogni vertice europeo si assisteva alla solita sfilata di leader che spiegavano come Atene non fosse un problema, come la situazione fosse sotto controllo, come i piani di salvataggio avrebbero rimesso in piedi il paese senza problemi. Ogni volta abbiamo spiegato quali fossero i veri problemi della Grecia e come gli interventi europei peggiorassero la situazione, invece di risolverla. Prima sembravamo piantagrane e disfattisti, poi, pian piano, anche gli altri giornali se ne sono accorti. In un drammatico crescendo l'Europa è stata sostituita dal direttorio franco-tedesco mentre la crisi raggiungeva prima Irlanda e Portogallo e poi Spagna ed Italia. Nulla però, nella sostanza è cambiato, nonostante l'incontrovertibile evidenza del fallimento dei pacchetti di aiuti targati Ue e Fondo monetario.

L'analisi della crisi greca è stata sbagliata fin da subito. Si è tentato di spiegare che il problema fossero i conti truccati e i numeri sballati. In fondo, si sosteneva, la Grecia ha una economia solida e con un banale riaggiustamento dei conti pubblici si sarebbe ridata fiducia ai mercati e ristabilito un circolo virtuoso di crescita. In realtà i problemi della Grecia erano e sono problemi strutturali dell'area Euro, cui si sono aggiunti i trucchi contabili, per altro avallati sia dalla finanza internazionale che dalla Commissione europea. La Grecia, come tutta l'Europa meridionale soffre di un problema di competitività legato al cambio fisso, ed improbo, della moneta unica. Un cambio che ha avvantaggiato l'Europa del Nord e soprattutto la Germania che continua ad avere esportazioni maggiori ad importazioni solo grazie al mercato unico dove i suoi prodotti spadroneggiano.

La creazione di un mercato "tedesco" era stata "comprata" con l'unificazione monetaria e dunque con l'abbassamento generalizzato dei tassi di interesse. Questo ha permesso al capitale internazionale, soprattutto quello tedesco e francese, di cercare nuove possibilità di investimento nell'area mediterranea dell'euro. Ed ogni paese ha usato questi fondi, chi meglio e chi peggio, la Spagna costruendo infrastrutture, la Grecia aumentando il debito pubblico, l'Italia lasciando che l'evasione fiscale si mangiasse i conti pubblici. Alcune scelte sono state lungimiranti, altre criticabili. Ma non si può sostenere, come si continua invece a fare, che Italia, Grecia o Spagna abbiano vissuto sopra i loro mezzi. L'afflusso di capitali, l'indebitamento pubblico o privato è stato pagato in moneta sonante, con un costante trasferimento di risorse dal Sud verso il Nord Europa - che le rimetteva poi in circolo. In parole povere, questo movimento di capitale finanziario era usato, soprattutto, per finanziare le esportazioni dell'industria tedesca.

Il meccanismo, come già negli Anni '80 con i paesi del Terzo Mondo, è esploso in coincidenza di una crisi finanziaria nata altrove e non legata alle dinamiche del debito europeo. Ha però messo in luce i problemi strutturali legati alla composizione del mercato unico europeo. Ed invece si è cercato di spiegare la crisi con la pigrizia e la "dolce vita" dell'Europa latina. Le soluzioni proposte sono state dunque la logica conseguenza di questa lettura parziale e sbagliata. I paesi in crisi sono stati obbligati a tagli e sacrifici per rilanciare la competitività perduta a causa del cambio fisso europeo.

Quindi licenziamenti di massa ed aumento dell'"esercito industriale di riserva" di marxiana memoria per diminuire il livello dei salari, taglio selvaggio delle spese statali per rassicurare i mercati circa la solvibilità dei paesi con deficit e debito troppo alti. Un classico esempio di ristrutturazione capitalista che però è sia politicamente che economicamente disastrosa. La crisi dell'eurozona non è un fallimento dello stato, ma un fallimento del mercato, a volte mediato da politiche pubbliche disastrose come in Grecia, ma non certo nei casi di Spagna ed Irlanda, per anni osannate dagli economisti liberali come esempio di mercato flessibile ed efficiente. Le politiche pro-cicliche della Ue non colgono dunque l'essenza del problema ed hanno, inevitabilmente, peggiorato la situazione.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. La disoccupazione in Europa è alle stelle, in Spagna oltre il 20%, in Grecia al 17%. Nel paese ellenico, taglio dopo taglio, si è solo accentuata la recessione, presto trasformata in depressione. E quindi a tagli si sono aggiunti tagli, perché le entrate fiscali scendono durante i periodi recessivi mentre le spese aumentano. Un circolo vizioso che sta portando la penisola ellenica verso il baratro. In situazioni "normali" di crisi finanziaria, il collasso dei conti pubblici travolge l'economia reale ma offre anche un salvagente per ripartire, la svalutazione. E' successo in Russia, nel 1998, dove il crollo del rublo ha rilanciato la produzione industriale. E' successo in Corea nel 1997 dove la rovinosa crisi asiatica, e le ancor più rovinose medicine del Fmi sono state superate grazie al rilancio delle esportazioni negli anni immediatamente successivi al collasso finanziario. E' successo pure in Argentina dove, dopo il default, l'economia è ricominciata a crescere ed ha avuto le migliori performance dell'America Latina nell'ultimo decennio.

Questo rilancio è invece impossibile in Grecia, con l'euro che blocca ogni possibilità di svalutazione competitiva. La moneta unica è chiaramente un bene da salvaguardare, ma l'unica maniera per farlo era avviare un giusto risanamento dei conti pubblici basato soprattutto sul rilancio dell'economia reale e sul taglio dei veri privilegi - dalle esenzioni agli armatori all'evasione fiscale di massa della borghesia.
Si è scelto, invece, di affondare il Paese. I mercati finanziari hanno ripetutamente bocciato i piani di salvataggio, valutando, a ragione, la Grecia come tecnicamente fallita. Ed infatti, puntuale, è arrivato l'hair cut sui titoli del debito. I ricchi greci intanto partivano con mazzette di euro in tasca dal Pireo in direzione Berlino e Londra, impauriti dal rischio sempre più reale di una uscita dall'euro, di un blocco dei conti correnti, di una svalutazione rovinosa. I poveri invece hanno dovuto subire il fallimento de facto dello Stato, scuole senza libri e ospedali senza medicine.

Ma le contraddizioni del capitalismo, pur emerse con forza e nettezza quasi inaspettate, non hanno per ora portato ad un cambiamento di paradigma, anzi. Le forze della reazione hanno sgombrato il campo, lavorando incessantemente per trent'anni a livello economico, con la sempre più accentuata marginalizzazione del sindacato, e per vent'anni a livello politico col liberismo di sinistra e la scomparsa della socialdemocrazia classica. Per questo il prezzo della crisi, in Grecia, lo pagano i lavoratori. Per questo la stessa cosa succede in Spagna ed in Irlanda, ma anche in Francia ed in Inghilterra. Per questo il problema della Grecia è anche e soprattutto il nostro. La riorganizzazione capitalista ad Atene è solo lo specchio in cui la nostra immagine, l'immagine dell'intero capitalismo occidentale, viene riflessa.

Una immagine orribilmente deformata ma veritiera che mostra una economia solcata ancora una volta da un divampante conflitto di classe. Politici, giornalisti ed accademici prezzolati continuano la loro incessante guerra mediatica, si parla di conflitto inter-generazionale, di privilegiati contro senza diritti, ma ancora una volta la contrapposizione è quella dei poveri contro i ricchi. Le piazze piene di Atene sono composte da chi ormai non ha nulla da perdere, se non le proprie catene. E così sono le piazze italiane degli studenti senza futuro trasformati non in figli della borghesia arrabbiati, ma in proletari in fieri. Ed identiche sono le piazze spagnole degli indignados a cui sono stati tolti contemporaneamente l'autodeterminazione economica e la rappresentanza politica. Qualcosa, sotto la cenere, si muove e non è un caso che ad Atene, come a Mosca e Santiago, in prima fila ci siano le bandiere rosse.

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